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Amazon Kindle Fire: a quando in Italia?

Amazon Kindle Fire

Amazon Kindle Fire di blogeee.net, su Flickr

L’annuncio di ieri da parte di Amazon che in ben 100 paesi (Italia inclusa) verrà a breve commercializzato il Kindle Touch 3G con connessione (al Kindle Store) inclusa, è stata accolto favorevolmente da “addetti ai lavori” e comuni utenti. I motivi di cui rallegrarsi effettivamente non mancano: il Kindle Touch è uno degli ereader maggiormente apprezzati e sicuramente tra i più diffusi, ed ora vanta pure il plus della connessione gratuita inclusa nel “pacchetto”; insomma, un’offerta allettante che alcuni commentatori si augurano possa far decollare una volta per tutte il mercato dell’ebook in Italia.
La mossa di Amazon ha nel contempo sollevato un intenso dibattito (caratterizzato talvolta da considerazione tipicamente “dietrologiche” all’italiana) incentrato sulla domanda cruciale: quando arriverà nella Penisola il pezzo pregiato dei dispositivi targati Amazon, vale a dire la tavoletta low cost Kindle Fire?
A riguardo le posizioni che vanno per la maggiore in Rete sono le seguenti: a) bisogna aspettare che venga approntata la versione di Android customizzata per il mercato italiano, mercato che secondo altri => b) non sarebbe ancora ritenuto maturo da parte del management di Amazon c) le pressioni delle varie lobby nostrane (editori, librai, content provider, etc.) hanno indotto il gigante dell’e-commerce, peraltro sovente accusato di “ammazzare” la concorrenza con pratiche sleali, a ritardare la commercializzazione in attesa che si addivenga ad un accordo su come spartirsi la torta (il tutto, sempre secondo gli assertori di questa opzione, a danno del consumatore finale) d) secondo altri, infine, un ruolo potrebbe averlo svolto il timore che la notoriamente restrittiva legislazione sulla privacy potesse far incorrere il dispositivo made in Seattle in indagini / sanzioni da parte dell’Unione Europea, soprattutto per quel che riguarda il funzionamento del browsercloud-accelerated” Silk.
Personalmente ritengo che un po’ tutte queste posizioni abbiano un fondo di verità: sicuramente la presenza di un SO ad hoc rappresenta un valore aggiunto del prodotto (e pertanto vale la pena attenderne lo sviluppo) così come che la valutazione del “contesto operativo” (ovvero peculiarità del mercato locale, ruolo della concorrenza, cornice legislativa) ha inciso sulle tempistiche di Amazon. Credo però che tra tutti i fattori quello che ha pesato di più sia stato la sostanziale immaturità del mercato italiano non solo e non tanto in fatto di penetrazione dell’ebook (il Rapporto AIE 2011 lo indicava fermo allo 0,04% seppur con trend positivo) ma in generale dell’economia digitale: negli Stati Uniti per il Fire è stato “confezionato” un pacchetto Premium da 70 dollari che consente di ascoltare musica in formato MP3, vedere film, storage illimitato sulla nuvola e via discorrendo. In Italia, a parte la necessità preliminare di stipulare i relativi accordi, semplicemente una cosa simile non sarebbe possibile: la quota di mercato della musica digitale, seppur in crescita, non è ancora in linea con gli altri paesi e per quanto riguarda i film non abbiamo Netflix (e nemmeno il corrispettivo) e questo anche perché infrastrutturalmente (leggasi disponibilità di banda larga… che sia veramente larga) solo poche aree metropolitane riuscirebbero a supportare il servizio. Al contrario, in un perverso meccanismo in cui l’assenza di alternative legali induce ai download illegali ci facciamo rispettare nelle classifiche della pirateria informatica.
Tenendo presente questo quadro di riferimento, è verosimile l’ipotesi, formulata da alcuni osservatori, che indicano il Natale 2012 come data possibile dell’arrivo in Italia (magari in contemporanea con il lancio del fantomatico “Fire 2”)? Dal punto di vista delle tempistiche sicuramente sì… ma forse pure troppo, nel senso che il Kindle Fire arriverebbe da noi ad oltre un anno dal lancio negli Stati Uniti, vale a dire vecchio per quelli che sono i tempi dell’hi-tech. Inoltre dal punto di vista della maturità (e maturazione) del mercato italiano, onestamente non penso che da qui a nove mesi i fondamentali possano cambiare di molto. Intendiamoci, quello natalizio è un periodo propizio per le vendite (Amazon stessa insegna), tanto più che, come ho sostenuto più volte, per quanto il rapporto dispositivi di lettura / ebook sia reciproco, è il primo a far da volano al secondo e pertanto la presenza del Fire potrebbe dare un impulso decisivo nel processo di maturazione del mercato di casa nostra.
Fin qui il ragionamento non fa una piega ma se guardiamo alle mosse della concorrenza, mi viene da ipotizzare un lancio prima di Natale: in estate infatti Google scenderà nell’arena dei tablet con il suo Nexus (questo il nome trapelato) il quale avrà dalla sua un prezzo davvero allettante (150 dollari), il sistema operativo Android Ice Cream Sandwich (mentre il Fire per ora resta ancorato al “vecchio” Gingerbread) oltre che (presumibilmente) la massima integrazione dei vari servizi di Big G e tutti i contenuti del Play Store. Chiaramente un avversario temibile che creerà seri grattacapi; di qui la mia idea che a Seattle potrebbero decidere di giocare in anticipo, con diverse risposte scaglionate nel tempo: a) passaggio ad Android 4 per l’estate (e questa potrebbe essere l’occasione per “sfornare” anche la versione per l’Italia, saltando in pratica la 2.3 ed offrendoci un prodotto appetibile non solo nel prezzo ma anche nel SO) b) per Natale grande battaglia con il lancio di un nuovo Fire il quale, a dar credito alle indiscrezioni, potrebbe avere uno schermo più grande dell’attuale (che ce l’ha da 7 pollici, scelta azzeccata come confermano anche i dati di vendita del Samsung Note; quest’ultimo da pochi giorni è upgradabile ad Android 4.0, a riprova del fatto che è questo lo standard cui ci si deve allineare) giusto per ampliare la gamma di prodotti, tra i quali potrebbe pure comparire un nuovo ereader.
Insomma, i mesi a venire saranno sicuramente densi di novità e, soprattutto, cruciali per il destino dell’ebook.

PS Considerati i massicci riferimenti ai rumor provenienti dalla rete ho approntato su Storify una versione di quest post con gli

Futuro dell’editoria, ruolo delle biblioteche, cloud… e la necessità di una visione integrata

Convegno Stelline 2012 - Valdo Pasqui

Convegno Stelline 2012 - Valdo Pasqui

Scrivo questo post reduce da un autentico tour de force al Convegno delle Stelline / Bibliostar, con tutte le interessantissime relazioni ed i dibattiti da queste scaturiti che mi frullano per la testa… eppure non riesco a togliermi l’idea che in quanto ascoltato ci sia qualcosa che non torna.
Mi spiego: fatta salva la sessione iniziale, ho seguito incontri paralleli e seminari di stretta attinenza con gli argomenti che più mi interessano e che poi puntualmente ritornano in questo blog (vale a dire ebook ed ereader, punti di contatto tra biblioteche ed archivi, cloud computing e via discorrendo), ma ho avuto la netta impressione che gli interventi dei vari relatori, senz’ombra di dubbio tra i massimi esperti nei rispettivi campi, mancassero della necessaria visione d’insieme (sarà forse un caso, ma la relazione che più mi ha colpito è stata quella introduttiva di Maurizio Ferraris che NON è un bibliotecario, insegnando egli filosofia teoretica a Torino). Una serie di esempi renderanno perfettamente l’idea: parlando dell’accoppiata ebookereader si ricordava come il loro uso in ambito didattico non sia la panacea per tutti i mali, essendo (in certi contesti) meno efficaci per l’apprendimento rispetto ai tradizionali testi scolastici di carta; parlando di biblioteca non c’è una visione comune su cosa essa dovrà fare (a proposito quasi opposte le posizioni di Riccardo Ridi e Davis Lankes, con il primo ancorato a compiti più “tradizionali” come quello, tra i tanti, della conservazione ed il secondo tutto proteso verso l’erogazione dei più disparati servizi); parlando di cloud computing ascoltando l’esperto di diritto vien semplicemente da lasciar perdere tutto tali e tanti sono gli ostacoli ed i rischi! Intendiamoci, è comprensibile che essi, proprio perché profondi conoscitori dei vari ambiti, sentano quasi il dovere di evidenziare pregi e difetti, ma potrete capire come l’ascoltatore, dopo essersi sentito dire per due giorni che quelle novità che si ritiene rappresenteranno il futuro non si sa se facciano più bene o più male, non possa sentirsi perlomeno spiazzato.
Tanto più, e qui ritorno al punto iniziale, che mancava nell’analisi una visione complessiva delle trasformazioni; capisco che stiamo parlando di seminari di approfondimento e magari si da per acquisito il contesto di riferimento ma se non si tiene presente il quadro generale il rischio di giungere a conclusioni erronee e drastiche è sempre dietro l’angolo.
Anche perché a mio avviso (e chi ha letto i miei vecchi post ben lo sa) non è possibile scindere la diffusione dei vari device da quella dei contenuti (ebook, ejournal, risorse in genere disseminate su repository in Rete e via discorrendo) e dall’infrastruttura (il cloud) che rendono possibile tutto ciò e che sono nel contempo causa e conseguenza delle trasformazioni in atto a tutti i livelli (di utilizzatore finale, di biblioteca intermediatrice, di editori produttori e/o distributori) nelle modalità di creazione, fruizione e conservazione.
Chiarisco meglio la mia posizione: se rinunciamo agli ebook nella didattica (senza entrare nel merito, ma solo per riprendere l’esempio citato) rinunciamo ad un fattore propulsivo nella diffusione dei dispositivi di lettura; se facciamo a meno del modello del cloud computing e soprattutto all’infrastruttura che lo supporta non solo le potenzialità tecnologiche dei medesimi dispositivi escono ridimensionate ma anche ciò che noi in quanto utenti possiamo fare (usare, creare, salvare e modificare contenuti, condividere, diffondere, etc.); viceversa, senza un’infrastruttura adeguata i nuovi device diventano meno appetibili e a cascata gli ebook hanno meno appeal
Appare evidente che è un sistema altamente interconnesso e che pertanto le biblioteche non possono rinunciare a nessuno degli aspetti elencati a patto di venir velocemente estromesse da queste realtà avanzate; corollario di tutto ciò è, per concludere, che le biblioteche (ma è più sensato parlare del settore dei beni culturali tout court, ma questo è un altro discorso…) inizino a dotarsi di quell’infrastruttura che ne costituisce il presupposto e che attorno a queste creino il proprio ecosistema di relazioni, applicazioni, risorse. Il futuro delle biblioteche è questo e può essere roseo.

Grandi biblioteche: servono ancora?

Biblioteca José Vasconcelos

Biblioteca José Vasconcelos di PVCG, su Flickr

In un momento di crisi economica qual è l’attuale è frequente sentire discorsi del tipo: “i tagli riguardano tutti ed è normale che anche la cultura sia colpita” o al contrario “no, la cultura è la principale ricchezza del paese ed è esattamente questo il momento per investirci”. Sebbene il sottoscritto abbracci in toto la seconda delle due (tra l’altro sono in compagnia di fior di economisti; si veda a riguardo l’iniziativa lanciata dal Sole 24 Ore, principale quotidiano economico italiano), alla luce della lettura dell’articolo Queda en cibercafé la Megabiblioteca Vasconcelos en el DF, mi chiedo e chiedo provocatoriamente: ma siamo davvero sicuri che qualsiasi investimento in cultura sia davvero giustificato? i soldi spesi per realizzare una mega biblioteca come quella descritta nell’articolo rappresentano davvero un buon investimento?
I fatti, così come raccontati dall’estensore del pezzo, sono i seguenti: a sei anni dall’inaugurazione questa avveneristica biblioteca si sarebbe ridotta a mero cibercafé; certo, gli stanziamenti promessi per lo sviluppo delle collezioni non sono arrivati nelle cifre previste (2 milioni di pesos dal 2007 al 2011 a fronte dei 5 milioni annui ritenuti necessari) ma è altrettanto vero che i principali indicatori statistici non sono positivi: 1.714.228 accessi (di utenti; n.d.r.) nel 2011 a fronte di stime che prevedevano dai 4 ai 5 milioni annui, la metà quasi dei quali (735.000) vi si è recata per navigare in Internet. Non soddisfacenti nemmeno i dati sui prestiti: posto che appena il 4,7% dei visitatori (ovvero 81.275 persone) possiedono le credenziali (vale a dire, sono registrati per i servizi di prestito), i prestiti a domicilio sono stati solamente 355.391, cioè poco più di 4 libri a testa, mentre le letture in sala (non so esattamente come calcolate, essendo la biblioteca chiaramente a scaffale aperto) sono assommate a 495.105. Aggiungendo, ciliegina sulla torta, che la struttura presenta problemi di infiltrazioni d’acqua al settimo piano (motivo per cui si è dovuto procedere per ben due volte alla chiusura straordinaria della biblioteca) è evidente come il giudizio complessivo su quest’opera faraonica dall’astronomico costo di 98 milioni di dollari (questa la cifra inizialmente messa a bilancio, in realtà sono stati molti di più proprio per rimediare ai difetti strutturali di cui sopra) presenti molte ombre!
Astraendo dal caso specifico della Vasconcelos, il punto nodale è a mio parere il seguente: ha senso, in un mondo come quello attuale in cui i contenuti si vanno digitalizzando e l’accesso avverrà in maniera crescente da remoto attraverso i più disparati dispositivi, realizzare biblioteche colossali dai costi fissi di gestione immani? Prevedere chilometri lineari di scaffali che probabilmente mai verranno riempiti giacché gran parte dei libri verranno richiesti e fruiti esclusivamente in modalità digitale? Predisporre decine se non centinaia di postazioni Internet fisse quando oramai la navigazione avviene in mobilità?
Ovviamente no e questo vale per la Vasconcelos (tanto più che in Messico il compito di conservare la produzione nazionale spetta alla Biblioteca Nacional de México), per la “nostra” BEIC (qualora qualcuno abbia ancora intenzione di buttarci sopra soldi!) e per qualsiasi altro progetto che abbia lo scopo di assecondare le manie di grandeur del politico / potente di turno e gli interessi speculativi dei costruttori.
Il modo corretto di procedere è, al contrario, quello di effettuare una seria analisi preliminare del bacino di utenza e delle relative esigenze informative (intese qui in senso lato), calando il tutto nel contesto culturale, sociale e tecnologico. Se tale analisi fosse stata fatta, magari sarebbe saltato fuori che in una megalopoli come Città del Messico (quasi 20 milioni di abitanti considerando l’intera conurbazione) era più utile e conveniente creare strutture diffuse sul territorio (o potenziare le esistenti, non conosco nel dettaglio la realtà messicana) capaci di erogare servizi differenziati che trascendono il mero prestito librario. Qualcosa di affine, per intenderci, agli Idea store londinesi, nei quali oltre ai soliti libri, periodici, film e via discorrendo si organizzano corsi di lingua per i neo-immigrati, si danno informazioni tipo “sportello del cittadino”, espongono offerte di lavoro, forniscono notizie sui mezzi di trasporto, sulle iniziative delle associazioni locali, etc.
In definitiva è esattamente grazie a questa attenta analisi preliminare che ogni specifica realtà potrebbe individuare la propria “via alla biblioteca”; in Italia, ad esempio, le sfide poste dall’immigrazione sono diverse da quelle britanniche ed infatti, complice l’assenza di vere metropoli, non esistono quartieri interamente abitati da immigrati (con relativi noti problemi). Al contrario il modello che va per la maggiore è quello della città diffusa che storicamente affonda le sue radici nell’Italia dei Comuni, motivo che farebbe propendere per la realizzazione di strutture decentrate di medie dimensioni e capaci di offrire servizi calibrati sulle reali esigenze (attuali e future, espresse ed inespresse) della comunità di riferimento.
Alla luce di quanto esposto, mi azzarderei pertanto a sostenere che oggigiorno nel mondo, e a maggior ragione in Italia, NON c’è bisogno di realizzare grandi biblioteche (bastano ed avanzano le Nazionali Centrali) essendo le uniche strutture di una certa dimensione delle quali veramente c’è bisogno quelle informatiche, deputate a fungere da “punti di accumulo” delle risorse digitali che poi dovranno venir distribuite, in vista della loro fruizione attraverso molteplici piattaforme, ai vari client, siano essi biblioteche, istituzioni, etc. o gli utenti / cittadini stessi.

Pirateria informatica, ebook e gli archivi di persona del (prossimo) futuro

Copy the pirates

Copy the pirates di Will Lion, su Flickr

L’AIE (Associazione Itaiana Editori) ha ieri diffuso interessanti dati, frutto di ricerche condotte dal proprio Ufficio Antipirateria, relativi alla diffusione di versioni piratate degli ebook: le cifre non lasciano spazio a dubbi interpretativi, dal momento che a fronte di circa 19mila titoli di libri digitali presenti a catalogo (pari al 36% di quelli complessivamente pubblicati nel corso del 2011) in ben 15mila casi è possibile reperire la corrispettiva versione pirata.
Nulla da eccepire nemmeno sull’individuazione di quelli che sono gli attuali canali attraverso cui avviene lo scambio (o meglio, la condivisione) dei file piratati: non più e non tanto sistemi peer to peer ma piuttosto cyberlocker su modello del celeberrimo Megaupload.
Fin qui tutto bene, dunque; non sono d’accordo però su molti altri punti della posizione AIE: in primo luogo, nel report, si fa intendere che la pirateria potrebbe affossare il settore dell’editoria digitale ancor prima che questa si sviluppi appieno. Sarebbe veramente il caso che i responsabili dell’AIE entrassero in qualche sito dedicato all’ebook e si leggessero un po’ di commenti di quelli che potrebbero essere potenziali lettori / clienti ma che rebus sic stantibus difficilmente lo diventeranno; la maggior parte di essi si dice interessata all’ebook ma non abbandonerà la carta finché a) i prezzi non caleranno (complice anche l’IVA al 21% – colpa da non attribuire agli editori – non vi è una sensibile differenza nei prezzi delle corrispettive versioni analogiche e digitali) b) non verranno eliminate le eccessive rigidità, con i vari lucchetti digitali visti come altrettanti elementi che contribuiscono ad “ingessare” il sistema (in particolare l’impossibilità o le complicazioni che si devono affrontare per prestare un libro sono percepite come limitanti se non vessatorie).
Peraltro pare di leggere tra le righe che la crisi dell’editoria sia imputabile anche alla pirateria, cosa che solo in minima parte può essere dal momento che l’editoria digitale pesa solo per lo 0,3% del canale trade (dati del medesimo studio): le ragioni della crisi vanno dunque cercate altrove.
In secondo luogo trovo che la soluzione proposta per arginare il fenomeno pirateria sia destinata a risolversi in un grande buco nell’acqua: va dato atto che l’AIE è relativamemente moderata (non si chiede censura preventiva, come vorrebbero alcuni soggetti “più realisti del re”), dal momento che mira semplicemente ad ottenere la pronta rimozione da parte dei vari provider di quei materiali lesivi di diritti indebitamente pubblicati / resi pubblici. Purtroppo una tale impostazione parte dall’assunto che gli utenti carichino le proprie risorse digitali (testi, audio, video) su infrastrutture di terzi e che questi terzi, su input dei titolari dei diritti, provvederanno a cancellare quei materiali indicati come piratati. Si tratta di una pia speranza e non solo perché i materiali cancellati da una parte ricompariranno il giorno dopo dall’altra (la riproduzione teoricamente infinita delle risorse digitali è cosa nota) ma soprattutto perché a breve i singoli individui potranno bypassare i circuiti di hosting sulla nuvola gestiti da società terze ed agire in prima persona. Infatti con qualche centinaio di euro è possibile acquistare presso qualsiasi negozio d’informatica soluzioni tecnologiche che: offrono un paio di TB di spazio di storage, effettuano il backup automatico dei dati, consentono di creare una personal cloud alla quale si può accedere (ma anche far accedere!) da qualsiasi parte del mondo. Tali soluzioni, si badi, non nascono con lo scopo di favorire la pirateria informatica ma dalla concreta esigenza delle persone di aver a disposizione i propri dati e documenti ovunque esse si trovino (altrimenti è inutile dotarsi di dispositivi mobili dotati di connettività!). Esse inoltre rispondono ad esigenze di semplificazione: in queste personal cloud trovano posto tanto i film che verranno “richiamati” e riprodotti dalla Smart-TV mentre si sta in poltrona così come dal tablet mentre si è in viaggio, tanto gli ebook che verranno letti dall’ereader quanto le tracce MP3 per l’iPod o lo smartphone, senza dimenticare i giochi per la Playstation, le foto di famiglia, i vari software e documenti di lavoro per il PC!
(La questione assume un’interessante rilevanza archivistica giacché saranno questi i luoghi fisici nei quali si “condenseranno” gli archivi di persona e/o di famiglia, seppur con il rischio intrinseco che essi vengano dispersi, vadano incontro ad obsolescenza, siano completamente privi di affidabilità ed autenticità, etc.; mi fermo qui, ma l’argomento sarà sicuramente oggetto di un mio prossimo post).
Chiusa parentesi, torniamo al discorso pirateria: se gli ebook (ma il discorso vale per qualsiasi risorsa digitale soggetta a copyright) iniziano ad essere condivisi attraverso milioni (se non miliardi) di nuvole personali, come pensano di opporsi gli editori? Controllando uno ad uno gli utenti? Impedendo loro di crearsi una nuvola (sacrosanto diritto)? Mettendo lucchetti ancor più rigidi?
Ritengo che prima gli editori ammettono che l’evoluzione tecnologica sarà sempre un passo avanti a loro e meglio è; anzi li invito ad optare per il male minore, vale a dire aprirsi alle (non) regole del web e soprattutto rinunciare all’idea di replicare modelli di business che mal si addicono alla Rete.
Forse, a voler essere provocatori, la cosa migliore è far proprio il motto di Matt Mason (vedi immagine all’inizio) che nel suo Punk Capitalismo (per chi è interessato è edito in Italia da Feltrinelli su carta; è un paradosso, lo so!) suggerisce ai rappresentanti della old economy che il miglior modo per fronteggiare la pirateria, traendone magari un vantaggio, sia copiarla.

PS Per chi vuole approfondire rimando alla versione su Storify.

Da Ranganathan ai social network

Anobii: libreria in legno di Luca Mondini, su Flickr

Anobii: libreria in legno di Luca Mondini, su Flickr

Un paio di giorni orsono mi sono imbattuto, a distanza di qualche annetto dall’ultima volta, nelle famose 5 leggi di Ranganathan; mentre le rileggevo la mia attenzione si è soffermata, cosa che non mi era mai capitata in precedenza, su un preciso passaggio della prima legge, ovvero quello in cui si afferma che:

[Le autorità bibliotecarie] dovrebbero distruggere in germe anche la più leggera intromissione dello spirito di burocrazia in ogni questione connessa con l’uso della biblioteca. Dovrebbero sempre tenere in mente che la biblioteca socializza l’uso dei libri.

Subito il mio pensiero è corso al caso italiano, quello del quale ho maggior esperienza, come utente prima e da bibliotecario poi, e le conclusioni cui sono giunto non sono state affatto positive: se è vero che le biblioteche ed i bibliotecari si sono impegnati e tuttora si impegnano nella “socializzazione” del libro (in senso stretto ed in senso lato) attraverso iniziative di vario tenore quali presentazioni di libri, gruppi di lettura, letture ad alta voce, discussioni e dibattiti ispirati da questo o quel libro e via dicendo, è altrettanto vero che la burocratizzazione nelle biblioteche di ogni ordine e grado (ma massimamente in quelle statali) è una brutta bestia che ha pesantemente ingessato l’attività di questi istituti facendo perdere tempo ed energie non solo a chi ci lavora ma anche al lettore. D’altro canto è innegabile che una certa dose di burocratizzazione non è stata semplicemente imposta dall’alto, ma sovente è stata in un certo qual modo favorita dai bibliotecari in linea con una concezione “patrimonialista” del libro stesso che indubbiamente deriva, e questo va a loro parziale discolpa, dalla tipologia dei libri posseduti, spesso antichi e di pregio.
In ogni caso, al netto di queste specificità tutte italiche, la sensazione è che la prima regola di Ranganathan (o perlomeno il preciso passaggio alla base di questo post) sia stata fortemente disattesa nel nostro Paese.
Queste considerazioni, seppur interessanti, però nulla dicono su quelle che sono le prospettive prossimo-future ed in particolare alla luce dell’impatto notevole che dovrebbe avere la diffusione dell’ebook. Riguardo a quest’ultimo affascinante argomento è possibile sin da ora formulare qualche previsione: ad esempio è verosimile ipotizzare che, in linea con l’ambiente (latu sensu) nel quale il libro elettronico si troverà a vivere, ovvero quello dei bit e della Rete, il tasso di burocratizzazione sia giocoforza destinato a calare. Parimenti, in considerazione del successo riscontrato da tutti quei siti di social networking che hanno basato il loro successo su aspetti quali la condivisione e la collaborazione, non si può non pensare che anche la seconda raccomandazione di Ranganathan (= la “socializzazione” del libro) possa felicemente realizzarsi.
Tutto bene dunque? Non esattamente, o almeno, bene ma non proprio così come sperato dall’illustre bibliotecario (e matematico) indiano! Infatti non sfugge anche ai più distratti osservatori come il compito della biblioteca (e dei bibliotecari) di favorire la socializzazione dell’uso dei libri stia gradualmente sfuggendo loro di mano; basta fare un rapido giro nei principali social network destinati al libro / servizi di social reading per rendersi conto di come questi ultimi semplicemente snobbino queste istituzioni che, inutile dirlo, faticano a tenere il passo dell’innovazione. Gran parte di questi siti infatti sono destinati a “lettori per lettori” e le biblioteche, qualora sia prevista la loro presenza, hanno un ruolo puramente accessorio; i bibliotecari poi possono ovviamente parteciparvi ma in genere a titolo personale e non “a nome dell’istituzione” biblioteca. Certo, c’è sempre l’escamotage di inserire i propri dati personali ma di far vedere pubblicamente come “nome utente” quello dell’istituto di appartenenza ma dal punto di vista legale la soluzione mi sembra non esente da rischi e comunque la sostanza non cambia: sui siti di social network / social reading non si gode di alcuna preminenza e l’eventuale “reputazione” presso gli altri utenti deve essere guadagnata sul campo!
La domanda da un milione di dollari è pertanto la seguente: come possono essi recuperare le posizioni perdute, soprattutto in considerazione del fatto che è lo stesso luogo di “socializzazione”, ovvero la biblioteca, a venir meno? Per rispondere a questo quesito bisogna chiarire preliminarmente cosa sarà, in futuro, una biblioteca; a mio parere essa sarà, dal punto di vista dell’utente (= quello che ora ci interessa di più), l’interfaccia grafica con la quale quest’ultimo interagirà (che poi dietro a questa ci sia un duro lavoro di selezione, descrizione, etc. delle risorse non è ora motivo del contendere). Partendo da queste premesse l’obiettivo di “socializzare l’uso del libro” è raggiungibile attraverso due vie complementari: 1) completando l’evoluzione degli attuali OPAC in SOPAC (Social Online Public Access Catalogue), ovvero inserendo quelle funzioni tipiche del web 2.0 (commenti, condivisioni, like, tweet, sottolineature, rielaborazioni originali, etc.) che consentono di trasporre sulla Rete quei dibattiti, riflessioni, etc. che tradizionalmente si svolgono nel luogo fisico “biblioteca” 2) integrando ove possibile questi SOPAC con quei siti di social network / social reading che, inutile dire, attraggono molta più gente di quella che normalmente frequenta le biblioteche “tradizionali”. E’ questo dunque, aspetto tutt’altro che da sottovalutare, anche un ottimo modo per raggiungere fasce di popolazione con le quali in precedenza non si era mai entrati in contatto.
Il conseguimento di questi obiettivi, si badi, non si raggiunge però attraverso la “mera tecnica” ma serve bensì un cambiamento culturale da parte dei bibliotecari; detta in soldoni non è sufficiente realizzare una interfaccia user friendly con tanti bei bottoncini colorati ma occorre che essi “vadano dagli utenti” là dove questi ultimi discutono e “parlano” di libri. Si tratta dunque di un cambiamento di prospettiva radicale, specie se si pensa a quei bibliotecari (non tutti, per carità, ma ce ne sono!) abituati ad aspettare che siano i lettori a varcare la soglia della biblioteca ed a chiedere di uno specifico libro mentre dovrebbero essere loro ad andare attivamente alla ricerca degli utenti stimolandone i bisogni informativi!
Nel web, dove una biblioteca non dista chilometri da un’altra ma al contrario tutto è a portata di click, il permanere di questo atteggiamento attendista equivale semplicemente ad un suicidio ed occorre pertanto avviare una efficace politica “attiva”. Certo, a giudicare da quelle che sono le principali iniziative online dei bibliotecari (che giusto per fare un paio di esempi si riuniscono in liste di discussione di norma precluse ai “non iniziati” e quando dialogano con gli utenti lo fanno spesso in modo unidirezionale) la strada da fare è molta ma bisogna avere la consapevolezza che solo così facendo la raccomandazione / l’auspicio di Ranganathan citato all’inizio potrà veramente essere fatto proprio e trovare concreta attuazione.

E-book in Italia, l’incertezza continua

Samsung eBook Reader with a paperback book

Samsung eBook Reader with a paperback book di umpportal.com

I tanto attesi dati definitivi sull’editoria e sull’ebook in Italia nel 2010, attesi soprattutto perché quelli forniti dall’AIE possono a buon diritto essere considerati come “ufficiali”, non hanno contribuito a fare quella chiarezza che ci si attendeva. In generale torna il segno positivo (+ 0,3%) ed aumentano i lettori (come evidenziato tempo fa anche dall’ISTAT), ma calano numero di nuovi titoli e tirature medie, risultati che in considerazione della crisi in atto possono essere anche accolti con moderata soddisfazione.
La cosa preoccupante è che l’ebook, come peraltro ampiamente percepito senza il bisogno di raffinate indagini, non cresce come dovrebbe fermandosi allo 0,04% (lontano da quell’1% indicato l’anno scorso proprio di questi tempi come obiettivo a portata di mano). Nel suo intervento Marco Polillo, presidente AIE, ha giustamente ricordato come non aiuti l’IVA (salita, contro ogni logica, al 21%) così come il costo dei principali dispositivi di lettura si mantenga elevato, ma non vengono affrontati a mio avviso quei nodi cruciali che ho elencato nel mio post di ieri: portabilità, necessità di omogeneizzazione su un unico standard, niente DRM, niente frammentazione dei titoli tra i vari online bookshop (le vendite di questi ultimi sono in aumento ed è una cosa positiva in quanto sarà attraverso tali canali che il libro elettronico verrà principalmente commercializzato), appoggiarsi a biblioteche pubbliche e sistema scolastico in quanto strutture radicate tra la gente capaci di far conoscere a tutti l’ebook (a proposito, si legga questo articolo apparso oggi e che conferma con dovizia di dati quanto ieri sostenevo, pur basandomi su altre fonti, ovvero il ruolo di volano che public libraries e sistema educativo stanno svolgendo negli Stati Uniti nella diffusione del libro digitale).
Insomma leve sulle quali agire per ottenere un cambio di marcia ci sono, certo l’incertezza sul futuro dev’essere tanta se è vero che l’AIE, ed in particolare Polillo nel suo intervento, ben si guardano da fare stime sul futuro prossimo venturo (ci si limita infatti solo a dire che il numero di titoli crescerà). Evidentemente la paura di restare scottati è tanta.

La consueta versione su Storify è puntualmente corredata dai documenti cui ho fatto cenno in questo post e che invito tutti a leggere.

Tablet ed eReader avanti a braccetto

Alice & Andy iPad ebook

Alice & Andy iPad ebook; foto Science Office

I dati rilasciati da IDC alcuni giorni orsono circa l’andamento del mercato di tavolette ed eReader a livello globale contengono alcune conferme ma anche molte sorprese; la prima conferma è che l’iPad continua ad essere il dominatore assoluto del mercato dei tablet con una quota del 68,3%, addirittura in salita rispetto al 65,7% della precedente rilevazione; la seconda conferma è che alla concorrenza restano le briciole: il PlayBook di RIM si deve accontentare del 4,9% ed il TouchPad di HP, in attesa che l’azienda decida che vuol farsene della divisione PC, del 4,7% ma solo perché negli Stati Uniti viene svenduto a 99$, come gli eReader di fascia bassa. E’ proprio da quest’ultimo settore che provengono le maggiori sorprese: nonostante le consegne di tablet siano cresciute dell’88,9% rispetto alla precedente rilevazione e la performance anno su anno sia a dir poco strabiliante (+ 303,8%; e le previsioni per la parte finale dell’anno sono ulteriormente al rialzo!), ciò non sembra andar a discapito degli eReader i quali, nonostante un calo congiunturale del 9% (attribuito a motivi stagionali), possono ugualmente vantare una crescita rispetto al 2010 del 167% (anche in questo caso le previsioni per la rimanente parte dell’anno sono per un ulteriore aumento)! Pure qui c’è un chiaro leader del mercato, vale a dire Amazon con il suo Kindle, anche se le percentuali non sono bulgare come nel caso dell’iPad. Il lettore della casa di Seattle infatti detiene il 51,7% del mercato, ma il Nook di Barnes & Noble con il 21,2% fa la sua onesta figura. Insomma sembra proprio che tablet ed eBook Reader non si stiano scannando a vicenda, come temuto da alcuni, ma che a farne le spese siano altri dispositivi, netbook su tutti. Certo, in valori assoluti le tavolette, dall’alto dei 62,5 milioni di pezzi che si stima saranno venduti entro l’anno, staccano nettamente gli eReader che si fermeranno, si fa per dire, a 27 milioni di unità ma considerate assieme si arriverà a sfiorare la ragguardevole cifra di 90 milioni! Ovviamente questo è il punto cruciale della questione in quanto la presenza di una adeguata base di dispositivi di lettura è la conditio sine qua non per il decollo degli eBook!
In tal senso il Natale 2011 potrebbe sancire anche in Europa il definitivo decollo del libro digitale dopo aver assistito lo scorso anno, nonostante i roboanti proclami, ad una falsa partenza: troppo pochi a mio avviso erano i lettori in circolazione ed ancor meno (specie in Italia) i titoli disponibili a catalogo. Oggi, a distanza di un anno, i motivi di ottimismo per l’andamento dello shopping natalizio sembrano essere maggiormente fondati: da una parte si ritiene che il nuovo reader di Amazon riuscirà a fare il botto di vendite, dall’altra che la sua apparizione, innalzando d’un sol colpo il livello di quelle che sono le caratteristiche tecniche “minime” degli eReader (schermo a colori e multitouch, funzionalità varie, etc.), metterà fuori mercato gran parte della concorrenza (Nook Color a parte). Di conseguenza i rivenditori si troveranno a dover eliminare le scorte a magazzino di eReader in bianco e nero, vendendoli a prezzi allettanti (sotto i 100 dollari), il che darà un’ulteriore spinta alle vendite complessive! Considerando poi che questi nuovi possessori potranno attingere a cataloghi che nel frattempo si sono ulteriormente arricchiti, è verosimile che almeno per il settore dell’editoria digitale (inteso qui in senso lato) le prospettive prossimo future siano positive!

PS In un mio recente post affermavo che, dovendo scegliere tra tablet ed eReader, diversamente da quanto avrei fatto un anno fa non avrei avuto alcun dubbio, puntando tutto sulla tavoletta; la precisazione fatta da IDC nel comunicato stampa che è stato alla base di questo articolo, ovvero che essa considererà il prossimo dispositivo di Amazon come un eReader in quanto, in base alle indiscrezioni in suo possesso è molto più avvicinabile al Nook che all’iPad2, non modifica la mia opinione a riguardo poiché IDC stessa riconosce che la nuova generazione di lettori di eBook sarà nettamente più performante rispetto alla precedente, ed in questo senso la categoria nel suo complesso si avvicinerà come caratteristiche alle tavolette. Sorvolando ora sul fatto se sia in atto una convergenza (magari sarà l’oggetto di un futuro post!), dico solo che ipotizzando per il nuovo lettore di Amazon un posizionamento su una fascia di prezzo analoga al suo principale avversario, il Nook Color, ovvero sui 200 euro, dovrà possedere davvero numerose funzionalità per trattenermi dallo spendere qualche centinaio di euro in più ma avere un dispositivo di tutt’altro livello!

In libreria “Archivi e biblioteche tra le nuvole”

"Archivi e biblioteche tra le nuvole" (front cover)

Come preannunciato nel precedente post ho pubblicato un libro su cloud computing e dintorni.
In particolare parlo delle sue applicazioni in ambito archivistico e bibliotecario in sinergia con la diffusione dei nuovi mobile device, il che mi porta ad approfondire temi quali il social reading / networking, il fenomeno dello storage sulla nuvola e tutti i connessi problemi di privacy.

“Libri in prestito a pagamento”? No grazie!

Nel corso dell’E-book Lab Italia (Rimini, 3-5 marzo 2011) si è parlato, tra le tante cose, di prestito di e-book e relativi modelli di business.
In sostanza Simplicissimus BookFarm ha annunciato che a breve dalla sua piattaforma si potranno prendere a prestito per brevi periodi (24 ore, 1 settimana) e-book (protetti con drm a tempo) ad un prezzo medio di 99 centesimi; questo sistema, si suggerisce, potrebbe poi essere fatto proprio dalle biblioteche.
Similmente afferma di volersi muovere Edigita, appoggiandosi a MediaLibrary, che come noto ha già in essere precisi accordi con le biblioteche.
Ora, sorvolando sull’inopportuna definizione di “prestito di e-book” quando poi si chiedono soldi per tale servizio, capisco che il sistema dei micropagamenti è già stato affinato (iTunes docet) e che dal punto di vista psicologico acquisti così parcellizzati (il prezzo medio, come già detto, è inferiore all’euro) possono spingere ad effettuare molteplici transazioni, ma personalmente non vedo il senso di pagare per prendere a prestito un libro del quale potrei aver voglia/bisogno di rileggere un determinato passaggio. Un libro non è un dvd! Mi si può allora obiettare che, qualora dovessero subentrare nel prestito come intermediarie le biblioteche, il lettore / utente finale non sborserebbe nulla di tasca propria e su questo posso anche concordare.
Il punto però è che alcuni editori chiaramente mirano a by-passare il circuito delle biblioteche, ma in tal caso si torna all’ipotesi di cui sopra: solo in certi specifici casi pagherei per un libro a prestito e dunque per gli editori la vedo dura (essendo la quasi totale gratuità un punto di forza del “servizio bibliotecario” ). Per concludere dal punto di vista delle relazione biblioteche – editori poi è tutto da verificare che alle prime convenga questa formula dei micropagamenti e del pay-per-use: sicuri che non sarebbe meglio un bel piano flat?

e-Book, eBook, Ebook, e-book o come?

La questione potrebbe apparire banale o comunque una cosa da poco visti gli altri problemi in campo, ma al sottoscritto piace la chiarezza e quindi sottopongo a voi lettori il dilemma?
Qual è la corretta forma per scrivere “e-book”? Sì perché se sul significato del termine tutti più o meno siamo d’accordo, ognuno sembra scrivere a proprio piacimento la forma abbreviata di “electronic book” (libro elettronico).
In principio era e-book (come e-learning, e-commerce, etc.) ma poi, forse scimmiottando Apple la formula di successo adottata dall’azienda di Cupertino per chiamare i propri prodotti (iPod, iPhone e da ultimo iPad) si è iniziato a vedere le varie formule eBook e talvolta Ebook… oppure formule intermedie del tipo e-Book (come se “Book” fosse un nome proprio!).
A mio avviso la formula più corretta è la prima, vale a dire e-book, essendo la “e” quel che rimane di “electronic” e book un semplice nome comune di cosa, unita da un trattino come si “costuma” nei paesi anglo-sassoni.

E voi che ne pensate?