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La public library tra alternativa ed uniformazione

In questo blog spesso e volentieri ho affrontato tematiche che, perlomeno all’epoca in cui ne scrivevo, potevano essere considerate “di frontiera”: dall’impatto dirompente del cloud computing in archivi e biblioteche all’uso dei social network, dalla necessità che questi istituti adottassero strategie comunicative più raffinate (branding, marketing, etc.) alla sperimentazione di nuovi modelli gestionali (catalogazione diffusa, folksonomie, etc.) molteplici sono gli ambiti in cui ho spaziato.

In questo post voglio però esternare alcune mie perplessità: sarà infatti l’età che avanza oppure una sorta di reazione istintiva al “nuovo a tutti i costi” che periodicamente sembra impossessarsi della maggior parte di noi, ma la direzione che sta prendendo la biblioteca pubblica (ed in particolare quella di pubblica lettura) mi convince sempre di meno.
Se è vero che la biblioteca è un organismo che cresce, per scomodare Ranganathan e la sua quinta legge, e che come tale si adatta alla società nella quale essa è inserita, mi vien da chiosare che è altrettanto vero che, così facendo, essa corre il concreto pericolo di farne propri i difetti e le distorsioni.
Accade così che le biblioteche si facciano trascinare da mode o comunque da tematiche a mio avviso non esattamente “core” (penso, di questi tempi, ai big data, dei quali vanno comunque ammessi i vantaggi gestionali, ed all’universo wiki) e, aspetto che porta in sé un bel carico di contraddizioni, fanno propri i ritmi della società moderna.
Ad esempio ogni anno, con svizzera puntualità, proponiamo maratone di lettura e sfide all’ultimo libro: a me sta ovviamente bene promuovere il libro e la lettura, ma non rischia di passare il messaggio che la quantità (in una sorta di “bulimia da lettura”) prevale sulla qualità?
Analogamente miriamo a creare biblioteche sempre connesse, sociali, con prestito H24, etc.: anche in questo caso l’obiettivo, meritorio, è quello di “andare dal lettore” (ergo, interfacciandosi con quest’ultimo non più e non solo “de visu” ma anche attraverso i social network), offrendogli dei servizi in linea con le nuove possibilità tecnologiche ed alle correlate nuove modalità di fruizione / lettura (ebook su tutto) etc. Pure qui vale la considerazione fatta poc’anzi: se il fine è meritorio, il risultato non rischia di essere controproducente? La butto lì, provocatoriamente: la proposta della biblioteca ai cittadini non potrebbe (dovrebbe?) essere anche quella, alternativa, di offrire un’oasi di tranquillità, un luogo di maggior “distacco” e “rallentamento” dei ritmi?

Uno studio Nielsen sullo stato di salute dell’e-book nel Regno Unito, diffuso qualche mese fa, conferma che i lettori britannici (mercato maturo) si stanno per certi versi disaffezionando dal libro elettronico e ne individua la causa proprio nella necessità, specialmente da parte dei lettori più giovani e più connessi, di “staccare” dalla tecnologia e dai ritmi sempre più ossessivi che essa impone (“Young people [are] using books as a break from their devices or social media”).
Pertanto, prendendo atto di queste esigenze manifestate dai lettori, non può essere considerato con interesse un riposizionamento strategico, o più precisamente una diversificazione dell’offerta, che preveda, accanto al Wi-Fi gratuito la presenza di aree ad hoc in cui “disintossicarsi” da Internet e da tutto ciò che ci ruota attorno?
Dal punto di vista operativo ciò si traduce, banalmente, nel pensare e progettare spazi specifici: se oramai una ventina d’anni fa Vittorio Gregotti, in un suo saggio all’interno del volume “La biblioteca tra spazio e progetto” (Bibliografica, 1998, p. 23), proponeva di “dilatare ed articolare gli spazi dedicati alle occasioni di socializzazione” nella convinzione (in via di principio assolutamente condivisibile) che “solo restando collettivamente necessaria, la biblioteca potrà, anche dal punto di vista dell’architettura, avere anche in futuro un ruolo collettivo ed urbano significativo”, probabilmente tale affermazione andrebbe aggiornata ed integrata; in particolare credo che, nel momento in cui le relazioni sociali e la biblioteca si fanno virtuali, l’obiettivo di preservare la vitalità della biblioteca nel suo contesto (sociale, urbano, etc.) reale sia raggiungibile a patto di articolare maggiormente gli spazi, prevedendone appunto alcuni, accanto alle “tradizionali” sale di lettura, postazioni di studio, etc. in grado di fornire agli utenti momenti di stacco / distacco, di riflessione, oserei dire di meditazione. Non a caso il modello a cui penso si avvicina tremendamente a quello delle celle monastiche presenti negli scriptoria medievali (ma ad esiti analoghi potrebbero condurre postazioni immerse in parchi urbani). I benefici sarebbero molteplici e spazierebbero dalla qualità della lettura (e qui si apre la questione dell’ambiente non distrattivo che influisce sulle capacità di interiorizzazione), alla rielaborazione attiva (a questo punto su base individuale, anche se alla fase “collettiva” ci si può tranquillamente dedicare in un secondo momento!) fino alla genesi di nuove idee.

Concludo con una precisazione che può apparire banale: nell’Italia profonda, quella dei piccoli Comuni e dei paesi, che a ben guardare costituisce per larghi tratti ancora l’ossatura della Nazione (e non a caso pure del sistema bibliotecario), la predisposizione di simili spazi non è probabilmente necessaria. Lo è, al contrario, nelle realtà urbane medio-grandi ed ovviamente nelle metropoli e nei grandi agglomerati urbani: è qui che andrebbe seriamente presa in considerazione l’opportunità di predisporre (ipotesi: almeno una biblioteca per ogni polo / rete bibliotecaria?) simili spazi (o, se volete, chiamiamole pure “postazioni di lettura”, per quanto sui generis!). In definitiva ogni realizzazione va personalizzata il più possibile ed adattata allo specifico contesto, il che, e qui torniamo al punto di partenza, equivale a rifiutare l’uniformazione e l’alienazione verso la quale, con la corsa spesso non adeguatamente ponderata ed anzi realizzata “a prescindere” al digitale, la biblioteca pubblica sembra invece tendere.

POSTILLA. In questo post ho parlato essenzialmente di biblioteche: è a questi istituti, infatti, che è stato richiesto, negli anni, di svolgere compiti di socializzazione (biblioteche come centri sociali / culturali) che, probabilmente, esula(va)no dalla mission specifica. Negli archivi, invece, il problema è sempre stato il contrario: visti spesso e volentieri “burocraticamente” come mero luogo di detenzione di carte, i pochi (proporzionalmente, s’intende) utenti che vi si avventurano sono spesso tuttora trattati – con mentalità tipicamente ottocentesca – come impiccioni da allontanare! In questi istituti sì, ci vorrebbe una “terapia” di apertura al mondo che passa anche, ma non solo, attraverso il digitale!

Instagram in biblioteca

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Dell’utilizzo dei social network in archivi e biblioteche si parla e si scrive in lungo ed in largo: Facebook e Twitter, in particolare, sono tra gli strumenti che gli esperti indicano come i più efficaci, il primo (solo per enunciare i principali pregi) in virtù della enorme base di utenti e della possibilità di pubblicizzare e promuovere eventi inserendo foto, video, etc. a corredo, il secondo soprattutto per l’immediatezza e la rapidità d’uso derivante dai 140 caratteri massimi ma anche per la potenza dell’hashtag cancelletto (#) come aggregatore tematico.
Sulla scorta di queste considerazioni non stupisce che negli ultimi anni numerosi archivi e biblioteche abbiano attivato account istituzionali di questi ultimi due servizi mentre altri, che richiedono maggiore impegno e maggiori competenze tecniche (penso a Youtube) oppure che meglio si adattano a specifiche tipologie di istituti (penso di nuovo a Youtube per archivi contemporanei con importanti fondi audiovisivi o a Flickr per quegli archivi e quelle biblioteche che conservano ricche raccolte fotografiche), sono rimasti decisamente meno diffusi.
In questo panorama abbastanza nitido, in verità se vogliamo per certi versi quasi scontato, ritengo che un’anomalia ingiustificata sia rappresentata dallo scarso utilizzo di Instagram, il social network nato nel 2010 come app per dispositivi iOS (quindi in ambiente mobile, aspetto non secondario, e solo successivamente divenuta utilità da desktop PC!) e caratterizzato dalla possibilità di scattare foto con la fotocamera presente sul device in uso, applicandovi poi filtri in alta definizione e, aspetto non meno importante, di taggarle, di condividerle con amici e di commentarle.
Instagram, forte della sua base di 400 milioni di utenti attivi, oramai ha scalzato Twitter (fermo a quota 320) nelle preferenze di molti utenti: posto che i dati in circolazione vanno maneggiati con cautela (non bisogna infatti confondere utenti attivi con utenti registrati!), bisogna ammettere che i numeri sono netti, al punto che secondo molti il 2016 sarà l’anno di Instagram, il quale gode di un’appeal senza pari tra le giovani generazioni, stanche di Facebook.
Ma quali sono i punti di forza di Instagram, tali da averne hanno decretato il successo? Precisato che si tratta ovviamente anche di un fenomeno di moda (numerosissime sono le celebrità presenti in Isntagram con propri profili, seguiti da milioni di fan; n.d.r), è necessario riconoscerne le indubbie qualità che a mio avviso sono le seguenti: 1) punta sulle fotografie, ed in tempi di società dell’immagine non c’è miglior via per assicurarsi il successo 2) da Facebook riprende funzionalità quali i “Like” ed i commenti (con tanto di faccine in stile Whatsapp) 3) da Twitter copia il meccanismo dell’hashtag, a riguardo del quale va precisato come attualmente non vengano forniti trend topics elaborati sulla base delle parole chiave più utilizzate in un dato momento come fa Twitter; all’utente, man mano che li scrive, vengono semplicemente suggeriti tag “standardizzati” che risultano ugualmente fondamentali per creare quella trama di collegamenti tra le proprie foto e quelle postate da altri utenti ed etichettate con gli stessi termini 4) da Foursquare recupera il principio della georeferenziazione: in base al luogo in cui ci troviamo (= dove si trova il nostro smartphone), Instagram ci propone una serie di foto scattate nelle prossimità.
In sostanza Instagram ha fatto proprie quelle che sono le principali caratteristiche degli altri social network, fondendole sapientemente in un’unica app che, venendo a noi, sono convinto potrebbe dare molte “soddisfazioni” qualora utilizzata in ambito bibliotecario.
Del resto il nesso tra biblioteche e mondo dell’immagine/foto è forte non solo perché esse incentrano principalmente la propria attività su un oggetto, il libro, che è fruibile (perlomeno nella nostra epoca) in primis mediante la vista; lo è anche perché il libro stesso ha una valenza estetica (nella copertina, nelle miniature, nelle illustrazioni) tale da far apparire quasi spontaneo “fotografarlo”.
Non sto chiaramente scoprendo nulla: basta infatti scorrere i tweet di una qualsiasi biblioteca per rendersi conto che molti bibliotecari già lo fanno, a volte inconsapevolmente altre con lo scopo pratico di far conoscere le nuove accessioni. Il punto è che su Twitter esse si confondono in un mare di teneri gattini e cuccioli vari (purtroppo accade ancora!), di locandine di eventi, di avvisi, di adesioni a campagne di mobilitazione varie, etc.
In altri termini la fotografia, in Twitter, perde il proprio valore aggiunto; per contro su Instagram vi è la possibilità di inserirla in discorso / flusso narrativo dotato di un certo valore estetico (non me ne vogliano i fotografi di professione, ma effettivamente su Instagram ci sentiamo un po’ tutti artisti!) e soprattutto dotato di una coerenza interna e con la “social media strategy” definita dall’ente, senza peraltro che ciò (e qui sta il bello) precluda ulteriori, non previsti, percorsi.
Ad esempio, se clicchiamo sull’immagine della biblioteca del Centro de Arte Reina Sofia di Madrid pubblicata in questo post, ecco che finiamo sulla stessa foto caricata nel mio profilo Instagram; qui possiamo cliccare ulteriormente sull’hashtag #library e veder comparire alcune foto che ritraggono le più belle biblioteche al mondo oppure sull’hashtag #reinasofia, al quale sono associate foto scattate dagli altri utenti nelle quali ricorre sì il medesimo tag ma che hanno un soggetto completamente diverso dal mio. Ecco dunque che, partendo dalla foto di una biblioteca, scopro che al Reina Sofia è esposto il celebre Guernica di Pablo Picasso ma anche, attraverso un’altra foto, pure che è in corso una mostra temporanea su Constant Nieuwenhuys, personaggio poliedrico ed autore del libro New Babylon.
Appare evidente come Instagram, in pochi passaggi, sia stato in grado di farci compiere un viaggio tra diverse arti e discipline, fornendoci peraltro ulteriori spunti di lettura!
Le potenzialità dello strumento dunque ci sono tutte, resta da capire come sfruttarle al meglio; la palla, a questo punto, passa ai social media strategist, figure delle quali le biblioteche devono a mio avviso dotarsi (qualora ciò non fosse possibile, è necessario che i bibliotecari apprendano i rudimenti della materia), ed ai quali spetta il compito di inserire Instagram nella più vasta strategia comunicativa della biblioteca / dell’Ente, affiancando e non sostituendo gli altri social media.
A riguardo, pur non essendo un esperto, mi permetto di fornire alcuni semplici, finali, suggerimenti operativi: A) fatti salvi casi specifici, è auspicabile che le foto pubblicate su Instagram vengano condivise automaticamente anche sugli altri social network nei quali si è presenti; B) nel momento in cui dobbiamo decidere su cosa basare il nostro discorso narrativo, prenderei in considerazione i seguenti tre: 1) i libri (= le raccolte), 2) le sedi e 3) le persone (utenti / bibliotecari), ovvero i tre elementi che incidentalmente sono a fondamento della biblioteconomia e che, con le loro interconnessioni quotidiane, reali e virtuali, ne assicurano la vitalità.

#SalTo14: Franceschini, il libro in TV e l’ennesima chance per le biblioteche


La ventisettesima edizione del Salone del Libro di Torino non poteva iniziare in modo più scoppiettante: il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, accorso per l’inaugurazione, ha puntato il dito contro la TV, “rea” di aver arrecato danni incalcolabili al libro ed alla lettura (ricordo che il Salone è nato proprio come momento di promozione del libro e, di conseguenza, della lettura; n.d.r.); secondo il nostro, le varie RAI, Mediaset, Sky, etc. dovrebbero ora riparare alle proprie “malefatte” inserendo nei rispettivi palinsesti programmi dedicati al libro o quanto meno assicurando a quest’ultimo maggior spazio (anche pubblicitario).
Personalmente trovo l’uscita del ministro anacronistica sotto più punti di vista ma soprattutto perché sottende l’idea doppiamente dirigistica che 1) si possa “imporre” alle emittenti televisive la programmazione nella convinzione che 2) la lettura possa essere promossa / imposta dall’alto, senza rendersi conto che i tempi sono cambiati (esiste un qualcosa di oscuro che si chiama Rete) e pertanto il dualismo “televisione VS lettura” è del tutto superato.
Eppure per rendersi conto che il mondo, imperterrito, va avanti basterebbe essersi letti l’intervista rilasciata pochi giorni fa al Corriere da Russ Grandinetti, vice presidente di Amazon con delega sui contenuti Kindle, oggigiorno bisogna sapersi muovere in un contesto nel quale la fruizione di contenuti, siano essi audio, video oppure testuali, avviene in momenti “interstiziali” (nel metrò, in attesa in banca, etc.) a partire da molteplici device.
Ne discende, nella visione di Amazon, che detti contenuti debbano essere fruibili nel migliore dei modi a partire da tutti questi dispositivi e che, affinché la scelta sia più libera possibile, tra i rispettivi prezzi (dei contenuti, n.d.r.) non vi debbano essere differenze abissali. Se “una canzone costa 0,99 centesimi, con 2,99 dollari puoi vedere o noleggiare un film e i giornali in alcuni casi li leggi gratuitamente” non si può sperare che gli ebook sconfiggano la concorrenza a meno che il loro prezzo non sia altrettanto allettante.
Si ripropone, pertanto, il problema dell’IVA applicata (sulla quale oggi Franceschini ha peraltro detto di essere al lavoro), delle strategie da mettere in atto per rendere il libro (digitale e non solo) appetibile ed in generale per far sì che si legga di più.
Se Amazon si sta già attrezzando allo scopo (da una parte attraverso l’ampliamento della propria famiglia di device dagli ereader ai tablet e prossimamente agli smartphone, dall’altra mediante l’offerta praticamente flat di film in streaming e libri a fronte del pagamento di un fisso relativamente equo), che stanno facendo le biblioteche per affrontare simili cambiamenti strutturali?
Il discorso è amplio e rischia di portarci fuori strada: sintetizzando nell’attuale dibattito italiano si sta sì ponendo grande attenzione al tema del digitale in biblioteca ed a quello, correlato, della presenza in Rete e sui social network ma nel contempo il libro (sia esso analogico o digitale) sta perdendo centralità: da una parte infatti vi è chi ritiene che la biblioteca debba andare “oltre” al libro, dall’altra chi crede, al contrario, che essa debba rimanere fedele alla propria missione di selezione, intermediazione e facilitazione nell’accesso alle risorse informative (proprio al Salone interverranno sull’argomento, riprendendo il discorso avviato a marzo alle Stelline, Maria Stella Rasetti e Riccardo Ridi).
In altri termini i bibliotecari / le biblioteche stanno procedendo ad una necessaria review interna che però rischia di accentuare il ritardo che già si accusa “nel digitale”. Eppure idee e soluzioni che rappresentano il giusto connubio tra le due linee di pensiero esistono: il progetto The Underground Library della New York Public Library, ad esempio, mira a contendere ad Amazon & Co. proprio quei “nuovi” lettori descritti da Grandinetti: in pratica finché si è in metropolitana (senza connessione), invogliati da poster che immortalano scaffali pieni di libri, vi si avvicina il proprio smartphone con sensore NFC e si scarica l’anteprima di un libro; una volta riemersi in superficie (e ripristinata la connessione), ci viene indicato sul display del telefonino dove si trova la biblioteca più vicina nella quale poter recuperare (se ci era piaciuto) il libro che avevamo iniziato a leggere.
Che dire, proprio un bel modo per unire geottagging a promozione della lettura, ricordando nel contempo alla gente che le biblioteche continuano ad esistere e che vi possono sempre trovare un libro interessante da leggere!
Ma ovviamente si potrebbero ipotizzare altre strategie affini: ad esempio come non pensare, nel momento in cui si rendono disponibili hot-spot pubblici in molte di quelle zone descritte da Amazon come i luoghi principe nei quali avvengono le nuove modalità di lettura, all’invio da parte della biblioteca del posto di un messaggio contenente un invito a leggere / scaricare un libro o, più genericamente, di accedere al sito / catalogo della stessa?
Personalmente ritengo che l’utilizzo di simili strategie, basate su un mix di tecniche push / pull, potrebbero dare ottimi risultati e se è innegabile che esse sono adatte soprattutto per tessuti urbani di notevoli dimensioni, è altrettanto verosimile che con gli opportuni aggiustamenti esse potrebbero risultare applicabili con successo anche in altri contesti.
Insomma, sta alle biblioteche (o meglio, ai bibliotecari), cogliere le opportunità che si propongono e che potrebbero consentire loro di stare al passo con i tempi senza perdersi in sterili settarismi.

Terremoti, memoria digitale e l’Italia che vorremmo

Libreria Grande Sabbioneta

La sala che ospitava la Libreria Grande di Vespasiano Gonzaga (rielaborazione)

Come già capitato in passato con alcuni post pubblicati a ridosso dei periodi di vacanza, invernali od estivi che fossero, anche in questo caso l’ispirazione mi è venuta dal breve viaggio che, dato il periodo, mi sono concesso.
Per la precisione, a cavallo del Capodanno, ho trascorso alcuni giorni seguendo un itinerario “minore” tra le province di Modena, Parma e Mantova, zone, come noto, duramente colpite dal terremoto (o meglio, dai terremoti) del 2012.
Purtroppo, è risaputo, scemato il clamore mediatico ci si dimentica di quello che è successo e si pensa che, come con un tocco di bacchetta magica, tutto sia stato risistemato e le ferite sanate.
Ovviamente, consapevoli della portata delle distruzioni e soprattutto del fatto che in Italia ogni cosa procede in tempi biblici, sotto sotto sappiamo tutti che il miracolo della ricostruzione non può essere avvenuto; ciò nonostante rappresenta un colpo al cuore andare a Sabbioneta, “città ideale” inserita nel patrimonio UNESCO, e visitare Palazzo Giardino (con la splendida Galleria degli Antichi) tra tante impalcature di sostegno e qualche abbozzo, tutt’altro che sistematico, di restauro (la guida ci ha spiegato che i lavori dovrebbero partire a mesi, speriamo!). Ancor più doloroso è visitare il complesso monastico di San Benedetto Po di Polirone, indissolubilmente legato alla figura della “grande” Matilde di Canossa, ed essere obbligati ad un percorso “a salti” a causa delle numerose sale inagibili e per di più orbo del suo pezzo forte, vale a dire il refettorio affrescato dal Correggio.
Intendiamoci, lungi da me alcuna vena polemica: una volta messi in sicurezza i luoghi è bene prendersi tutto il tempo necessario prima di partire con i restauri, in modo da eseguirli nel migliore dei modi. Però, dubbi e perplessità su quelle che sono le priorità dei nostri decisori sorgono eccome!
Si parla pressoché quotidianamente della crisi che attanaglia il settore edilizio: ebbene, tra zone terremotate (oltre all’Emilia, che qui ha offerto lo spunto, non dimentichiamo L’Aquila), aree archeologiche abbandonate all’incuria (Pompei caso simbolo ma tutt’altro che unico), zone dissestate dal punto di vista idro-geologico, scuole che cadono a pezzi, di lavoro per architetti, ingegneri, urbanisti oltre che per migliaia di operai edili “generici” ce ne sarebbe a volontà, senza dover inventarsi infrastrutture oramai inutili! Concentrandosi sui soli beni culturali come non pensare alle opportunità di impiego, collegate / complementari a questi interventi di carattere strettamente “edilizio”, che si aprirebbero per le centinaia di archeologi, restauratori ed in generale di diplomati in Conservazione dei Beni Culturali (personale dunque altamente specializzato), il cui mercato del lavoro è altrettanto asfittico?
Mi direte: ok, ma i soldi dove li ritroviamo in tempi di tagli e di pareggio di bilancio? A parte che, come ho sostenuto in altre sedi, i soldi per panem et circenses saltano sempre fuori, a Bruxelles milioni di fondi comunitari giacciono inutilizzati per l’assenza di valide proposte. Il problema di fondo, in definitiva, mi pare risieda soprattutto in una mancanza di volontà politica e di una adeguata progettualità.
Chiarito che quello dei soldi è un falso problema, mi chiederete, e stavolta a ragione: che c’azzecca tutto ciò con questo blog ed in particolar modo con la “memoria digitale”? Apparentemente molto poco, in realtà molto. Infatti, posto che (ovviamente, vien da dire, con non poca rassegnazione) tra i beni culturali in attesa di “manutenzione”, vuoi per cause straordinarie (come i terremoti in questione) od ordinarie (il naturale scorrere del tempo), numerosi sono quelli attinenti al patrimonio archivistico e bibliotecario, non dovrebbero sfuggire le possibili applicazioni nel vasto campo delle digital humanities.
Banalmente e senza particolari sforzi di fantasia, nel momento in cui andiamo a restaurare, a Sabbioneta, la Galleria degli Antichi perché non coinvolgere informatici, grafici e storici dell’arte per ricostruire virtualmente la sala, completa di marmi e statue (ora a Palazzo Ducale a Mantova, n.d.r.)? Per quanto riguarda lo specifico ambito librario Vespasiano Gonzaga allestì, all’interno del Palazzo Ducale, una fornita biblioteca, distinta in Libreria Grande e Libreria Piccola, e nel momento di far testamento dispose che la prima non andasse smembrata ma bensì rimanesse a Sabbioneta in perpetuum, affidandone le sorti ai padri della chiesa della Beata Vergine dell’Incoronata (la Libreria Piccola invece andò al genero Luigi Carrafa). Purtroppo, come in altre vicende analoghe, le buone intenzioni non poterono essere mantenute: le soppressioni napoleoniche non diedero che il colpo di grazia ad un fondo librario già gravemente rimaneggiato. Eppure, dal momento che conosciamo i titoli di molti dei libri posseduti da Vespasiano, perché non tentare di ricostruirla in maniera “virtuale” (tanto più che parte dei volumi un tempo costituenti la “Libreria Piccola” sono stati individuati nel fondo librario della biblioteca vicereale di Napoli)? Similmente, passando al versante archivistico, perché non affiancare al lavoro di scavo negli archivi italiani e stranieri (fece scalpore, qualche anno fa, la scoperta di circa 200 documenti sabbionetani inediti conservati presso la Kenneth Spencer Research Library dell’Università del Kansas) analoghe operazioni di “ricostruzione virtuale”?
Simili progetti, se andassero in porto, oltre a rappresentare altrettanti investimenti nel settore culturale con tutte le positive ricadute a beneficio della qualità della vita dell’intera collettività, contribuirebbero non poco, anche dal punto di vista meramente materiale, a mutare le prospettive di vita di tutti coloro che sulla ricchezza culturale dell’Italia hanno, giustamente, scommesso. C’è un intero paese da ricostruire, eppure si guarda colpevolmente altrove oppure, il che forse è ancora peggio, si lanciano “progetti indecenti” (altrimenti non può essere definita la vicenda dei famosi “500 giovani per la Cultura”) convinti di fare azione meritoria. Speriamo che nel 2014 qualcosa cambi.

Ebook in biblioteca: facciamo il punto (e alcune riflessioni)

Digital Bookmobile and eBooks di Long Beach Public Library

Digital Bookmobile and eBooks di Long Beach Public Library, su Flickr


IL DIGITAL LENDING OLTREOCEANO

La notizia è di quelle che lascia quantomeno interdetti: negli Stati Uniti, nonostante tutti gli sforzi e gli investimenti profusi in questi ultimi mesi ed anni, il prestito di ebook da parte delle biblioteche non cresce in linea con le aspettative: secondo una ricerca del PEW Research Center per quanto ormai quasi tre quarti delle biblioteche statunitensi preveda questo servizio, appena il 12% dei lettori di libri digitali oltre i 16 anni ha effettuato almeno un prestito! Tra i fattori “frenanti” evidenziati dallo studio alcuni sono, in prospettiva, risolvibili: la mancata disponibilità a catalogo di alcuni titoli oppure la presenza di liste d’attesa che scoraggiano dal prestito sono tutti aspetti che con il tempo scompariranno; se aggiungiamo poi che talvolta non si ricorre al digital lending semplicemente perché si ignora l’esistenza del servizio è lecito attendersi che con un’adeguata campagna di comunicazione i risultati possano essere maggiormente in linea con le attese… e con gli sforzi profusi!
Altri fattori contrari al prestito dell’ebook sono, invece, di natura più “strutturale” e potrebbero per questo rappresentare davvero un ostacolo difficilmente sormontabile; in particolare mi riferisco al “ritratto tipo” del lettore di libri digitali così come si ricava da un’altra ricerca (condotta peraltro sempre dal PEW Research Center e della quale avevo già dato conto anche perché in essa vi si intuivano, in nuce, le difficoltà delle biblioteche): maschio, “giovane” (meno di 50 anni), di istruzione e reddito medio-alti, amante della tecnologia e (probabilmente proprio per questa amplia disponibilità) propenso più all’acquisto che al prestito.

IL PRESTITO DI EBOOK IN ITALIA

Se questa è la situazione oltreoceano, come vanno le cose nelle biblioteche italiane? Per inquadrare meglio la natura dei problemi (e fare le debite proporzioni e distinzioni con gli Stati Uniti) è opportuno fornire preliminarmente alcuni numeri. Secondo i più recenti dati, diffusi dall’AIE ad Editech 2012, in Italia (salvo precisazioni il raffronto è del 2011 sul 2010) la lettura di ebook riguarda il 2,9 % della popolazione sopra i 14 anni (per il 61,5 % maschi), in crescita del 59,2%. Trend positivo anche per quanto riguarda la quota detenuta dall’ebook nel complesso del venduto: + 55,3% pari ad una quota dell’1,1%, complice anche un’offerta più che triplicata (da 7.559 titoli di dicembre 2010 a 31.416 di maggio 2012). Sebbene siamo ancora distanti dagli Stati Uniti, dove la quota di mercato è del 6,2% (e del 13,6% per il settore fiction) e soprattutto dove i lettori digitali rappresentano il 17% del totale, si tratta di numeri da leggere con favore; in particolare fanno ben sperare gli iperbolici tassi di crescita (in valore) dei device di lettura, i quali non potranno non far da traino alla lettura stessa: + 718,8% per gli ereader e + 124,8% per i tablet!
Purtroppo non disponiamo di dati altrettanto copiosi per delineare il prestito dell’ebook in biblioteca, motivo per cui si rende necessario fare un collage delle varie esperienze finora condotte: l’unico dato rappresentativo a livello nazionale è quello fornito da Giovanni Peresson all’ultimo Salone del Libro di Torino e riguarda le 2.300 biblioteche che hanno sottoscritto il servizio proposto da Media Library Online (MLOL), la quale mette a disposizione un catalogo di circa 300mila titoli, recuperati sia attingendo a progetti “aperti” (Gutemberg ad esempio) sia attraverso accordi stipulati con le principali case editrici nazionali.
Quella di avvalersi dei servizi di aziende “intermediarie” come MLOL, le quali si assumono il non facile compito di trovare accordi con gli editori e di realizzare la piattaforma di prestito (negli Stati Uniti un ruolo analogo è svolto, tra gli altri, da Overdrive), non è però l’unica strada percorsa:
1) la rete Reanet, con capofila la biblioteca Fucini di Empoli, ha dal 2010 avviato un progetto, significativamente denominato Una biblioteca in tasca, il quale prevede la costituzione di un proprio repository nel quale immagazzinare gli ebook acquistati così come, al fine di ampliare il “posseduto”, quelli frutto di digitalizzazioni o di altri progetti in corso in ambito nazionale (come Biblioteca Digitale Italiana)
2) la Biblioteca Civica di Cologno Monzese rappresenta oramai un altro classico case study: qui i bibliotecari si sono sobbarcati l’onere di contrattare le migliori condizioni di prestito direttamente con le case editrici (principale motivo del contendere ovviamente il famigerato DRM); gli ebook faticosamente ottenuti vengono poi precaricati sull’ereader ed attraverso quest’ultimo giungono all’utente. Si tratta di una procedura francamente farraginosa, ma così viene descritta nella pagina del progetto né dalla stessa si evince se vi sia stata nel frattempo un’evoluzione nella modalità di erogazione del servizio, in special modo per venire incontro ai sempre più numerosi possessori di un qualsiasi dispositivo di lettura.
Quest’ultima osservazione mi permette di farne una ulteriore: tutti i progetti citati, sperimentali o meno che siano, prevedono il prestito, oltre al libro, dell’apposito ereader. Si tratta sicuramente di una scelta meritoria dal momento che consente a molti utenti di “rompere il ghiaccio” con l’universo digitale ma che ha presentato e presenta alcune controindicazioni: i device hanno un costo relativamente importante, sono soggetti a rottura e soprattutto ad obsolescenza (nessuno di quelli usati nel corso dei primi progetti, tanto per fare un esempio, era touch!). Inoltre tale politica dirotta cospicue risorse che sarebbe meglio se fossero investite in infrastrutture e contenuti. In ogni caso il citato exploit nelle vendite di device di lettura dovrebbe far passare in secondo piano questa prassi, anche se automaticamente imporrà alle biblioteche di prendere decisioni di rilevanza strategica.

COME L’EBOOK (E L’UTENTE) DELINEANO LA BIBLIOTECA DEL FUTURO …

Siamo ad un passaggio cruciale: può sembrare quasi banale ricordarlo ma a seconda di come si intende gestire il passaggio all’ebook, ed in generale al digitale, si viene a delineare la biblioteca del prossimo futuro. Dunque, premettendo che quando si ha che fare con il futuro si entra nel regno del probabile, è altresì innegabile che alcune tendenze di fondo sono evidenti sicché si possono ipotizzare alcuni scenari prossimo venturi.
Non si sottrae all’ingrato compito il “solito” Pew Research Center, il quale attribuisce alle biblioteche di fine decennio il ruolo di aiutare l’utente a districarsi dalle sfide lanciate dalle “3V” dell’informazione: esse dovranno “sfoltirne” il volume (in termini quantitativi), distinguendone nel contempo la valenza (in termini qualitativi), sempre ammesso che si riusca a catturarla, tale è la velocità alla quale essa fluisce! Ne risulta un bibliotecarius novus che deve da un lato fungere da sentinella, valutatore, filtro e certificatore dell’informazione e dall’altro porsi come aggregatore, organizzatore e facilitatore nell’uso della biblioteca (e delle sue risorse!), quest’ultima vista come un nodo informativo a disposizione della community (fisica e virtuale).
Sicuramente le 3V rappresentano tre caratteristiche dell’informazione che mettono in difficoltà l’utente e pertanto l’impostazione di fondo della ricerca, nel momento in cui tenta di far sì che il bibliotecario del futuro sia in grado di affrontare le sfide poste dal modificato sistema informativo, risulta corretta; mi pare però che ci si dimentichi che assieme all’universo informativo cambia l’utente medesimo, il suo modus operandi e le sue aspettative circa i servizi che la biblioteca deve offrirgli e che questo aspetto sia altrettanto, o persino di più, importante.
Un paio di esempi chiariranno meglio i termini della questione, almeno per come la intendo io:
1) la gran parte degli studi sull’ereading hanno evidenziato come con l’ebook si legga a salti e si acquisti in modo compulsivo; nell’era del download indiscriminato ed immediato l’utente potrà tollerare la presenza di liste d’attesa per avere una qualsivoglia risorsa digitale? In tutta sincerità non credo proprio: egli cercherà su Internet (e non negli OPAC / SOPAC!) finché non troverà un’altra biblioteca / servizio in grado di dargli subito quanto desiderato
2) discorso analogo per la sezione emeroteca: è verosimile che un utente attenda il suo turno per leggersi il quotidiano o la rivista preferita? Non penso, specie quando con app come Google Current, Flipboard o Ultima Kiosk (per citarne solo due) può sfogliare sul proprio tablet un’intera edicola! Aggiungiamo che in Rete si possono recuperare pure le annate passate e appare chiaro come, dipendesse dall’utente (al quale ben poco gli importa della conservazione nel lungo periodo, della quale in questa sede evito del tutto di parlare perché finirei fuori dal seminato), la sezione emeroteca avrebbe i giorni contati…
3) il fatto è che l’utente si aspetta servizi ossequiosi del celebre motto di Google “anywhere, anytime and on any device“: egli vuole poter leggere ed informarsi su smartphone, tablet od ereader finché è in metropolitana, su desktop PC finché è in ufficio, su tablet od ereader di nuovo prima di addormentarsi e via di seguito! Poiché il passaggio da un dispositivo all’altro deve avvenire senza complicazioni tecnologiche (non devono esistere “blocchi” che impediscono l’utilizzo su uno o più device, non deve esserci bisogno di convertire tra i vari formati, la sincronizzazione deve avvenire in automatico => si prende in mano il tablet in poltrona e si riprende la lettura lì da dove la si era lasciata ore prima con lo smartphone in treno) è evidente che soluzioni come quelle proposte attualmente in Italia non possono che essere transitorie e destinate a lasciare il campo una volta che sarà terminata l’attuale fase sperimentale.

… E LE POSSIBILI RISPOSTE

Rebus sic stantibus le biblioteche devono a mio avviso porsi le seguenti domande: 1) se l’utente cambia, come dobbiamo cambiare noi per rispondere alle sue aspettative? E soprattutto, 2) quale ruolo possiamo ritagliarci nel nuovo mondo digitale? Procediamo con ordine.
1) La risposta alla prima domanda è presto detta: se le aspettative e le abitudini di lettura dell’utente sono quelle innanzi descritte non ci sono che due alternative: o a) ci si dota di una adeguata infrastruttura tecnologica e della relativa piattaforma di prestito (soluzione da me privilegiata) oppure b) se ne “noleggia” una avvalendosi di servizi come il citato MLOL o ancora meglio Overdrive (per inciso l’annuncio da parte di quest’ultima azienda che entro la fine dell’anno sarà disponibile un ereader web-based che supporta i formati ePub e Pdf e che in linea teorica abbatte in un colpo solo tutti i problemi di sincronizzazione, portabilità, gestione dei diritti, etc.: il lettore legge libri che si trovano “sulla nuvola” e l’unica caratteristica imprescindibile è che i vari device abbiano una qualche modalità di connessione alla Rete). Entrambe le soluzioni presentano pro e contro: nel primo caso (a) i contro sono quelli di acquisto, manutenzione e gestione dell’hardware oltre a quelli, ovvi, di selezione, raccolta, gestione, etc. delle collezioni digitali (che sono il motivo per cui ci si dota di tale infrastruttura!) nonché quelli dell’interfaccia utente attraverso la quale avvengono le operazioni gestionali, di ricerca, prestito, etc.; il principale pro è che (a meno che non si contratti con Amazon o Apple) si mantiene il pieno possesso delle risorse digitali. Nel secondo caso (b) il maggiore aspetto positivo è che a fronte del pagamento per il servizio la biblioteca è sgravata da tutte le incombenze tecnologiche citate, dalle trattative con gli editori, etc. Di negativo c’è però che da un lato non si possiede alcuna risorsa e pertanto se il fornitore incappa in problemi (tecnici, ma anche finanziari) l’erogazione del servizio si interrompe! Inoltre si è praticamente alla mercé delle condizioni imposte da quest’ultimo in termini di prezzi, modalità di prestito, etc.
2) Il secondo punto è solo apparentemente scollegato al primo: infatti l’apparition del nuovo lettore / utente (e delle nuove modalità di lettura) sancirà la fine della “relazione speciale” che la biblioteca ha da sempre tentato di instaurare. Questa istituzione dovrà pertanto ripensare sé stessa: come giustamente sottolineato dalla ricerca del PEW Research Center essa dovrà essere un nodo della Rete e nel contempo essere capace di relazionarsi con la community, obiettivi questi a mio avviso raggiungibili solo a patto di investire, per l’appunto, in tecnologia. Anche per le biblioteche dunque, così come per gli archivi, un vero futuro è possibile solo se si possiede una adeguata infrastruttura. E qui torniamo all’annosa questione dei soldi necessari: ovviamente duplicazioni di strutture sono inaccettabili, tanto più che tra virtualizzazione, cloud computing, etc. esistono eccome modi per razionalizzare il sistema. Ad esempio, poiché la legge sul deposito legale riguarda, tra gli altri, pure gli ebook non sarebbe una malvagia idea che nel momento in cui si creano le indispensabili repository oltre all’aspetto conservativo si prevedesse pure quello della fruizione: Internet Archive è molto dissimile come concetto? Quanti data center credete che abbia? Uno (più probabilmente un sito secondario di ripristino), e riesce ad archiviare l’intero web più video, libri, etc. nonché a reggere il peso di ben 500 richieste al secondo!
Questo solo per mettere in chiaro che tecnicamente è possibile gestire a livello centrale l’intera produzione libraria italiana; poi ovviamente si possono ipotizzare architetture federate in linea con la tradizione italiana e via dicendo, l’importante è che di queste cose si discuta e soprattutto che si faccia concretamente qualcosa!

CONCLUSIONI

Più il fenomeno ebook prenderà piede, più le biblioteche saranno chiamate ad un profondo rinnovamento; considerate le caratteristiche peculiari del nuovo lettore digitale, il libro (ed il suo prestito) non ricoprirà più come in passato un ruolo centrale, ma sarà bensì uno dei tanti servizi offerti. Starà infatti a ciascuna biblioteca individuare il proprio “posizionamento”: centro culturale con WiFi / download area, ibrido tra centro informazioni e centro di documentazione su modello degli Idea Center, Internet Café letterario… le possibili declinazioni sono infinite e dipendono in definitiva dalle esigenze locali, dalla comunità di riferimento, dai soldi a disposizione e da innumerevoli altri fattori.
L’importante è che il passaggio all’ebook, ed al digitale in generale, non venga vissuto dalle biblioteche (ed ancor più dai bibliotecari) in modo passivo e tantomeno come una minaccia: accanto alla inevitabile ridefinizione della propria mission esso lascia intravedere grosse opportunità! Come non pensare, con tutte le sperimentazioni che si fanno in tema di e-learning, che esso possa costituire un’occasione di rilancio per le biblioteche scolastiche? Come non pensare, in ambito accademico / universitario, ad una ulteriore specializzazione in fatto di pubblicazione di e-journal?
Insomma, le possibilità ci sono, basta saperle cogliere!

L’ascesa dell’e-reading… ed il declino della biblioteca?

eBook Reader di goXunuReviews

eBook Reader di goXunuReviews, su Flickr

Trovo sempre molto interessanti le ricerche provenienti dagli Stati Uniti e questo perché notoriamente quanto accade al di là dell’Atlantico anticipa di almeno un paio d’anni quanto avverrà in Europa; in questo specifico caso la ricerca pubblicata qualche giorno fa dal Pew Research Center è degna della massima attenzione per i seguenti ulteriori motivi: 1) riserva un occhio di riguardo per il mondo delle biblioteche 2) non si limita alla solita analisi delle differenze indotte dall’avvento dell’e-book in opposizione al libro cartaceo ma amplia lo sguardo all’insieme dei contenuti digitali disponibili in Rete (e-content), quali giornali online, webzine, etc. 3) seppur con uno specifico interesse per i possessori di e-reader e/o tablet, tiene in considerazione tutti i possibili dispositivi di lettura (è, in altri termini, una ricerca nei limiti del possibile neutral device).
Quali sono dunque, in sintesi, i principali risultati di questa ricerca? In primo luogo va osservato che dal 1978 ad oggi è aumentato (per la precisione dall’8 al 19%) il numero di coloro che non legge alcun libro / non risponde; chi legge, lo fa soprattutto per piacere e per informarsi. In questo contesto dal 2010 in poi si è assistito ad un incremento sostanziale di chi afferma di aver letto un e-book; in particolare a giugno 2012 alla domanda sul formato di libro letto nell’ipotetico giorno-tipo antecedente al sondaggio, il 95% rispondeva libro a stampa e 4% e-book mentre oggi tali percentuali sono passate ad 84 e 15% rispettivamente (in altri termini il libro elettronico ha triplicato la sua quota); ancor più netta l’ascesa dell’e-book se ampliamo l’arco temporale: il 21% dei cittadini statunitensi ha letto un libro digitale nel corso dell’ultimo anno.
La crescita dell’e-reading fa da pendant con la diffusione di appositi device di lettura, su tutti e-book reader e tablet: tra i primi domina nettamente l’Amazon Kindle (62%) seguito a lunga distanza dal Nook di Barnes & Noble (22%) mentre quote irrisorie sono detenute da Sony con il 2% (magro bottino per un’azienda che è stata tra le pioniere del settore) e Kobo Reader (1%; anche qui il risultato è deludente, considerando come la piattaforma di Kobo sia tra le più note). Tra le tavolette invece il primato spetta, manco a dirlo, alla Apple con le varie versioni del suo iPad anche se viene confermato il ruolo emergente di Amazon, il cui Kindle Fire si attesta al 14%; i vari Samsung Galaxy (5%), Nook Color (1%) e Motorola Xoom (1%) recitano praticamente il ruolo di comparse.
Interessanti anche le “intenzioni di acquisto”: il 13% di coloro che non possiedono un e-reader ne valutano o ne hanno già pianificato l’acquisto, percentuale che sale al 18% qualora in ballo sia l’acquisto di un tablet. Come si noterà non si tratta di cifre altissime, il che porta a chiedersi quali siano le ragioni che inducono a non effettuare l’acquisto; in questo senso la ricerca di PEW non pone domande specifiche, ma qualcosa lo possiamo intuire dalle motivazioni usate da coloro che non hanno alcun dispositivo: il 24% afferma di non averne il bisogno / di non volerlo e il 19% di non poter permetterselo a causa del prezzo elevato. Degne di nota anche le giustificazioni addotte per spiegare il perché non si possiede un e-reader (“preferisco la carta”, 16%; sarebbe stato interessante sapere se tale presa di posizione abbia origini “ideologiche” o se sia il frutto di una valutazione razionale dei pro e contro del libro a stampa in confronto al libro digitale) o una tavoletta (“ho già sin troppi device, non me ne servono altri”, 3%, argomentazione questa assai più generica e probabilmente derivante da considerazioni di ordine economico), le quali confermano, com’era lecito attendersi, come i possessori di e-reader (e per converso i non possessori) valutino questo strumento in primo luogo dal punto di vista dell’utilità concreta circa la funzione di lettura.
Finora abbiamo parlato specificamente di e-book, ma alla luce dei dati emersi sarebbe più corretto guardare all’intero panorama degli e-content: il 43% dei cittadini statunitensi sopra i 16 anni ha infatti letto una qualche forma di testo digitale di una certa lunghezza, una percentuale assai superiore rispetto a quelle del 14 e 21% citate poc’anzi! La pratica dell’e-reading inoltre appare “benefica” se si considera che, rispetto ai lettori tradizionali, i lettori “digitali” a) leggono di più e per più motivi (piacere, ricerca, istruzione, lavoro, etc.), b) consumano libri in più formati oltre a quello digitale (a stampa ed audiobook) c) così come di più tipologie (quotidiani, riviste, etc.) e, fatto non trascurabile, d) ne comprano pure di più (e sono più propensi a farlo rispetto ai lettori tradizionali).
Tale apporto positivo trova ulteriore conferma nel seguente dato: il massiccio diffondersi dei contenuti digitali non ha danneggiato la lettura, anzi! A fronte di un 60% che dichiara di leggere come prima un cospicuo 30% legge persino di più e dice di farlo sui più disparati device: smartphone, personal computer (42%) ed ovviamente dispositivi ad hoc quali tavolette ed e-reader (41%).
Quelle che rappresentano note positive circa la diffusione dell’e-book purtroppo costituiscono, sia nello specifico di questa ricerca sia inserendole in una prospettiva di medio termine, altrettante note dolenti proprio per la biblioteca: infatti con l’affermarsi del libro digitale rischiano di imporsi alcune pratiche che semplicemente “fanno a pugni” con quelli che sono i compiti tradizionali della public library: i lettori di e-book ad esempio preferiscono acquistare il proprio libro (digitale) rispetto ai lettori “generici” (61% VS 54%) ed assai meno a riceverlo in prestito, e questo a prescindere dalla provenienza (amici, parenti, biblioteca)! Qualora il nostro lettore di e-book possieda anche un qualche dispositivo di lettura, questo atteggiamento si fa ancor più marcato: alla precisa domanda su come avessero ottenuto l’ultimo libro da loro letto, i possessori di tablet hanno affermato di averlo acquistato per il 59 e quelli di e-book reader addirittura nel 64% dei casi; per contro solo nel 10 ed 11% dei casi rispettivamente essi dichiaravano di averlo preso in prestito da una biblioteca.
Le cose non vanno meglio se si guarda a come i lettori di e-book sono “arrivati” a questi libri: nel 64% dei casi il canale principale è stato il passaparola di amici e famigliari, seguito da online bookstore e siti web (28%) e librai (23%). Il bibliotecario e/o il sito web della biblioteca chiudono tristemente ultimi con il 19%.
Nemmeno quando si cerca un preciso libro la biblioteca è in cima alle opzioni: nel 75% dei casi la scelta ricade su un’online bookstore od un sito web e solo nel 12% dei casi si fa affidamento sui servizi della propria public library.
Analoghe le proporzioni pure nel caso di lettori di e-book che sono anche possessori di device di lettura: se famiglia, amici e colleghi restano prima fonte di consigli / suggerimenti con l’81% la biblioteca (o meglio il suo sito) è utilizzata dal 21%. Qualora poi si possieda un dispositivo di lettura e si sia alla ricerca di un titolo specifico la ricerca online è di gran lunga la strategia più seguita (84%) contro un misero 11% appannaggio delle biblioteche.
I numeri, dunque, non sono incoraggianti per l’istituzione “biblioteca”, soprattutto alla luce del fatto che questa mezza débacle avviene negli Stati Uniti, dove il sistema bibliotecario è sicuramente avanzato e il digital lending è un servizio fornito ormai dalla maggior parte delle biblioteche! Che fare dunque? Esiste un modo per invertire quest’inerzia?
Guardando al profilo del lettore digitale (caratterizzato da maggiore propensione all’acquisto e minor ricorso al prestito) ed al contesto generale (la Rete come simbolo della disintermediazione) indubbiamente il timore che, man mano che le generazioni native digitali diventeranno “maggioranza”, la situazione possa addirittura peggiorare è indubbiamente fondato; ciò non significa che le biblioteche non abbiano alcune carte da giocarsi, alcune delle quali desumibili dalla stessa ricerca del PRC.
In primo luogo i soggetti intervistati hanno manifestato alcune perplessità relativamente al costo degli e-book reader (ricordo che l’elevato prezzo è uno dei principali fattori che dissuadono dall’acquisto): per quanto il costo di questi dispositivi sia visibilmente in calo, è un dato di fatto che ad oggi il lettore di e-book tipo è (sempre secondo la ricerca di PRC) bianco e con un reddito ed un’istruzione medio-alta. In tal senso la funzione “democratizzante” e la mission della biblioteca nel fornire libero accesso alla conoscenza a tutti i cittadini escono intatte se non addirittura rafforzate (riprova ex contro sia che a richiedere in prestito e-book sono appartenenti delle minoranze, con reddito ed istruzione medio-bassi).
In secondo luogo, molti lettori affermano che uno dei vantaggi del libro di carta è quello di poterlo prestare ed in generale di poterne disporre con maggior libertà rispetto al corrispettivo digitale, il che è un assurdo in termini essendo come noto in ambiente digitale la distribuzione praticamente a costo zero ed immediata; evidentemente non si tratta di difficoltà legate al formato, ma dipendenti dai vari “lucchetti” (DRM) (im)posti dagli editori! Pertanto la battaglia che le biblioteche stanno conducendo per togliere o perlomeno limitare queste restrizioni potrebbe procurare loro molti nuovi “amici” che magari un giorno decideranno pure di diventarne utenti, ribadendone l’importanza in seno a questa nuova società così incentrata sulle tecnologie digitali.
Quello dei servizi è il terzo aspetto della vicenda: è infatti evidente che esiste un problema di offerta e non mi sto qui riferendo esclusivamente alla disponibilità a catalogo di titoli di questo argomento o in quella lingua (a proposito gli intervistati della ricerca difficilmente non trovano quel che stanno cercando) ma soprattutto alla funzione di search; fintantoché agli utenti verrà spontaneo ricercare un libro a partire dalle pagine web o dalle app degli online bookstore è quasi automatico che le biblioteche ricopriranno un ruolo marginale in ambito e-book! Occorre pertanto che vengano approntati SOPAC (Social Online Public Access Catalogue) e relative applicazioni per dispositivi mobili capace di ricreare quell’ambiente unico della biblioteca, vale a dire un ambiente nel quale si incontrano 1) una comunità di amanti del libro / della lettura, 2) i libri e 3) un bibliotecario la cui presenza potrebbe essere anche “on demand” e che dovrebbe fungere un po’ da guida e un po’ da moderatore.
Concludo ricordando come la ricerca abbia sottolineato più volte come la biblioteca sia punto di riferimento pressocché esclusivo allorché si tratta di audiobook; ovviamente quest’ultima deve ambire a svolgere un ruolo “universale” ma non è nemmeno da sottovalutare la possibilità di specializzarsi in un settore di nicchia qual è appunto quello degli audiobook (ma potrebbe trattarsi di qualsiasi nuovo formato che l’evoluzione tecnologica ci riserverà), tanto più che si tratta di un servizio di norma destinato a persone con problemi di lettura.
In definitiva il destino delle biblioteche non è segnato ma sicuramente solo con un buon mix di intraprendenza, reattività ai cambiamenti e nel contempo fedeltà ai valori fondanti può permettere a questa millenaria istituzione di preservare, nel nuovo contesto digitale, la sua vitalità al servizio della comunità.

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Grandi biblioteche: servono ancora?

Biblioteca José Vasconcelos

Biblioteca José Vasconcelos di PVCG, su Flickr

In un momento di crisi economica qual è l’attuale è frequente sentire discorsi del tipo: “i tagli riguardano tutti ed è normale che anche la cultura sia colpita” o al contrario “no, la cultura è la principale ricchezza del paese ed è esattamente questo il momento per investirci”. Sebbene il sottoscritto abbracci in toto la seconda delle due (tra l’altro sono in compagnia di fior di economisti; si veda a riguardo l’iniziativa lanciata dal Sole 24 Ore, principale quotidiano economico italiano), alla luce della lettura dell’articolo Queda en cibercafé la Megabiblioteca Vasconcelos en el DF, mi chiedo e chiedo provocatoriamente: ma siamo davvero sicuri che qualsiasi investimento in cultura sia davvero giustificato? i soldi spesi per realizzare una mega biblioteca come quella descritta nell’articolo rappresentano davvero un buon investimento?
I fatti, così come raccontati dall’estensore del pezzo, sono i seguenti: a sei anni dall’inaugurazione questa avveneristica biblioteca si sarebbe ridotta a mero cibercafé; certo, gli stanziamenti promessi per lo sviluppo delle collezioni non sono arrivati nelle cifre previste (2 milioni di pesos dal 2007 al 2011 a fronte dei 5 milioni annui ritenuti necessari) ma è altrettanto vero che i principali indicatori statistici non sono positivi: 1.714.228 accessi (di utenti; n.d.r.) nel 2011 a fronte di stime che prevedevano dai 4 ai 5 milioni annui, la metà quasi dei quali (735.000) vi si è recata per navigare in Internet. Non soddisfacenti nemmeno i dati sui prestiti: posto che appena il 4,7% dei visitatori (ovvero 81.275 persone) possiedono le credenziali (vale a dire, sono registrati per i servizi di prestito), i prestiti a domicilio sono stati solamente 355.391, cioè poco più di 4 libri a testa, mentre le letture in sala (non so esattamente come calcolate, essendo la biblioteca chiaramente a scaffale aperto) sono assommate a 495.105. Aggiungendo, ciliegina sulla torta, che la struttura presenta problemi di infiltrazioni d’acqua al settimo piano (motivo per cui si è dovuto procedere per ben due volte alla chiusura straordinaria della biblioteca) è evidente come il giudizio complessivo su quest’opera faraonica dall’astronomico costo di 98 milioni di dollari (questa la cifra inizialmente messa a bilancio, in realtà sono stati molti di più proprio per rimediare ai difetti strutturali di cui sopra) presenti molte ombre!
Astraendo dal caso specifico della Vasconcelos, il punto nodale è a mio parere il seguente: ha senso, in un mondo come quello attuale in cui i contenuti si vanno digitalizzando e l’accesso avverrà in maniera crescente da remoto attraverso i più disparati dispositivi, realizzare biblioteche colossali dai costi fissi di gestione immani? Prevedere chilometri lineari di scaffali che probabilmente mai verranno riempiti giacché gran parte dei libri verranno richiesti e fruiti esclusivamente in modalità digitale? Predisporre decine se non centinaia di postazioni Internet fisse quando oramai la navigazione avviene in mobilità?
Ovviamente no e questo vale per la Vasconcelos (tanto più che in Messico il compito di conservare la produzione nazionale spetta alla Biblioteca Nacional de México), per la “nostra” BEIC (qualora qualcuno abbia ancora intenzione di buttarci sopra soldi!) e per qualsiasi altro progetto che abbia lo scopo di assecondare le manie di grandeur del politico / potente di turno e gli interessi speculativi dei costruttori.
Il modo corretto di procedere è, al contrario, quello di effettuare una seria analisi preliminare del bacino di utenza e delle relative esigenze informative (intese qui in senso lato), calando il tutto nel contesto culturale, sociale e tecnologico. Se tale analisi fosse stata fatta, magari sarebbe saltato fuori che in una megalopoli come Città del Messico (quasi 20 milioni di abitanti considerando l’intera conurbazione) era più utile e conveniente creare strutture diffuse sul territorio (o potenziare le esistenti, non conosco nel dettaglio la realtà messicana) capaci di erogare servizi differenziati che trascendono il mero prestito librario. Qualcosa di affine, per intenderci, agli Idea store londinesi, nei quali oltre ai soliti libri, periodici, film e via discorrendo si organizzano corsi di lingua per i neo-immigrati, si danno informazioni tipo “sportello del cittadino”, espongono offerte di lavoro, forniscono notizie sui mezzi di trasporto, sulle iniziative delle associazioni locali, etc.
In definitiva è esattamente grazie a questa attenta analisi preliminare che ogni specifica realtà potrebbe individuare la propria “via alla biblioteca”; in Italia, ad esempio, le sfide poste dall’immigrazione sono diverse da quelle britanniche ed infatti, complice l’assenza di vere metropoli, non esistono quartieri interamente abitati da immigrati (con relativi noti problemi). Al contrario il modello che va per la maggiore è quello della città diffusa che storicamente affonda le sue radici nell’Italia dei Comuni, motivo che farebbe propendere per la realizzazione di strutture decentrate di medie dimensioni e capaci di offrire servizi calibrati sulle reali esigenze (attuali e future, espresse ed inespresse) della comunità di riferimento.
Alla luce di quanto esposto, mi azzarderei pertanto a sostenere che oggigiorno nel mondo, e a maggior ragione in Italia, NON c’è bisogno di realizzare grandi biblioteche (bastano ed avanzano le Nazionali Centrali) essendo le uniche strutture di una certa dimensione delle quali veramente c’è bisogno quelle informatiche, deputate a fungere da “punti di accumulo” delle risorse digitali che poi dovranno venir distribuite, in vista della loro fruizione attraverso molteplici piattaforme, ai vari client, siano essi biblioteche, istituzioni, etc. o gli utenti / cittadini stessi.

Cloud computing in biblioteca: quali prospettive

Biblioteca José Vasconcelos / Vasconcelos Library

Biblioteca José Vasconcelos / Vasconcelos Library di * CliNKer *, su Flickr

PREMESSA

Avrete notato che non c’è quasi post nel quale io non faccia riferimento, almeno “en passant“, al modello del cloud computing. Avendo già dedicato un articolo approfondito alle possibili applicazioni negli archivi, è ora giusto, per par condicio, delinearne i possibili utilizzi pratici all’interno delle biblioteche. Per facilità espositiva credo sia utile distinguere tra quelle applicazioni che possono venir implementate, volendolo fare, da subito e quelle che invece lo saranno in un futuro che comunque è ben più vicino di quanto si pensi.

CHE COS’E’ IL CLOUD COMPUTING (IN BREVE)

Come forse sarà noto, il cloud computing è una “declinazione” tecnologica grazie alla quale è possibile accedere da remoto, in modo scalabile e personalizzabile, a risorse hardware e software offerte da uno o più provider che le virtualizzano e distribuiscono attraverso la rete Internet. Per certi aspetti si tratta dunque della normale evoluzione di un qualcosa che era già intuibile in nuce con l’avvento della Rete ed ora semplicemente condotto alle sue estreme conseguenze; per altri si tratta di qualcosa di “rivoluzionario” cambiando radicalmente per i singoli utenti, con il passaggio alla nuvola, le modalità di implementazione delle nuove tecnologie da un lato e del loro utilizzo pratico dall’altro.

MODALITA’ DI UTILIZZO GIA’ IMPLEMENTABILI

Nella definizione sopra data si spiega chiaramente come a venir coinvolte dal passaggio al cloud sono sia la dimensione hardware che quella software; tenendo pertanto presente che esiste un’intima correlazione tra queste due componenti (essendo la prima funzionale alla seconda), risulta però assai più agevole, al fine di una trattazione più lineare, affrontare distintamente i due aspetti ed è così che intendo procedere.
1) Hardware: nelle realtà più avanzate, soprattutto in quelle in cui si è proceduto nella direzione della realizzazione del modello di biblioteca digitale, si è reso indispensabile dotarsi di un’infrastruttura tecnologica complessa (server, router, cablaggi vari, etc. il tutto collocato in ambienti debitamente condizionati) il che, se da un lato ha permesso di ampliare il ventaglio dei servizi offerti, dall’altro ha finito con l’accrescere i costi dovuti non solo alle spese in strumentazioni tecnologiche ma anche all’ “appesantimento” degli organici (la presenza di personale con conoscenze informatiche si è rivelata un’esigenza imprescindibile). Questa trasformazione, oltre ad appalesare problemi di profonda insostenibilità economica (quel “profonda” sta a ricordare che nessuna biblioteca non comporta costi), rischia anche di snaturare la natura stessa dell’ “istituto biblioteca”, finendo le spese in tecnologia con l’assorbire quote sempre più consistenti del budget a disposizione e questo talvolta anche a discapito della mission istituzionale. Visto sotto tale luce il cloud computing, consentendo di “affibbiare ad altri” l’onere di realizzare e gestire queste sempre più importanti e costose infrastrutture, rappresenta una boccata d’ossigeno non da poco per le finanze sempre più striminzite della maggior parte delle biblioteche (ibride, virtuali o digitali che siano). Purtroppo questa via di delegare in toto a terzi non è percorribile così “a cuor leggero”: le problematiche in fatto di sicurezza dei dati (personali, record bibliografici, etc.) non sono di facile soluzione a meno di non ripiegare su soluzioni intermedie come potrebbero essere le hybrid o private cloud (senza scendere nei dettagli, si tratta di modelli “intermedi” nei quali si mantiene un certo grado di controllo sull’infrastruttura tecnologica senza per questo rinunciare alla maggior parte dei benefici della nuvola). Al netto di queste controindicazioni, credo che l’uso del cloud computing in modalità IaaS (Infrastructure as a Service), già diffuso in alcune realtà, sarà nel volgere di pochi anni più la regola che l’eccezione.
2) Software: basta solo pensare che praticamente qualsiasi programma attualmente installato nel nostro personal computer può / potrebbe tranquillamente venir erogato in modalità cloud per intuire come il cosiddetto SaaS (Software as a Service) sia denso di implicazioni anche per il settore biblioteconomico; in effetti già nel momento in cui scrivo molti importanti poli bibliotecari hanno adottato SW (con funzioni di catalogazione, di gestione del prestito, di evasione delle pratiche amministrative, etc.) cui si accede per via telematica previa autenticazione e che dal punto di vista “fisico” risiedono presso i server della società sviluppatrice assieme a tutti i dati di natura amministrativa, catalografica, etc. caricati dai singoli operatori “sparsi” nelle diverse biblioteche / nodi appartenenti alla rete. Senza nemmeno qui scendere nei dettagli, i pro del passaggio alla nuvola sono evidenti (una catalogazione partecipata e collaborativa, una miglior ottimizzazione delle risorse, ad es. tramite acquisti coordinati ed una circolazione delle risorse più razionale) così come i contro (in caso di interruzione dell’erogazione dell’energia elettrica oppure in assenza di connessione, semplicemente il sistema non funziona!). Tutti fattori da valutare con un’attenta analisi costi / benefici anche perché, ponendosi nel worst case scenario, la necessità di garantire la continuità del servizio imporrebbe anche a realtà minori (che difficilmente possono permetterselo) la presenza di gruppi di continuità e connessioni garantite (linee dirette, molteplici fonti del segnale, etc.), ovvero soluzioni talvolta non adottate nemmeno da realtà ben più grandi!

APPLICAZIONI E SCENARI FUTURI

Dal momento che vanno a modificare prassi consolidate, gli utilizzi pratici del cloud sin qui descritti rappresenteranno un sicuro elemento di novità nel settore bibliotecario; eppure, pur con tutta la loro rilevanza, essi rischiano di apparire gran poca cosa se raffrontati a quanto potrebbe avvenire di qui a pochi anni! In effetti, senza che ciò significhi abbandonarsi a voli pindarici, guardando a ciò che potrebbe divenire a breve realtà sembra davvero di poter affermare che nel prossimo futuro saremo testimoni di cambiamenti epocali! In particolare a mio avviso il cloud computing moltiplicherà gli effetti di altri processi attualmente in corso in modo più o meno indipendente tra di loro (e dei quali, per inciso, talvolta esso stesso è nel contempo premessa e conseguenza!): a) diffusione dell’e-book b) diffusione di dispositivi per la fruizione di contenuti digitali in mobilità (smartphone, e-reader, tablet, etc.) da parte di individui sempre più connessi c) presenza di una incontrollabile massa di risorse digitali parte delle quali, stando alla teoria, dovrebbero essere “appannaggio” delle biblioteche (digitali). Partiamo da quest’ultimo punto: sulla centralità del ruolo che potranno giocare le biblioteche (digitali) onestamente nutro più di un dubbio; troppa la disparità degli investimenti effettuati ed in generale delle risorse (umane, finanziarie, tecnologiche) disponibili! Purtroppo temo che in futuro il ruolo di intermediazione attualmente svolto dalla biblioteca fisica, con la quale tutti noi abbiamo familiarità, non sarà altro che un ricordo essendo essa sostituita dall’interfaccia grafica messa a disposizione in Rete da quelli che genericamente sono definibili come fornitori di risorse digitali; in sostanza dunque l’utente (cliente?) effettuerà ricerche, accederà alle collezioni digitali, fruirà delle risorse reperite rielaborandole e condividendole “socialmente”, il tutto direttamente a partire dal sito web / dall’applicazione sviluppato/a dal DRP (Digital Resources Provider) ed indipendentemente dal tipo device in uso. In concreto il DRP in parte creerà direttamente piattaforme ed applicativi ed in parte si inserirà in un ambiente digitale nel quale applicazioni di terzi si integreranno tra di loro espandendo, a seconda degli interessi e delle esigenze dell’utilizzatore, il suo “habitat” digitale (=> le varie fasi di ricerca, utilizzo, condivisione, conservazione, etc. avverranno in un ambiente percepito dall’utente come unico).
Se questo sarà a mio vedere il probabile scenario di riferimento, è il caso di soffermarsi su alcuni aspetti di specifico interesse biblioteconomico: 1) non è tutt’altro che scontato che, nella sua ricerca di e-book, l’utente si rivolga alle biblioteche né d’altro canto è così pacifico che le biblioteche digitali saranno le DRP per eccellenza di quella specifica risorsa che chiamiamo “libro elettronico”; anzi è altamente probabile che il ruolo dei motori di ricerca (non mi riferisco qui solo a quelli generalisti come Google, ma anche a quelli dedicati come Ebook-Engine.com) così come quello dei cataloghi delle case editrici (meglio ancora se “evoluti” in chiave social in stile aNobii) sarà vieppiù crescente. 2) Proprio l’atteggiamento di queste ultime è attentamente da valutare; se da una parte esse pure vedono con il fumo negli occhi il ruolo di rigidi gate-keeper svolto dai SE nei riguardi dei contenuti che loro stesse – le case editrici, intendo – concorrono a creare (e potrebbero perciò allearsi con le biblioteche contro il comune nemico), dall’altra non si può non interpretare come “ostili” i peraltro non numerosi accordi fin qui stipulati in tema di digital lending! Essi fanno intravedere, nel momento in cui gli editori stessi (o ulteriori società “intermediarie” specializzate) si accollano l’onere di sviluppare e gestire piattaforme attraverso le quali effettuare le operazioni di ricerca ed eventuale “prestito” per conto delle biblioteche, la prospettiva di una marginalizzazione di queste ultime, ridotte a poco più di mere “procacciatrici” di utenti / clienti! (A rendere critico il rapporto biblioteche – editori è anche la questione del DRM ed in generale della tutela dei diritti di proprietà intellettuale, che è in via di ridiscussione e, viste le posizioni di partenza scarsamente conciliabili, rendono verosimile un peggioramento rispetto alle regole, già non perfette, esistenti nel “mondo fisico”).

CONCLUSIONI

Per concludere, dunque, il cloud computing in biblioteca nella sua declinazione IaaS se da un lato pare assicurare quei vantaggi connessi all’uso di infrastrutture tecnologiche all’avanguardia contenendo allo stesso tempo i costi entro limiti ragionevoli, dall’altra sembra pericolosamente strizzare l’occhiolino al bibliotecario e dire: “Ehi, tranquillo! Non preoccuparti della ferraglia, ci pensiamo noi!”, senza farlo riflettere sul fatto che la perdita di controllo sull’infrastruttura IT non è cosa da poco! Anzi a ben guardare è solo la prima di una lunga serie di “concessioni” che si fanno in rapida successione: ad esempio con il digital lending, almeno per come è stato fatto finora in Italia, si perde pure quello sulla piattaforma, senza poi considerare come in ambiente digitale vadano completamente ricalibrate le strategie di comunicazione con gli utenti, che rischiano di essere “scippati” dagli onnipresenti social network. Alla luce di queste considerazioni anche gli indubbi vantaggi ottenibili a livello di piattaforma (PaaS) e di software (SaaS), con la nuvola che trasforma davvero quasi per magia i poli bibliotecari in un’unica grande biblioteca, con un patrimonio trattato omogeneamente, utenti condivisi, procedure comuni, etc., perdono gran parte del loro valore.
Un ultimo appunto è, infine, di ordine squisitamente teorico: è opinione diffusa in letteratura che alla biblioteca elettronica (= per Carla Basili e Corrado Pettenati “una biblioteca automatizzata, non necessariamente connessa alla Rete”) si sarebbero quasi evoluzionisticamente succedute la biblioteca virtuale ( = una biblioteca connessa in ruolo di client, ovvero che trae dalla Rete parte delle sue risorse per espandere il posseduto) e quella digitale ( = una biblioteca che mette a disposizione di utenti remoti le proprie risorse digitali pubblicandole in Rete). Ebbene con il cloud computing mi sembra che questo ruolo “attivo” in qualità di server venga un po’ meno: d’accordo, la biblioteca possiederà sicuramente delle risorse digitali, ma è indubbio che queste (quand’anche dal punto di vista legale di sua proprietà) risiederanno su server di terzi. Inoltre, dovesse il trend rafforzarsi (ed i soldi rimanere sempre pochi), le biblioteche acquisteranno sempre meno “risorse digitali” optando per formule ibride quali noleggio / affitto rinunciando perciò anche al ruolo di interfaccia tra utente e risorse (questo perché gli accordi stipulati prevederanno che della piattaforma di ricerca e prestito si occupi il “noleggiatore”). Insomma, mi pare proprio si possa affermare che le biblioteche con il passaggio alla nuvola rimarranno ancorate al ruolo di client e quand’anche dovessero progettare di ampliare i propri servizi consentendo l’accesso a risorse digitali presenti in Rete, in gran parte dei casi non lo farebbero impegnandosi in prima persona. In altri termini, la definizione di “biblioteca digitale” così come formulata dalla teoria rischia di restare pura speculazione.