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La public library tra alternativa ed uniformazione

In questo blog spesso e volentieri ho affrontato tematiche che, perlomeno all’epoca in cui ne scrivevo, potevano essere considerate “di frontiera”: dall’impatto dirompente del cloud computing in archivi e biblioteche all’uso dei social network, dalla necessità che questi istituti adottassero strategie comunicative più raffinate (branding, marketing, etc.) alla sperimentazione di nuovi modelli gestionali (catalogazione diffusa, folksonomie, etc.) molteplici sono gli ambiti in cui ho spaziato.

In questo post voglio però esternare alcune mie perplessità: sarà infatti l’età che avanza oppure una sorta di reazione istintiva al “nuovo a tutti i costi” che periodicamente sembra impossessarsi della maggior parte di noi, ma la direzione che sta prendendo la biblioteca pubblica (ed in particolare quella di pubblica lettura) mi convince sempre di meno.
Se è vero che la biblioteca è un organismo che cresce, per scomodare Ranganathan e la sua quinta legge, e che come tale si adatta alla società nella quale essa è inserita, mi vien da chiosare che è altrettanto vero che, così facendo, essa corre il concreto pericolo di farne propri i difetti e le distorsioni.
Accade così che le biblioteche si facciano trascinare da mode o comunque da tematiche a mio avviso non esattamente “core” (penso, di questi tempi, ai big data, dei quali vanno comunque ammessi i vantaggi gestionali, ed all’universo wiki) e, aspetto che porta in sé un bel carico di contraddizioni, fanno propri i ritmi della società moderna.
Ad esempio ogni anno, con svizzera puntualità, proponiamo maratone di lettura e sfide all’ultimo libro: a me sta ovviamente bene promuovere il libro e la lettura, ma non rischia di passare il messaggio che la quantità (in una sorta di “bulimia da lettura”) prevale sulla qualità?
Analogamente miriamo a creare biblioteche sempre connesse, sociali, con prestito H24, etc.: anche in questo caso l’obiettivo, meritorio, è quello di “andare dal lettore” (ergo, interfacciandosi con quest’ultimo non più e non solo “de visu” ma anche attraverso i social network), offrendogli dei servizi in linea con le nuove possibilità tecnologiche ed alle correlate nuove modalità di fruizione / lettura (ebook su tutto) etc. Pure qui vale la considerazione fatta poc’anzi: se il fine è meritorio, il risultato non rischia di essere controproducente? La butto lì, provocatoriamente: la proposta della biblioteca ai cittadini non potrebbe (dovrebbe?) essere anche quella, alternativa, di offrire un’oasi di tranquillità, un luogo di maggior “distacco” e “rallentamento” dei ritmi?

Uno studio Nielsen sullo stato di salute dell’e-book nel Regno Unito, diffuso qualche mese fa, conferma che i lettori britannici (mercato maturo) si stanno per certi versi disaffezionando dal libro elettronico e ne individua la causa proprio nella necessità, specialmente da parte dei lettori più giovani e più connessi, di “staccare” dalla tecnologia e dai ritmi sempre più ossessivi che essa impone (“Young people [are] using books as a break from their devices or social media”).
Pertanto, prendendo atto di queste esigenze manifestate dai lettori, non può essere considerato con interesse un riposizionamento strategico, o più precisamente una diversificazione dell’offerta, che preveda, accanto al Wi-Fi gratuito la presenza di aree ad hoc in cui “disintossicarsi” da Internet e da tutto ciò che ci ruota attorno?
Dal punto di vista operativo ciò si traduce, banalmente, nel pensare e progettare spazi specifici: se oramai una ventina d’anni fa Vittorio Gregotti, in un suo saggio all’interno del volume “La biblioteca tra spazio e progetto” (Bibliografica, 1998, p. 23), proponeva di “dilatare ed articolare gli spazi dedicati alle occasioni di socializzazione” nella convinzione (in via di principio assolutamente condivisibile) che “solo restando collettivamente necessaria, la biblioteca potrà, anche dal punto di vista dell’architettura, avere anche in futuro un ruolo collettivo ed urbano significativo”, probabilmente tale affermazione andrebbe aggiornata ed integrata; in particolare credo che, nel momento in cui le relazioni sociali e la biblioteca si fanno virtuali, l’obiettivo di preservare la vitalità della biblioteca nel suo contesto (sociale, urbano, etc.) reale sia raggiungibile a patto di articolare maggiormente gli spazi, prevedendone appunto alcuni, accanto alle “tradizionali” sale di lettura, postazioni di studio, etc. in grado di fornire agli utenti momenti di stacco / distacco, di riflessione, oserei dire di meditazione. Non a caso il modello a cui penso si avvicina tremendamente a quello delle celle monastiche presenti negli scriptoria medievali (ma ad esiti analoghi potrebbero condurre postazioni immerse in parchi urbani). I benefici sarebbero molteplici e spazierebbero dalla qualità della lettura (e qui si apre la questione dell’ambiente non distrattivo che influisce sulle capacità di interiorizzazione), alla rielaborazione attiva (a questo punto su base individuale, anche se alla fase “collettiva” ci si può tranquillamente dedicare in un secondo momento!) fino alla genesi di nuove idee.

Concludo con una precisazione che può apparire banale: nell’Italia profonda, quella dei piccoli Comuni e dei paesi, che a ben guardare costituisce per larghi tratti ancora l’ossatura della Nazione (e non a caso pure del sistema bibliotecario), la predisposizione di simili spazi non è probabilmente necessaria. Lo è, al contrario, nelle realtà urbane medio-grandi ed ovviamente nelle metropoli e nei grandi agglomerati urbani: è qui che andrebbe seriamente presa in considerazione l’opportunità di predisporre (ipotesi: almeno una biblioteca per ogni polo / rete bibliotecaria?) simili spazi (o, se volete, chiamiamole pure “postazioni di lettura”, per quanto sui generis!). In definitiva ogni realizzazione va personalizzata il più possibile ed adattata allo specifico contesto, il che, e qui torniamo al punto di partenza, equivale a rifiutare l’uniformazione e l’alienazione verso la quale, con la corsa spesso non adeguatamente ponderata ed anzi realizzata “a prescindere” al digitale, la biblioteca pubblica sembra invece tendere.

POSTILLA. In questo post ho parlato essenzialmente di biblioteche: è a questi istituti, infatti, che è stato richiesto, negli anni, di svolgere compiti di socializzazione (biblioteche come centri sociali / culturali) che, probabilmente, esula(va)no dalla mission specifica. Negli archivi, invece, il problema è sempre stato il contrario: visti spesso e volentieri “burocraticamente” come mero luogo di detenzione di carte, i pochi (proporzionalmente, s’intende) utenti che vi si avventurano sono spesso tuttora trattati – con mentalità tipicamente ottocentesca – come impiccioni da allontanare! In questi istituti sì, ci vorrebbe una “terapia” di apertura al mondo che passa anche, ma non solo, attraverso il digitale!

Il potenziale inespresso di archivi e biblioteche (e la necessità di una maggior visibilità)

Dutch Institute for Picture & Sound (Hilversum, the Netherlands)

Dutch Institute for Picture & Sound (Hilversum, the Netherlands) by Frans Sellies, on Flickr

In un articolo apparso su Il Sole 24 Ore di qualche giorno fa vengono riportati i risultati di un interessante studio condotto dal CESTIT dell’Università di Bergamo nel quale si evidenziano gli ottimi risultati, in termini di vendite e di visibilità, ottenuti dalle sempre più numerose aziende vitivinicole che legano la propria immagine ed il proprio “prodotto” all’arte ed, in generale, alla cultura.

Si tratta, argomenta l’estensore dell’articolo, di un legame di vecchia data che si è declinato nel tempo secondo varie modalità: dalle performance artistiche nel vigneto alle cantine progettate dalle archistar, dal contributo di artisti e designer nell’elaborazione delle etichette delle bottiglie (ed in generale del packaging) alla creazione di collezioni d’arte stabili, fino al caso limite del finanziamento di interventi di restauro di opere antiche e/o beni culturali (a riguardo viene portato l’esempio del restauro del tempio di Selinunte).
Il ritorno di tali “politiche”, come anticipato, è lusinghiero: le aziende che hanno investito in un packaging e/o etichetta “artistica” percepiscono un aumento delle vendite del 40%, con una visibilità del marchio che sale in parallelo del 60%; quest’ultimo valore arriva al 92% in caso di investimenti in produzioni culturali e/o arti figurative ed addirittura al 100% qualora ci si sia impegnati nel restauro di beni culturali.
Trova dunque piena conferma l’assunto che l’arte, ma si può a buon diritto affermare la cultura tout court, possiede un notevole appeal, tale da renderla, qualora utilizzata con sapienza, efficacissimo strumento di marketing.

Vi starete a questo punto domandando qual è il nesso, in tutto questo discorso, con archivi e biblioteche; in effetti un collegamento diretto NON ESISTE, ed è proprio questa fragorosa assenza che dovrebbe indurci a porci qualche domanda sul perché queste particolari tipologie di beni culturali, benché dotate di enormi potenzialità, non riescano a suscitare un appeal non dico analogo, ma nemmeno paragonabile rispetto a quello riscosso, giusto per riprendere il contenuto dell’articolo che ha ispirato questo post, dalle arti figurative. Com’è possibile, giusto per dirne una, che il mondo dell’enologia/vitivinicoltura non cerchi “un aggancio” con gli archivi e le biblioteche nonostante questi ultimi, nel corso dell’Expò di Milano (come si ricorderà dedicato al tema dell’alimentazione), abbiano concretamente dimostrato di saper proporre interessanti itinerari “enogastronomici” tra le carte da essi conservate?

La risposta a tale domanda ovviamente non è univoca ma sono personalmente convinto, a costo di apparire riduttivo, che un elemento che gioca fortemente a discapito di archivi e biblioteche sia quello delle loro sedi.
Posto infatti che un’autentica e strutturata “politica edilizia” in Italia non c’è mai stata (fatto salvo il periodo fascista/razionalista per gli archivi e qualcosa negli anni Settanta dello scorso secolo per le biblioteche, in contemporanea con la creazione delle Regioni), questi istituti hanno sede nella rimanente, stragrande maggioranza dei casi all’interno di palazzi storici, spesso e volentieri di epoca medievale o al più moderna (un tour virtuale con Google Earth è sufficiente per farsi un’idea). Intendiamoci, non sto qui facendo l’equazione palazzo storico = antico = vecchio = brutto, in quanto non la condivido; sto semplicemente sostenendo che queste tipologie di sedi, per quanto ricche di fascino e trasudanti di storia, anche a voler sorvolare sugli oggettivi limiti funzionali (inevitabili, data l’epoca di progettazione, e del resto difficilmente superabili mediante restauro, dati i vincoli esistenti), sono nella maggior parte dei casi troppo solenni ed austere e, conseguentemente, non invogliano i cittadini ad entrare e men che meno a legare ad esse la propria immagine.

I sempre più frequenti casi di fondi archivistici che finiscono non, come sarebbe naturale e logico pensare, presso archivi bensì, per esplicita volontà dei loro produttori, presso fondazioni o musei, stanno lì a testimoniare questa scarsa “attrattività”. L’ulteriore constatazione che tali fondazioni e musei sono ospitati in edifici moderni ed avveniristici (ultimo episodio in ordine cronologico a far mugugnare gli archivisti è stato la donazione al MAXXI di Roma del proprio archivio da parte dell’architetto Paolo Portoghesi), a mio avviso conferma l’ipotesi sopra formulata.
Tra l’altro va precisato che non sono contrario a priori a questa “contaminazione” tra tipologie di beni culturali: il fatto che libri, quadri, archivi, sculture, installazioni digitali, etc. trovino sempre più spesso “ricovero” nel medesimo luogo fisico non è uno scandalo se a ciascuna tipologia viene riservato il corretto trattamento scientifico (fermo restando poi che in letteratura stiamo assistendo all’estensione del dialogo dal coordinamento MAB “a tre” – e che vede la partecipazione di musei, archivi e biblioteche – a quello allargato LAMMS, ovvero coinvolgente Libraries, Archives, Museums, Monuments & Sites!). Ciò non rappresenta uno scandalo tanto più in considerazione del fatto che non si tratta di una prima assoluta: storicamente infatti qualcosa di analogo, in Italia, è avvenuto nei decenni successivi all’Unità, allorquando documenti, libri e “memorabilia” legati a protagonisti del Risorgimento vennero raccolti e tenuti assieme a dispetto delle varie leggi, varate in quegli stessi anni, che ne disponevano l’assegnazione, a seconda dei casi, rispettivamente ad archivi, biblioteche e musei.

In sostanza dunque non critico il fenomeno in sé ma la sua unidirezionalità, la quale va tutta a discapito degli archivi ed, in subordine, delle biblioteche; in aggiunta a ciò mi “indispettisce” la motivazione di natura sostanzialmente “estetica” addotta per snobbare queste due tipologie di istituti. Sono peraltro del parere (ahimé!) che si tratti di una tendenza difficilmente invertibile giacché, nel caso di archivi e biblioteche, una mera operazione di restyling non è sufficiente: per quanto si tratti di un’azione da compiere a prescindere (in tal caso sono da prendere come riferimento non solo i modelli nordici, quali ad esempio il nuovissimo Astrup Fearnley Museet di Oslo od il Baltic Centre of Contemporary Art di Newcastle, ma anche il latino Reina Sofia di Madrid), i vincoli di natura logistica e “funzionale” ai quali soggiacciono archivi e biblioteche (penso in particolare alla necessità di disporre di enormi depositi e di adeguati spazi per movimentare i pezzi) a mio modo di vedere sono tali da rendere oggettivamente impari la sfida con gli altri istituti presenti nel settore dei beni culturali.
Giusto per intenderci, ritengo che nel prossimo futuro sarà sempre più frequente incappare in musei “potenziati” da snelli archivi e da centri di documentazione / biblioteche tematici piuttosto che in archivi, con la loro massa sterminata di documenti, ulteriormente “appesantiti” da corpose biblioteche e collezioni di varia natura.

Se dunque gli elementi di fondo sembrano giocare a sfavore di archivi e biblioteche, non mancano neppure i motivi di ottimismo. Questi ultimi si fondano soprattutto sulla constatazione di come, a fronte di contenitori che (per usare un eufemismo) spesso e volentieri “lasciano a desiderare”, il contenuto sia di prima qualità. Giusto a titolo esemplificativo sono da evidenziare i seguenti aspetti che, parzialmente riprendendo l’articolo giornalistico dal quale abbiamo preso spunto, rappresentano altrettanti punti di forza insiti nel materiale presente all’interno di archivi e biblioteche:

  • la capacità di ricostruire / ripercorrere / narrare la storia del territorio;

  • la capacità di ricostruire / ripercorrere / narrare la storia dei i marchi (e delle aziende e delle persone che ci stanno dietro);

  • la capacità, in generale, di raccontar storie / (hi)storytelling;

  • la presenza, specie negli archivi e nelle biblioteche del Novecento, di materiali audio / video / multimediali particolarmente adatti ad una loro rielaborazione e riutilizzo in chiave creativa.

  • In conclusione bisogna dunque riconoscere che il potenziale c’è anche se, nel contempo, bisogna ammettere che fintantoché non “piaciamo” alla gente (o meglio, fino a quando non riusciamo a farci piacere), è inutile sperare che a qualcuno importerà del nostro destino! Finiremo dunque tutti nel dimenticatoio, con sempre meno stanziamenti di fondi pubblici ed ancor meno donazioni di privati.
    Entreremo, in altri termini, in una spirale negativa che condurrà alla progressiva ghettizzazione di archivi e biblioteche, secondo un trend per larghi tratti già intuibile nel caso degli archivi: è infatti sempre più frequente che, per motivazioni economiche (leggasi costo dei locali), questi ultimi – specie quelli di deposito – finiscano in grigi “capannoni” edificati in località periferiche, difficilmente accessibili tanto dall’utenza interna quanto da quella interna e spesso privi di quella serie di servizi imprescindibili per assicurare un minimo di fruibilità. In questo senso va sottolineato con forza come il passaggio al digitale costituisce un duplice pericolo: la realizzazione dei data center, nei quali si accumulano gli archivi e le biblioteche digitali, da un lato rendono inutili, agli occhi degli utenti, le sedi fisiche, dall’altro spingono per una loro espulsione dai centri cittadini. Inutile dire che, allontanati dalla vista dei cittadini, privati di un qualsivoglia elemento di attrattività “estetica”, per gli archivi e per le biblioteche il futuro si farebbe più incerto che mai. Un ulteriore motivo per impegnarsi a fondo affinché gli archivi e le biblioteche abbiano, anche dal punto di vista “edilizio”, la necessaria visibilità.

Ispirati dagli Archivi

Da socio ANAI quale sono, non posso che contribuire a diffondere l’iniziativa Ispirati dagli Archivi, una settimana di iniziative per ricordare l’importanza degli archivi e della corretta gestione della documentazione:

Ispirati dagli Archivi.

Ispirati dagli Archivi

Continua sul sito della manifestazione per leggere l’intero manifesto…

Instagram in biblioteca

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Dell’utilizzo dei social network in archivi e biblioteche si parla e si scrive in lungo ed in largo: Facebook e Twitter, in particolare, sono tra gli strumenti che gli esperti indicano come i più efficaci, il primo (solo per enunciare i principali pregi) in virtù della enorme base di utenti e della possibilità di pubblicizzare e promuovere eventi inserendo foto, video, etc. a corredo, il secondo soprattutto per l’immediatezza e la rapidità d’uso derivante dai 140 caratteri massimi ma anche per la potenza dell’hashtag cancelletto (#) come aggregatore tematico.
Sulla scorta di queste considerazioni non stupisce che negli ultimi anni numerosi archivi e biblioteche abbiano attivato account istituzionali di questi ultimi due servizi mentre altri, che richiedono maggiore impegno e maggiori competenze tecniche (penso a Youtube) oppure che meglio si adattano a specifiche tipologie di istituti (penso di nuovo a Youtube per archivi contemporanei con importanti fondi audiovisivi o a Flickr per quegli archivi e quelle biblioteche che conservano ricche raccolte fotografiche), sono rimasti decisamente meno diffusi.
In questo panorama abbastanza nitido, in verità se vogliamo per certi versi quasi scontato, ritengo che un’anomalia ingiustificata sia rappresentata dallo scarso utilizzo di Instagram, il social network nato nel 2010 come app per dispositivi iOS (quindi in ambiente mobile, aspetto non secondario, e solo successivamente divenuta utilità da desktop PC!) e caratterizzato dalla possibilità di scattare foto con la fotocamera presente sul device in uso, applicandovi poi filtri in alta definizione e, aspetto non meno importante, di taggarle, di condividerle con amici e di commentarle.
Instagram, forte della sua base di 400 milioni di utenti attivi, oramai ha scalzato Twitter (fermo a quota 320) nelle preferenze di molti utenti: posto che i dati in circolazione vanno maneggiati con cautela (non bisogna infatti confondere utenti attivi con utenti registrati!), bisogna ammettere che i numeri sono netti, al punto che secondo molti il 2016 sarà l’anno di Instagram, il quale gode di un’appeal senza pari tra le giovani generazioni, stanche di Facebook.
Ma quali sono i punti di forza di Instagram, tali da averne hanno decretato il successo? Precisato che si tratta ovviamente anche di un fenomeno di moda (numerosissime sono le celebrità presenti in Isntagram con propri profili, seguiti da milioni di fan; n.d.r), è necessario riconoscerne le indubbie qualità che a mio avviso sono le seguenti: 1) punta sulle fotografie, ed in tempi di società dell’immagine non c’è miglior via per assicurarsi il successo 2) da Facebook riprende funzionalità quali i “Like” ed i commenti (con tanto di faccine in stile Whatsapp) 3) da Twitter copia il meccanismo dell’hashtag, a riguardo del quale va precisato come attualmente non vengano forniti trend topics elaborati sulla base delle parole chiave più utilizzate in un dato momento come fa Twitter; all’utente, man mano che li scrive, vengono semplicemente suggeriti tag “standardizzati” che risultano ugualmente fondamentali per creare quella trama di collegamenti tra le proprie foto e quelle postate da altri utenti ed etichettate con gli stessi termini 4) da Foursquare recupera il principio della georeferenziazione: in base al luogo in cui ci troviamo (= dove si trova il nostro smartphone), Instagram ci propone una serie di foto scattate nelle prossimità.
In sostanza Instagram ha fatto proprie quelle che sono le principali caratteristiche degli altri social network, fondendole sapientemente in un’unica app che, venendo a noi, sono convinto potrebbe dare molte “soddisfazioni” qualora utilizzata in ambito bibliotecario.
Del resto il nesso tra biblioteche e mondo dell’immagine/foto è forte non solo perché esse incentrano principalmente la propria attività su un oggetto, il libro, che è fruibile (perlomeno nella nostra epoca) in primis mediante la vista; lo è anche perché il libro stesso ha una valenza estetica (nella copertina, nelle miniature, nelle illustrazioni) tale da far apparire quasi spontaneo “fotografarlo”.
Non sto chiaramente scoprendo nulla: basta infatti scorrere i tweet di una qualsiasi biblioteca per rendersi conto che molti bibliotecari già lo fanno, a volte inconsapevolmente altre con lo scopo pratico di far conoscere le nuove accessioni. Il punto è che su Twitter esse si confondono in un mare di teneri gattini e cuccioli vari (purtroppo accade ancora!), di locandine di eventi, di avvisi, di adesioni a campagne di mobilitazione varie, etc.
In altri termini la fotografia, in Twitter, perde il proprio valore aggiunto; per contro su Instagram vi è la possibilità di inserirla in discorso / flusso narrativo dotato di un certo valore estetico (non me ne vogliano i fotografi di professione, ma effettivamente su Instagram ci sentiamo un po’ tutti artisti!) e soprattutto dotato di una coerenza interna e con la “social media strategy” definita dall’ente, senza peraltro che ciò (e qui sta il bello) precluda ulteriori, non previsti, percorsi.
Ad esempio, se clicchiamo sull’immagine della biblioteca del Centro de Arte Reina Sofia di Madrid pubblicata in questo post, ecco che finiamo sulla stessa foto caricata nel mio profilo Instagram; qui possiamo cliccare ulteriormente sull’hashtag #library e veder comparire alcune foto che ritraggono le più belle biblioteche al mondo oppure sull’hashtag #reinasofia, al quale sono associate foto scattate dagli altri utenti nelle quali ricorre sì il medesimo tag ma che hanno un soggetto completamente diverso dal mio. Ecco dunque che, partendo dalla foto di una biblioteca, scopro che al Reina Sofia è esposto il celebre Guernica di Pablo Picasso ma anche, attraverso un’altra foto, pure che è in corso una mostra temporanea su Constant Nieuwenhuys, personaggio poliedrico ed autore del libro New Babylon.
Appare evidente come Instagram, in pochi passaggi, sia stato in grado di farci compiere un viaggio tra diverse arti e discipline, fornendoci peraltro ulteriori spunti di lettura!
Le potenzialità dello strumento dunque ci sono tutte, resta da capire come sfruttarle al meglio; la palla, a questo punto, passa ai social media strategist, figure delle quali le biblioteche devono a mio avviso dotarsi (qualora ciò non fosse possibile, è necessario che i bibliotecari apprendano i rudimenti della materia), ed ai quali spetta il compito di inserire Instagram nella più vasta strategia comunicativa della biblioteca / dell’Ente, affiancando e non sostituendo gli altri social media.
A riguardo, pur non essendo un esperto, mi permetto di fornire alcuni semplici, finali, suggerimenti operativi: A) fatti salvi casi specifici, è auspicabile che le foto pubblicate su Instagram vengano condivise automaticamente anche sugli altri social network nei quali si è presenti; B) nel momento in cui dobbiamo decidere su cosa basare il nostro discorso narrativo, prenderei in considerazione i seguenti tre: 1) i libri (= le raccolte), 2) le sedi e 3) le persone (utenti / bibliotecari), ovvero i tre elementi che incidentalmente sono a fondamento della biblioteconomia e che, con le loro interconnessioni quotidiane, reali e virtuali, ne assicurano la vitalità.

Alleanze per il cloud di domani: fine dei giochi per archivi e biblioteche?

Docker_(container_engine)_logo

Ho ripetutamente sostenuto, in questo blog e non solo, circa l’opportunità che archivi e biblioteche si facessero promotori della costruzione di data center pubblici (nel senso di stretto proprietà pubblica, non di public cloud!) analoghi a quelli che i colossi dell’informatica vanno costruendo oramai da un lustro in giro per il globo e che sono destinati ad ospitare gli archivi digitali del futuro (prossimo).
Purtroppo questo mio desiderata è, a giudicare dall’evoluzione dello scenario tecnologico, ben lungi dall’avverarsi; anzi, a guardare le scelte strategiche prese nel frattempo dai player globali, il timore che oramai si sia fuori dai giochi è più forte che mai.
Giusto per dirne una, allo stesso cloud computing, locuzione all’interno della quale si è buttato un po’ di tutto, è sempre meno collegata l’idea di fornire un mero “spazio” all’interno di un server (aspetto che lo ha reso di primario interesse per le implicazioni archivistiche).

Al contrario, si sta scendendo sempre più di livello e, ad esempio con Docker si perseguono obiettivi di “snellimento” degli ambienti sui quali girano le varie applicazioni che, in prospettiva, potrebbero mandare in pensione le classiche virtual machine (VM).

Si badi, niente che riguarda direttamente gli archivi (anche se mi viene da pensare che un ambiente più snello qual è quello container potrebbe render più agevole lo sviluppo di programmi di tipo EaaS; emulation as a service), ma resta il fatto che ancora una volta gli archivi sono ad inseguire l’evoluzione tecnologica, la quale, tanto per cambiare, continua ad essere guidata dai soliti colossi. Per restare in tema di container basta guardare a quanto fatto di recente da Google, che ha “ceduto” il controllo di Kubernetes, la sua piattaforma open-source che offre gli strumenti di comando per quei sviluppatori che utilizzano, per l’appunto, i container, stipulando nel contempo una sorta di pax (ma con i contorni di una vera e propria alleanza) con tutti i colossi parimenti interessati a questa evoluzione: Amazon, Microsoft, Rackspace, Red Hat, etc.

Inutile dire che le carte che si possono giocare gli archivi e le biblioteche, in questo contesto, sono davvero minime al punto che, probabilmente, è bene prendere atto di tutto ciò e cambiare strategia: se non si può essere attivi in prima persona, sarebbe almeno opportuno riuscire ad agire a livello “politico” ottenendo che gli archivi sulla nuvola, ed i meccanismi che li governano, siano “scientificamente” adeguati e gestiti in modo deontologicamente corretto.

Internet ed instabilità tipografica

Does the Internet make you smarter?

Does the Internet make you smarter? (Illustration for the Wall Street Journal) by Charis Tsevis, on Flickr

In un lunghissimo articolo apparso qualche settimana fa sul The New Yorker a firma di Jill Lepore vengono toccati moltissimi di quei temi da anni al centro del dibattito della comunità archivistica: dall’opportunità di “archiviare Internet” dandogli la necessaria profondità storica al ruolo svolto in questa direzione da organizzazioni non governative come Internet Archive con la sua Wayback Machine (il cui funzionamento però, fa notare l’autrice, ha ben poco di archivistico essendo le varie “istantanee” del web salvate da quest’ultima organizzate semplicemente per URL e per data!) passando per il crescente impegno profuso in questo settore da parte di istituzioni pubbliche (come la British Library o la National Library of Sweden, le quali portano avanti una tradizione tutta europea che affonda le sue radici nell’istituto del deposito legale) per finire con le implicazione derivanti dal fenomeno dei link rot, vale a dire di quei collegamenti ipertestuali non funzionanti che impediscono ai documenti presenti sul web di ricoprire una funzione all’interno del sistema di note e riferimenti analoga a quella ricoperta dai corrispettivi cartacei.
Proprio circa quest’ultimo punto, sul quale peraltro già avevo scritto qualcosa oramai qualche anno fa, vale la pena di sviluppare un paio di ulteriori riflessioni; partiamo dalle parole dell’autrice, la quale a riguardo scrive:

The footnote, a landmark in the history of civilization, took centuries to invent and to spread. It has taken mere years nearly to destroy. A footnote used to say, “Here is how I know this and where I found it”. A footnote that’s a link says, “Here is what I used to know and where I once found it, but chances are it’s not there anymore”

La teoria che soggiace ad una simile impostazione è quella, oramai classica, di Elisabeth Eisenstein e della “stabilità tipografica”: secondo questa autrice l’invenzione della stampa a caratteri mobili non fu un fatto meramente tecnologico ma ebbe profonde ricadute industriali e sociali al punto da segnare lo sviluppo successivo dell’Occidente, contribuendo ad assicurarne nel lungo periodo il predominio globale; in particolare la stampa in tirature sempre più elevate unitamente alla “standardizzazione” dell’oggetto libro, con l’affermazione di aree ben definite ed individuabili (frontespizio, colophon e soprattutto apparato critico / notazionale), da una parte rese possibile una migliore e più efficace circolazione delle idee (non più soggette a quelle storpiature imputabili ad errori più o meno involontari da parte del copista) dall’altra, grazie alla possibilità data dalla presenza di precisi riferimenti bibliografici e documentali di verificare ed eventualmente confutare o correggere le diverse tesi dibattute, pose le basi per lo sviluppo della scienza e della cultura occidentali.
Come ricorda Jill Lepore nel passaggio poc’anzi citato, tale secolare sistema è stato brutalmente messo in crisi all’avvento del digitale: com’è stato possibile ciò? quali le cause?
Personalmente ritengo che additare come colpevoli i soli link rot sia semplicistico; questi ultimi sono a mio modo di vedere parte di un problema ben più complesso che anzi li trascende: è la società contemporanea nel suo complesso, bulimica di informazioni sempre aggiornate, che ci porta a “bruciarle” dopo pochi minuti, che ci spinge ad avere prodotti editoriali digitali redatti in più versioni nel tempo (versioning) e capaci di aggiornarsi spesso e volentieri senza che venga mantenuta traccia della versione precedente (il che, piccolo inciso, porta al tramonto del concetto di edizione), che richiede che gli innumerevoli articoli e post pubblicati vengano tumultuosamente “updated” ed altrettanto repentinamente spostati oppure messi offline una volta che perdono di attualità, senza che vi sia il tempo necessario per una stratificazione delle idee.

In questo senso Internet ed il Web costituiscono, nell’accezione massmediatica e filologica del termine, il palinsesto perfetto: tutto è spostabile, tutto è cancellabile, tutto è (digitalmente) “sovrascrivibile”. Questo richiamo alla prassi medievale di raschiare e cancellare i codici, pergamenacei e non, rappresenta peraltro simbolicamente il tramonto dell’epoca di “stabilità” delineata dalla Eisenstein ed il ritorno, per contro, ad una che, parafrasando, possiamo definire di “instabilità tipografica”. Dando ciò per assodato, la domanda da porsi è a questo punto la seguente: i rischi paventati da Jill Lepore sono concreti?

La risposta, con tutta evidenza, non può che essere affermativa: come già ricordato è il metodo scientifico stesso che prevede, tra gli altri, il requisito della verificabilità e quest’ultima non può prescindere, a sua volta, dalla presenza di una fitta rete di rimandi e riferimenti. Venendo questi meno, la ricerca non può dirsi tale anche se ciò non significa automaticamente che non vi saranno alcuni benefici. Ad esempio lo “sganciamento” da auctoritas citate più o meno acriticamente potrebbe portare a percorrere nuove vie; parallelamente la mole crescente di dati prodotti (big data), per di più spesso e volentieri disponibili liberamente ed in formati aperti (open data), pertanto con la possibilità di trattarli ed incrociarli / collegarli (LOD) per mezzo di elaboratori, apre il campo a nuove frontiere nelle ricerche (in ambito storico perché non pensare, ad esempio, ad una nuova storia quantitativa?).

In definitiva quel che avremo non sarà altro che, com’è forse giusto che sia, una ricerca rispecchiante la società (digitale) che l’ha prodotta; in quest’ottica è doveroso che le istituzioni deputate alla conservazione, archivi e biblioteche, aumentino i propri sforzi.
Sicuramente un primo ambito d’intervento dev’essere, sulla falsariga di quanto fatto da Internet Archive e da molte biblioteche centrali, quello teso a dare profondità storica ad Internet “archiviandolo” ma anche contribuendo alla diffusione di persistent URL. Ma un secondo, ed in prospettiva persino più importante, terreno d’azione sarà inevitabilmente quello della gestione e conservazione dei big data, fenomeno che a mio avviso caratterizzerà gli anni a venire: è pertanto impensabile che gli archivi e le biblioteche non giochino un ruolo cruciale nel “mantenimento” tout-court dei vari dataset che, più dei singoli documenti, saranno alla base delle ricerche dei prossimi anni e dai quali dipenderà, c’è da scommettere, il progresso scientifico dei prossimi decenni.

Conservazione digitale e miniere

Dagli archivi tradizionali alla conservazione sostitutiva

Fonte: BUCAP

Sul notiziario Parer è stato ampiamente ripreso una sorta di reportage, pubblicato sul Washington Post, sul quale ritengo sia utile spendere quattro parole non fosse altro perché mi consente di ritornare su tematiche, come la conservazione digitale (ed, al suo interno, la conservazione sostitutiva), particolarmente care al sottoscritto.
Ma partiamo dalla notizia (qui ne faccio un brevissimo compendio; per un riassunto più completo rimando all’ironico articolo apparso, per l’appunto, su Parer oltre che, per chi volesse cimentarsi nella lettura integrale in inglese, al Washington Post): in una ex miniera di calcare, decine di metri nel sottosuolo, centinaia di dipendenti federali lavorano alacremente su centinaia di migliaia di documenti, in gran parte su supporto cartaceo, al fine di assicurare la corresponsione della pensione ad altrettanti colleghi. E’ infatti proprio in questa miniera nelle vicinanze di Pittsburgh che a partire dal 1960 il Governo federale ha deciso di collocare l’Office of Personnel Management. Quali le motivazioni che hanno spinto ad una simile scelta?
Fondamentalmente il posto ricercato doveva essere sicuro, sufficientemente ampio e soprattutto non troppo costoso, tutti requisiti, si noti, tuttora validi. Ma le analogie con il presente e le lezioni che si possono trarre da questa storia veramente emblematica non si fermano qui: la prima, in parziale contraddizione con l’impostazione data dal giornalista del Washington Post (il quale giudica assurdo che l’amministrazione federale sia ancora ferma alla carta quando gli stati della California, della Florida e del Texas sono riusciti ad abbattere tempi e costi grazie ad un’adozione spinta del digitale), dovremmo oramai averla metabolizzata un po’ tutti, ovverosia che la tecnologia non è, da sola, risolutiva se non è accompagnata da adeguati cambiamenti di ordine legislativo, organizzativo e, fino a certi punti, persino “culturale” (intendendo con quest’ultima voce quegli interventi capaci di fornire al personale, piuttosto che un’infarinatura di questo o quel software, una nuova forma mentis, maggiormente sensibile e capace di affrontare le ineliminabili problematiche di natura “tecnica”).
In questo senso la storia resa pubblica dal WP è ricca di aneddoti: programmi che “impazziscono” non essendo sufficientemente potenti per tenere conto delle mille casistiche poste in decenni di confusa legislazione in materia pensionistica, personale incapace di sfruttare al meglio gli strumenti informatici che, almeno dagli anni Ottanta dello scorso secolo, si è tentato di fornir loro per migliorare la situazione, dirigenti non in grado di valutare per tempo (= prima di averci investito fior di quattrini) l’effettiva corrispondenza delle soluzioni informatiche proposte – ed in taluni casi malauguratamente adottate – allo scopo prefisso.
Il risultato è che dal 1977 ad oggi non si è assistito ad alcun apprezzabile miglioramento nei tempi di evasione delle pratiche, fermi a 61 giorni (in verità un miglioramento c’è stato… ma solo aumentando il numero di impiegati!), ed anzi ora il “procedimento tipo” consiste in un’illogica serie di operazioni quali ricerca di cartelle personali, scansioni, stampe, inserimento dati, ristampe, etc.
Al di là della facile indignazione, specie a fronte dei soldi pubblici inutilmente spesi, risulta nel contempo evidente che una soluzione non sia poi così agevole ed immediata: come rileva l’estensore dell’articolo, il grosso problema consiste infatti nel fatto che, nell’arco di una vita lavorativa lunga decenni, i documenti relativi al medesimo dipendente si sono “sedimentati” in lungo ed in largo per gli Stati Uniti e, cosa forse ancora peggiore, che ciò è avvenuto su diversi supporti (taluni analogici, tal’altri digitali).
E’ questo che (al netto di chiare distorsioni nell’iter delle carte) obbliga gli addetti dell’Office of Personnel Management a lunghe attese di questo o quel documento e, una volta ricevutolo, alcune volte a digitalizzarlo mediante scansione ed altre a stamparlo!
La presenza di archivi ibridi, tipica di questa fase di transizione, pone in altri termini importanti sfide in ordine alla “speditezza” ed alla “razionalità” di tutti quei procedimenti amministrativi che richiedono il recupero di documenti che, per motivi “anagrafici”, sono stati formati in ambiente analogico e che non sono ancora stati oggetto di digitalizzazione mediante conservazione sostitutiva.
A tal proposito ritengo sia utile formulare alcune ulteriori, conclusive, osservazioni. In particolare mi permetto di rilevare come, stante le perduranti incertezze (in verità più pratiche che teoriche, n.d.r.) circa la conservazione nel lungo periodo del digitale, forse sarebbe opportuno che alcune categorie di documenti (e quelli relativi alla pensione potrebbero proprio essere inclusi nel novero!) continuassero, onde evitare brutte sorprese tra cinquant’anni, ad essere prodotti e conservati su carta. Dopo questa nota vagamente pessimistica, va anche aggiunto che si intravvedono, nell’attuale panorama tecnologico, pure interessanti spiragli di luce: in particolare man mano che la quota di documenti in circolazione sarà costituita in misura preponderante da documenti digitali (come esito combinato della crescente produzione in ambiente digitale da una parte e del “recupero” di documenti analogici mediante digitalizzazione dall’altra) i problemi evidenziati nell’articolo che ha dato spunto a questo post verranno gradualmente meno; parallelamente l’adozione di soluzioni cloud consentirà di far dialogare tra di loro (scambiandosi dati e documenti) archivi digitali distinti ed appartenenti a soggetti produttori diversi. Il che dovrebbe in ultima analisi snellire e semplificare il percorso delle carte, riducendo i tempi ed i costi ed offrendo perciò al cittadino / utente / cliente un servizio migliore.
Ribadisco infine che affinché le opportunità poste dall’attuale momento di digital shifting vengano colte appieno è fondamentale non limitarsi al solo aspetto tecnologico ma è necessario, al contrario, agire su altre leve come il personale, l’organizzazione nonché affidarsi (in caso di esternalizzazione) a provider strutturati e con soluzioni affidabili, robuste e magari pure interoperabili (e necessariamente basate su standard internazionali).
Certo, ciò farà sorgere a sua volta nuove problematiche (conservazione di lungo periodo, privacy, cornice giuridica, etc.) ma nondimeno sono convinto che il momento sia propizio, come recita una famosa pubblicità, per cercare di “guidare il cambiamento”.

Terremoti, memoria digitale e l’Italia che vorremmo

Libreria Grande Sabbioneta

La sala che ospitava la Libreria Grande di Vespasiano Gonzaga (rielaborazione)

Come già capitato in passato con alcuni post pubblicati a ridosso dei periodi di vacanza, invernali od estivi che fossero, anche in questo caso l’ispirazione mi è venuta dal breve viaggio che, dato il periodo, mi sono concesso.
Per la precisione, a cavallo del Capodanno, ho trascorso alcuni giorni seguendo un itinerario “minore” tra le province di Modena, Parma e Mantova, zone, come noto, duramente colpite dal terremoto (o meglio, dai terremoti) del 2012.
Purtroppo, è risaputo, scemato il clamore mediatico ci si dimentica di quello che è successo e si pensa che, come con un tocco di bacchetta magica, tutto sia stato risistemato e le ferite sanate.
Ovviamente, consapevoli della portata delle distruzioni e soprattutto del fatto che in Italia ogni cosa procede in tempi biblici, sotto sotto sappiamo tutti che il miracolo della ricostruzione non può essere avvenuto; ciò nonostante rappresenta un colpo al cuore andare a Sabbioneta, “città ideale” inserita nel patrimonio UNESCO, e visitare Palazzo Giardino (con la splendida Galleria degli Antichi) tra tante impalcature di sostegno e qualche abbozzo, tutt’altro che sistematico, di restauro (la guida ci ha spiegato che i lavori dovrebbero partire a mesi, speriamo!). Ancor più doloroso è visitare il complesso monastico di San Benedetto Po di Polirone, indissolubilmente legato alla figura della “grande” Matilde di Canossa, ed essere obbligati ad un percorso “a salti” a causa delle numerose sale inagibili e per di più orbo del suo pezzo forte, vale a dire il refettorio affrescato dal Correggio.
Intendiamoci, lungi da me alcuna vena polemica: una volta messi in sicurezza i luoghi è bene prendersi tutto il tempo necessario prima di partire con i restauri, in modo da eseguirli nel migliore dei modi. Però, dubbi e perplessità su quelle che sono le priorità dei nostri decisori sorgono eccome!
Si parla pressoché quotidianamente della crisi che attanaglia il settore edilizio: ebbene, tra zone terremotate (oltre all’Emilia, che qui ha offerto lo spunto, non dimentichiamo L’Aquila), aree archeologiche abbandonate all’incuria (Pompei caso simbolo ma tutt’altro che unico), zone dissestate dal punto di vista idro-geologico, scuole che cadono a pezzi, di lavoro per architetti, ingegneri, urbanisti oltre che per migliaia di operai edili “generici” ce ne sarebbe a volontà, senza dover inventarsi infrastrutture oramai inutili! Concentrandosi sui soli beni culturali come non pensare alle opportunità di impiego, collegate / complementari a questi interventi di carattere strettamente “edilizio”, che si aprirebbero per le centinaia di archeologi, restauratori ed in generale di diplomati in Conservazione dei Beni Culturali (personale dunque altamente specializzato), il cui mercato del lavoro è altrettanto asfittico?
Mi direte: ok, ma i soldi dove li ritroviamo in tempi di tagli e di pareggio di bilancio? A parte che, come ho sostenuto in altre sedi, i soldi per panem et circenses saltano sempre fuori, a Bruxelles milioni di fondi comunitari giacciono inutilizzati per l’assenza di valide proposte. Il problema di fondo, in definitiva, mi pare risieda soprattutto in una mancanza di volontà politica e di una adeguata progettualità.
Chiarito che quello dei soldi è un falso problema, mi chiederete, e stavolta a ragione: che c’azzecca tutto ciò con questo blog ed in particolar modo con la “memoria digitale”? Apparentemente molto poco, in realtà molto. Infatti, posto che (ovviamente, vien da dire, con non poca rassegnazione) tra i beni culturali in attesa di “manutenzione”, vuoi per cause straordinarie (come i terremoti in questione) od ordinarie (il naturale scorrere del tempo), numerosi sono quelli attinenti al patrimonio archivistico e bibliotecario, non dovrebbero sfuggire le possibili applicazioni nel vasto campo delle digital humanities.
Banalmente e senza particolari sforzi di fantasia, nel momento in cui andiamo a restaurare, a Sabbioneta, la Galleria degli Antichi perché non coinvolgere informatici, grafici e storici dell’arte per ricostruire virtualmente la sala, completa di marmi e statue (ora a Palazzo Ducale a Mantova, n.d.r.)? Per quanto riguarda lo specifico ambito librario Vespasiano Gonzaga allestì, all’interno del Palazzo Ducale, una fornita biblioteca, distinta in Libreria Grande e Libreria Piccola, e nel momento di far testamento dispose che la prima non andasse smembrata ma bensì rimanesse a Sabbioneta in perpetuum, affidandone le sorti ai padri della chiesa della Beata Vergine dell’Incoronata (la Libreria Piccola invece andò al genero Luigi Carrafa). Purtroppo, come in altre vicende analoghe, le buone intenzioni non poterono essere mantenute: le soppressioni napoleoniche non diedero che il colpo di grazia ad un fondo librario già gravemente rimaneggiato. Eppure, dal momento che conosciamo i titoli di molti dei libri posseduti da Vespasiano, perché non tentare di ricostruirla in maniera “virtuale” (tanto più che parte dei volumi un tempo costituenti la “Libreria Piccola” sono stati individuati nel fondo librario della biblioteca vicereale di Napoli)? Similmente, passando al versante archivistico, perché non affiancare al lavoro di scavo negli archivi italiani e stranieri (fece scalpore, qualche anno fa, la scoperta di circa 200 documenti sabbionetani inediti conservati presso la Kenneth Spencer Research Library dell’Università del Kansas) analoghe operazioni di “ricostruzione virtuale”?
Simili progetti, se andassero in porto, oltre a rappresentare altrettanti investimenti nel settore culturale con tutte le positive ricadute a beneficio della qualità della vita dell’intera collettività, contribuirebbero non poco, anche dal punto di vista meramente materiale, a mutare le prospettive di vita di tutti coloro che sulla ricchezza culturale dell’Italia hanno, giustamente, scommesso. C’è un intero paese da ricostruire, eppure si guarda colpevolmente altrove oppure, il che forse è ancora peggio, si lanciano “progetti indecenti” (altrimenti non può essere definita la vicenda dei famosi “500 giovani per la Cultura”) convinti di fare azione meritoria. Speriamo che nel 2014 qualcosa cambi.

Dematerializzazione, pubblicato il D.P.C.M. 21 marzo 2013

Fonte: Bucap

Fonte: Bucap

In tempi di spending review appare quasi normale che si torni a parlare di dematerializzazione dei documenti, in virtù dei risparmi (di carta, di spazi, di velocizzazione dei procedimenti) che questa operazione dovrebbe consentire.
Uso il condizionale perché, purtroppo, finora il legislatore ha fatto di tutto e di più per ingarbugliare le cose. Difatti, al posto di emanare poche leggi che indicassero con chiarezza cosa dematerializzare ed aggiornare periodicamente le regole tecniche (ovvero, come materialmente effettuare la dematerializzazione), si è fatto l’esatto contrario: continui interventi legislativi che hanno finito per gettare nell’incertezza i vari attori coinvolti (archivisti, amministratori, operatori privati) e lunghe, lunghissime attese per quanto riguarda gli indispensabili “disciplinari tecnici”.
Questo modus operandi è purtroppo stato confermato in occasione della recente emanazione del D.P.C.M. del 21 marzo 2013 (pubblicato in G.U. n. 131 del 6 giugno 2013): in esso il legislatore, peraltro spinto dal nobile fine di indicare con chiarezza di quali categorie documentarie sia possibile effettuare la conservazione sostitutiva (procedendo dunque all’eliminazione dell’originale analogico) e di quali no (permanendo al contrario l’obbligo della conservazione dell’originale analogico), è caduto ripetutamente in contraddizione.
Non mi addentro qui nei dettagli, già altri l’hanno fatto con ben maggior autorevolezza della mia (macroscopiche comunque alcune incongruenze, si veda il caso degli atto notarili che vanno conservati anche in forma cartacea laddove sin dal D.L. 110/2010 “Disposizioni in materia di atto pubblico informatico redatto dal notaio” è prevista la possibilità di rogare atti notarili in ambiente digitale), mi permetto solamente di ribadire come la questione di fondo sia di metodo: è indispensabile che il legislatore legiferi poco e bene, aggiornando periodicamente (in linea con l’evoluzione tecnologica) le apposite regole tecniche e che lasci agli operatori il tempo di metabolizzare le nuove disposizioni di legge traducendole nell’attività quotidiana.
Altresì sarebbe auspicabile che la prossima volta venissero coinvolti, nell’individuazione delle tipologie documentarie destinate o meno alla dematerializzazione / conservazione sostitutiva / analogica, anche rappresentanti degli organi periferici dello Stato e degli Enti Locali: balza infatti agli occhi come le tipologie documentarie contemplate nel D.P.C.M. qui oggetto di analisi facciano riferimento soprattutto a quelle prodotte dagli organi centrali dello Stato. E’ evidente che se vogliamo raggiungere gli obiettivi prefissati in materia di razionalizzazione ed ottimizzazione della gestione documentaria, con i conseguenti risparmi di spesa, si deve agire tutti assieme e preferibilmente in maniera coordinata e condivisa.

BYOD in archivi e biblioteche: bello ma impossibile?


BYOD Turns Up the Heat on Wi-Fi Performance

BYOD Turns Up the Heat on Wi-Fi Performance di Fluke Networks, su Flickr

Va bene che negli States sono avanti rispetto a noi di qualche annetto, però sarebbe forse veramente l’ora di iniziare a parlare seriamente anche qui nel Belpaese dell’importante fenomeno del BYOD (Bring Your Own Device), ovvero dell’uso in ambito lavorativo dei vari dispositivi tecnologici (soprattutto smartphone e tablet ma anche i vari ultrabook, notebook e netbook…) che ciascuno di noi oramai possiede ed usa quotidianamente per i più disparati motivi: creare e fruire di contenuti digitali (libri, film, musica), navigare in Rete, relazionarsi con amici e familiari.
La necessità si fa tanto più urgente alla luce dei risultati di un recente studio condotto da Gartner presso un qualificato panel di CIO: ebbene, il 38% dei responsabili dei servizi tecnologici ritiene che di qui al 2016 le proprie aziende smetteranno di fornire ai propri dipendenti i summenzionati device.
Infatti, prendendo atto del fatto che già oggi i propri addetti usano i dispositivi forniti dall’azienda per scopi personali ed utilizzino applicativi consumer anche per risolvere questioni di lavoro, si è giunti alla conclusione che è più conveniente lasciare che siano questi ultimi a farsi carico dell’acquisto di questi device impegnandosi però a fornire un contributo nei costi di esercizio / gestione. Il tutto nella convinzione che: “the benefits of BYOD include creating new mobile workforce opportunities, increasing employee satisfaction, and reducing or avoiding costs”.
Personalmente ritengo questa impostazione corretta e la spinta verso un simile scenario del resto difficilmente contrastabile; è pertanto il caso di fare alcune veloci considerazioni sugli inevitabili pro e contro, anche in considerazione del fatto che ad essere coinvolto di questo radicale cambiamento di impostazione non sarà, sempre secondo Gartner, il solo ambiente corporate ma anche quello dei Governi e delle pubbliche amministrazioni.
La prima considerazione che viene, quasi spontaneamente, da fare è la seguente: dal momento che il processo di informatizzazione delle pubbliche amministrazioni italiane è stato fortemente rallentato negli ultimi anni dalla cronica penuria di soldi, tanto per gli acquisti quanto per l’indispensabile formazione del personale, l’adozione del modello del BYOD garantirebbe rilevanti risparmi in entrambi i settori: per quanto riguarda le acquisizioni, semplicemente queste verrebbero a cessare (solo per alcune tipologie di device, naturalmente; n.d.r.) e resterebbero da mettere a bilancio le spese per i soli costi di gestione (che comunque già si sostengono)! Non meno evidenti ed immediati sarebbero i risparmi sul fronte della formazione dal momento che si presume che il proprietario sappia usare il proprio smartphone e tablet! Tutto ciò ovviamente in linea teorica perché, e così arriviamo alla seconda considerazione, c’è da chiedersi se il passaggio al BYOD non rappresenterebbe una sorta di “salto nel vuoto” alla luce delle carenze infrastrutturali che affliggono le nostre pubbliche amministrazioni. Sono infatti dell’avviso che il BYOD abbia senso solo se procede di pari passo con l’adozione di tecnologie cloud sulle quali, come noto, ci sono parecchie riserve. Arriviamo così al nocciolo della questione (aspetto peraltro sollevato anche dai CIO intervistati da Gartner): quali sono i rischi per la sicurezza dei dati (data leakage) e dei documenti? Evidentemente sono elevati ed è inutile dire che grossi sforzi andrebbero fatti in questo settore a più livelli: da una parte assicurandosi che i device utilizzati dagli appartenenti all’organizzazione rispondano ad alcuni requisiti minimi di sicurezza, applicando dunque ai soli dispositivi verificati i dettami del BYOD (va in questa direzione il progetto di valutazione condotto dal Pentagono sui principali smartphone in commercio; un ulteriore vantaggio di questa politica è quella di diversificare le piattaforme usate – in termini di sistema operativo – e di indipendenza da specifici fornitori, n.d.r.), dall’altro diffondendo una cultura della sicurezza (informatica) a tutti i livelli dell’organizzazione.
Venendo infine a parlare delle conseguenze del modello BYOD su archivi e biblioteche, conseguenze inevitabili essendo questi istituti a tutti gli effetti incardinati nell’apparato statale, le ripercussioni sono diversamente valutabili a seconda del livello in cui ci si colloca.
Ponendosi ad esempio al livello degli archivisti e dei bibliotecari in quanto “lavoratori”, il progressivo processo di professionalizzazione che ha investito questi che fino a pochi anni fa erano ancora mestieri (con l’instaurazione di rapporti di lavoro sempre meno di tipo dipendente ed al contrario sempre più di “prestazione occasionale” / collaborazione) ha reso assai frequente il fatto che essi utilizzino durante il lavoro i propri laptop, etc. In questo senso pertanto il BYOD potrebbe anche non rappresentare un fattore di dirompente novità. Similmente non è da escludere che l’uso di ambienti di lavoro e di dispositivi simili in quanto consumer non contribuisca ad aumentare il livello di empatia tra i primi ed i secondi nonché che possa condurre ad una migliore comprensione dei problemi di natura “pratica” cui potrebbero incorrere i secondi anche nel solo utilizzo dei servizi e delle risorse approntate. Non meno importante, in quest’ottica di omologazione tra strumenti professionali e consumer, il ricorso ai social network quali principali strumenti di comunicazione / promozione (laddove ad esempio in ambito bibliotecario fino a pochi anni fa ci si affidava, per la comunicazione, alle piattaforme ad hoc sviluppate all’interno dei primissimi SOPAC…).
A fianco di questi aspetti complessivamente positivi non si possono comunque tacere gli innegabili aspetti negativi (perlopiù dal lato degli archivi): non si tratta solo dei summenzionati rischi di perdita dei dati / documenti, il problema è molto più alla radice!
Con il paradigma BYOD è il confine stesso tra pubblico e privato a farsi labile: mail, progetti, documenti, etc. di lavoro rischiano di mescolarsi pericolosamente con quelli privati in un vortice inestricabile di file e cartelle! Ed il dubbio se un documento sia pubblico (= da inserire nell’archivio dell’organizzazione) o privato (= da inserire nell’archivio di persona del membro dell’organizzazione) o peggio ancora un ibrido difficilmente collocabile rischia di minare la trustworthiness complessiva dell’archivio. Perché un documento può anche essere stato al sicuro “incorrotto” dentro al sistema ma se ad essere messa indubbio è la sua appartenenza stessa all’archivio, secolari certezze rischiano di venire improvvisamente meno.