Dalla crisi di SoundCloud un campanello d’allarme per gli archivi musicali in cloud

La notizia l’ha data per primo Techcrunch: SoundCloud, “lo YouTube della musica”, si trova in serie difficoltà finanziarie e, con l’obiettivo di tagliare i costi, si accinge a licenziare il 40% del proprio personale.
Nel prosieguo del post, il blog tecnologico californiano si sofferma principalmente sulle questioni economiche, sull’analisi del perché il modello di business adottato non abbia funzionato, esplorando le possibili opzioni per il rilancio di questo universalmente apprezzato servizio. Solo in chiusura dell’articolo ci si pone la domanda, ovviamente centrale per il sottoscritto, della fine che faranno, in caso di chiusura definitiva, le migliaia di tracce audio finora caricate: a tale domanda non viene fornita risposta ma l’autore non manca di evidenziare di come si tratti in molti casi di “rarità” (i file audio caricati consistono infatti per la maggior parte di remix artigianali, podcast, esecuzioni live, etc.), soggiungendo, con una vena nostalgica, come a venir meno è una piattaforma che ha rappresentato e tuttora rappresenta un punto d’incontro per decine di musicisti indipendenti, stimolandone la creatività.

A tornare con decisione sul punto è Brian Feldman del New York Magazine: Feldman infatti ricorda che, dovesse chiudere SoundCloud, a sparire sarebbero non solo le tracce audio ma anche un’intera scena musicale (quella del cosiddetto “SoundCloud Rap”, genere caratterizzato da contaminazioni punk, emo, etc. sul quale ha scritto persino il New York Times e del quale riportiamo qui sopra un sample) con la relativa community (virtuale ma anche fisica), contraddistinta da specifici linguaggi, codici e stili. Il problema, per Feldman, non è pertanto esclusivamente di business ma anzi soprattutto “culturale” e questo perché “as we move creative scenes from cities and neighborhoods and onto the web, we outsource the publishing, storage, and archiving of their products to young, for-profit businesses — and therefore run the very serious risk of losing huge and important libraries of culture […]”. Ecco dunque che da più parti si invoca l’intervento di un cavaliere bianco che salvi l’azienda o, dovesse la situazione precipitare, almeno le tracce musicali fin qui caricate. Peccato che anche quest’ultima strada non sia esattamente indolore: secondo Jason Scott di Internet Archive per conservare “nel prevedibile futuro” (arco temporale, permettetemi, alquanto fumoso…) il petabyte di dati che costituiscono l’archivio musicale di Soundcloud, sono necessari da 1,5 a 2 milioni di dollari, cifra che, per un’organizzazione che vive essenzialmente di donazioni, non è così semplice racimolare.

In attesa di vedere l’epilogo di questa storia, tre mi pare siano i punti degni di essere messi in rilievo: 1) con l’avvento della cosiddetta musica liquida, vale a dire fruibile senza la presenza di un supporto fonografico tradizionale (sia esso CD, vinile oppure nastro), la “musica” – secondo un trend che come noto riguarda anche altre tipologie di materiali – non risiede più presso il soggetto produttore né tantomeno presso il generico fruitore bensì presso aziende private (com’è appunto il caso di SoundCloud) che spesso e volentieri impongono pesanti vincoli / limitazioni al loro ascolto (è ad es. risaputo che con servizi tipo Spotify oppure iTunes non si acquista la musica che si ascolta, bensì la si noleggia) 2) se chiude il servizio, viene in definitiva a mancare il contesto (che, in base ai principi archivisti, è non meno importante dei documenti stessi) che ha consentito la genesi e la formazione delle “canzoni”; ciò significa, per replicare idealmente a Jason Scott di Internet Archive, che non si tratta solo di reperire i soldi necessari per le relative risorse di storage ma di conservare la “piattaforma SoundCloud” tout court (!), il che, inutile dire, è affare leggermente più complicato 3) anche da questa vicenda emerge l’estromissione, o peggio ancora l’impotenza, degli istituti pubblici di fronte alle sfide poste dal digitale: nel caso italiano, ad esempio, l’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi (ex Discoteca di Stato), che in base alla Legge 106/2004 sul deposito legale dovrebbe provvedere alla raccolta “di tutti i beni sonori ed audiovisivi prodotti e distribuiti in Italia”, ben poco avrebbe potuto fare preventivamente e questo per il semplice motivo che, nel momento in cui ci si affida a servizi (peraltro stranieri) come SoundCloud, la produzione e distribuzione musicale non passa più attraverso le case discografiche che, finora, controllando il mercato avevano anche potuto fungere da collettore di quanto prodotto.

Il quadro sopra delineato risulta dunque alquanto cupo giacché è la natura stessa della musica liquida (punto 1) a renderne difficile, per quanto non impossibile, l’archiviazione; oltre agli aspetti legali, concorrono a rendere ardua questa “cattura” oggettive criticità tecnologiche (punto 2) e di inefficacia – ma vien quasi da dire inattuabilità – delle prescrizioni legislative (punto 3). Con queste premesse pare difficile pensare che, in futuro, potranno essere predisposti strumenti bellissimi come il portale “Archivi della musica”, capace di tessere le relazioni esistenti tra soggetti produttori (ad es. cantautori e compositori, cori, accademie e conservatori musicali dei quali vengono forniti profili biografici / istituzionali ed artistici) ed i relativi soggetti conservatori (fondazioni, associazioni, etc.), mettendo a disposizione relativi inventari e spesso un ricco corredo documentario, iconografico e sonoro. Va peraltro osservato come in questa direzione si stiano già muovendo servizi come SoundHound e Shazam: nati come app per dispositivi mobili capaci di riconoscere, fornendo i relativi cantanti, titoli e dati catalografici, le canzoni che si stanno ascoltando (motivo per cui a monte di questi servizi vi è uno sterminato archivio / database di canzoni), tali servizi hanno ampliato il proprio “raggio d’azione” finendo con l’aggregare alla musica i relativi testi, video (da Youtube) oltre a biografie dei cantanti / gruppi musicali.
A guardare l’evoluzione dei citati servizi (ai quali mi permetto di aggiungere DiscoGS per il raffinato livello di dettaglio catalografico al quale scende) vien dunque da sperare che, nel momento in cui il digitale mette in crisi istituti e prassi consolidate, esso sia in grado di far emergere nuovi strumenti che, benché in modo nuovo, esaudiscono immutate esigenze di “conservazione”!

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