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Archivisti e bibliotecari, chi è più “social”?

Social Media Landscape

Social Media Landscape di fredcavazza, su Flickr

Confesso che il sospetto l’avevo sempre avuto però la recente pubblicazione su “Il Mondo degli Archivi” di una prima, provvisoria directory dei blog italiani ad argomento archivistico non lascia dubbi interpretativi.
Nonostante il curatore, Emanuele Atzori, si sia prodigato nel raccogliere il maggior numero di blog, lanciando un appello attraverso i vari canali a disposizione (il sito ufficiale de”Il mondo degli Archivi”, la lista di discussione “Archivi 23”, etc.) per indurre gli stessi archivisti – blogger così come i loro eventuali lettori a fare le loro segnalazioni, l’elenco è composto da appena dieci (10!) blog, incluso quello, peraltro assai trasversale, che state leggendo.
Sembra dunque trovare conferma la mia sensazione che gli archivisti, mediamente, sono meno propensi all’utilizzo dei social network / social media rispetto ad esempio ai “cugini” bibliotecari. Il confronto con questi ultimi, sempre prendendo in considerazione i soli blog, è impietoso: una scorsa al repertorio curato da Juliana Mazzocchi su Burioni, per quanto non aggiornatissimo, è eloquente! E’ pur vero che i blog qui elencati appartengono alle biblioteche in quanto istituzioni ma è altrettanto vero che, dietro a ciascuno di essi, verosimilmente c’è un bibliotecario. Inoltre basta una breve ricerca per constatare come a scarseggiare, per non dire inesistenti, sono pure i blog afferenti a specifiche istituzioni archivistiche.
Allargando poi il campo di analisi agli altri strumenti di socialità tipici del web 2.0 l’impressione è che, nonostante qualche timido tentativo (vedi il bel canale YouTube della Direzione Generale per gli Archivi, la quale è presente anche su Facebook), gli archivi rimangano molto indietro.
Ovviamente sarebbe necessario possedere maggiori dati, frutto di uno studio necessariamente ben più approfondito e sistematico di quello qui velocemente condotto, prima di poter tentare di dare una spiegazione del perché di questa disparità, che comunque è evidente ed innegabile; ciò nonostante credo che alcune congetture possano essere formulate sin da ora.
Scartando oscuri motivi “genetici” che possano spiegare perché i bibliotecari sono “social” e gli archivisti no, credo che una causa vada rintracciata innanzitutto nel modo in cui queste due categorie hanno guardato all’informatica sin dai loro albori. I bibliotecari mediamente le hanno abbracciate con entusiasmo mentre gli archivisti, al contrario, salvo rare eccezioni con malcelato sospetto giacché alcune metodologie rimandavano al vituperato documentarismo.
Le conseguenze non hanno tardato a manifestarsi: i bibliotecari hanno messo in campo, con SBN (pur con tutte le sue imperfezioni) e soprattutto con le numerose reti bibliotecarie, sistemi che facevano e fanno della collaborazione e condivisione (delle prassi, delle esperienze, etc.) un punto di forza. In questo campo gli archivi e gli archivisti accusano un ritardo decennale che, nonostante gli sforzi (vedi SAN e SIAN), deve ancora essere colmato.
Oltre a questo dato strutturale, va detto che un ulteriore fattore penalizza gli archivisti: difatti la natura dell’ “oggetto libro” (e tanto più ora dell’ebook), diversamente da quella del documento, è per sua natura sociale. Di un libro si discute, se ne raccomanda agli amici la lettura, lo si può leggere durante reading pubblici, etc. Nulla di tutto ciò si fa con un documento, che al massimo viene citato in una nota oppure esposto ed ammirato dietro una teca.
Le conseguenze non sono da sottovalutare: la mancata frequentazione da parte degli archivisti dei principali social media, oltre a rappresentare un ostacolo alla creazione di uno strumento che, come auspicato da Aztori, “può aiutare a creare un’utile rete tra operatori, nonché un proficuo scambio di esperienze teoriche e pratiche inerenti il mondo degli archivi”, rischia di avere un impatto negativo sulla percezione complessiva che si ha degli archivi e degli archivisti da parte dei non addetti ai lavori e soprattutto dei decisori politici i quali, a causa di una mancata comprensione dell’importanza e delle criticità che in questo specifico frangente storico stanno attraversando il settore, potrebbero finire per non supportarlo adeguatamente in termini di allocazione di risorse.
Inoltre, a prescindere dalle considerazioni economiche (non è che il mondo delle biblioteche, in quanto a finanziamenti, se la passi meglio nonostante la sua buona presenza in Rete), non bazzicare per i social media significa rimanere tagliati fuori dal flusso di notizie ed informazioni che, per la loro natura talvolta poco ortodossa, difficilmente circolano in ambienti più “accademici”. Illuminante è l’esempio del famoso blog statunitense The Signal, il quale, promosso dalla Library of Congress, si occupa di digital preservation con un approccio interdisciplinare al punto da essere di riferimento tanto per i bibliotecari quanto per gli archivisti. In altri termini The Signal dimostra come i social media potrebbero fungere, in considerazione anche della loro informalità, da fecondo luogo d’incontro in cui queste due categorie possono portare avanti il dialogo da anni intrapreso.
Un ulteriore motivo, in aggiunta a quelli precedentemente ricordati, per non snobbarli.

Archivisti, Bibliotecari e Storici: così lontani, così vicini

Charge!

Charge! di The National Archives UK, su Flickr

In questo post ritorno, seppur con ben più ampio respiro ed una angolatura differente, su un argomento che avevo affrontato en passant qualche tempo fa: il rapporto con le fonti in quest’epoca di trapasso al digitale.
Lo spunto di riflessione proviene dall’interessante dibattito che si è sviluppato a margine del come sempre stimolante intervento della professoressa Giorgetta Bonfiglio-Dosio, terzo appuntamento della Primavera Archivistica 2013 (Venezia, 28 maggio 2013).
Partiamo dunque col riassumere le varie posizioni delineatesi martedì: ad aprire la questione è stata la constatazione di come, anche in tempi più recenti di quanto si pensi, quegli storici e quei bibliotecari che hanno avuto modo di mettere le mani sugli archivi abbiano fatto danni in modo pressoché matematico.
Dopo questo j’accuse è venuta la doverosa fase di autocritica: in modo volutamente provocatorio ci si è chiesti se il fatto che la produzione storiografica padovana sia priva, diversamente da quella veneziana, di un taglio istituzionale derivi dall’assenza “a monte” di fonti archivistiche funzionali ad una simile approccio.
Ciò ha sua volta portato a sottolineare l’importanza degli strumenti messi a disposizione degli storici (ma si potrebbe dire dei ricercatori in generale) ed al riconoscimento, da parte di taluni, del fatto che i bibliotecari siano oggettivamente “più avanti” in questo campo rispetto agli archivisti, sottintendendo che da essi dovremmo trarre spunto.
E qui la discussione si è arenata, con la maggior parte dei presenti (incluso il sottoscritto) che facevano notare come il lavoro degli archivisti sia decisamente più complesso rispetto a quello dei bibliotecari. La fine della giornata, era infatti stata ampiamente superata l’ora ufficiale di chiusura lavori, ha lasciato un po’ tutti sulle proprie posizioni.
Personalmente nei giorni successivi ho continuato a riflettere su queste tematiche, mettendole in particolare in relazione con i cambiamenti digitali in corso (cosa fatta solo marginalmente nel corso del dibattito) ed ho maturato la convinzione che sì, i bibliotecari sono avvantaggiati, ma che anche gli archivisti potrebbero forse fare qualcosina in più!
E’ infatti lampante come trattare materiale biblioteconomico sia assai più agevole per fattori “qualitativi” e “quantitativi”:
1) FATTORI QUALITATIVI: da secoli, e con un’accelerazione a partire dall’invenzione della stampa a caratteri mobili (che ha assicurato quella “stabilità tipografica” ben descritta da Elizabeth Eisenstein), il libro è estremamente formalizzato: è cioè scritto con caratteri chiari e standardizzati ed ha sempre avuto alcune aree caratteristiche (colophon, frontespizio) dalle quali trarre le informazioni essenziali al suo trattamento (titolo, autore, etc.). Gli archivisti al contrario hanno a che fare con pezzi unici che, nonostante una certa formalizzazione dovuta al processo di burocratizzazione, devono faticare a decodificare (dal punto di vista della lingua usata, della scrittura – corsiva – e del contesto storico-istituzionale).
2) FATTORI QUANTITATIVI: un libro viene infatti di norma stampato in un discreto numero di copie tra di loro identiche, motivo per cui una volta catalogato uno (specie da quando si sono diffusi i sistemi bibliotecari) il lavoro è fatto per tutti; al contrario ciascun documento, al netto di eventuali copie, rappresenta un unicum e deve essere trattato singolarmente. Il regesto che si fa di un documento, diversamente dall’abstract di un libro o di un saggio che è valido per tutti i suoi “fratelli”, vale per quel solo documento! Del resto va fatto notare che lo spoglio di riviste, periodici, miscellanee, etc. non è pratica poi così sistematica, motivo per cui la “superiorità” dei bibliotecari va ulteriormente ridimensionata.
Bisogna però riconoscere che mediamente, e qui forse sta il vero punto di forza dei bibliotecari, gli strumenti da essi prodotti (i cataloghi) risultano di uso assai più immediato rispetto a quelli realizzati dagli archivisti (inventari in primis), motivo per cui sarebbe auspicabile da parte di questi ultimi una maggiore attenzione nei confronti dell’utente (non necessariamente lo storico, anche se è di quest’ultimo che parlo in questo post).
Considerazioni in chiaroscuro derivano anche dall’analisi di quanto fatto finora dagli archivisti in campo digitale: c’è infatti da chiedersi quanto la scelta di digitalizzare e rendere disponibili online alcuni fondi, od addirittura solo alcuni specifici documenti, in genere sulla scorta di valutazioni di tipo “conservativo” (= preservare i pezzi pregiati), possa influire sulla produzione storiografica. In altri termini se io, archivista, digitalizzo un documento perché so che esso è il più consultato (ergo il più a rischio deterioramento) non è che finisco per alimentare un circolo vizioso? Viene infatti quasi spontaneo pensare che, per una sorta di “pigrizia”, gli storici trovino più comodo basare le proprie ricerche sui quei materiali raggiungibili con un click piuttosto che andare a sporcarsi le mani in archivio!
Posto che spesso l’input alla digitalizzazione di molto materiale librario è stata l’esigenza di assicurarne la conservazione, bisogna ammettere che, complice la presenza di molti operatori privati che hanno provveduto ad una massiccia digitalizzazione di quei materiali con diritti d’autore scaduti (si pensi a Google), il lato biblioteche rischia decisamente meno di cadere all’interno di questa spirale negativa (semmai in quest’ambito a costituire un problema è la spinta alla citazione reciproca che deriva del sistema dell’impact factor e che rischia di insterilire la ricerca…).
Il mondo biblioteconomico, infine, appare essere più avanti anche per quel che riguarda la creazione di strumenti di consultazione user centered: come ricordato durante il dibattito sono numerose (in verità soprattutto in ambito delle biblioteche universitarie) le interfacce che riescono a trasformare keyword espresse con parole di uso corrente in termini formalizzati (e da questi, è sottinteso, a specifiche risorse).
In altri termini, tornando al nostro storico alle prese con la sua ricerca, qualora esso dovesse affidarsi alla Rete per reperire materiale utile, è altamente probabile che finirebbe per usare materiale “librario” e non fonti documentarie.
Diventa pertanto imperativo, affianco al rafforzamento del già esistente dialogo con bibliotecari ed operatori museali (vedi il coordinamento MAB), realizzare idonei strumenti che indirizzino la ricerca rendendola più fruttuosa (in particolare gli inventari archivistici, suggerisce Giorgetta Bonfiglio-Dosio, potrebbero prevedere accanto al tradizionale “cappello” istituzionale una sorta di guida – vademecum per gli storici circa l’utilità che i materiali descritti potrebbero avere ai fini della loro ricerca).
Di lavoro, insomma, ce n’è molto da fare ma ci sono tutte le premesse per raggiungere ottimi risultati. Non resta che rimboccarsi le mani tutti quanti!

Impact factor addio, ormai contano i “Like” ed i “Retweet”

K.Lit – Piazza Chilesotti

Reduce dall’intensa giornata di ieri trascorsa al K.Lit – Festival dei blog letterari di Thiene ad ascoltare interessanti interventi sul libro, sulla letteratura e sul mondo che vi ruota attorno, continuano a frullarmi in testa due chiodi fissi.
Il primo è di natura generale: se il modello organizzativo “diffuso” del K.Lit è a mio avviso stato vincente (avendo animato piazze, parchi, edifici storici e pubblici di un’intera città) occorre però riconoscere che il pubblico era mediamente scarso e costituito perlopiù da “addetti ai lavori”, il che, se da un lato ha consentito ad alcuni relatori di adottare un fecondo approccio “intimista” (per dirla con i C.S.I.) dall’altro conduce a due riflessioni tra di loro correlate: 1) dimostra una volta ancora, al netto del fatto che si trattava della prima edizione, come il “movimento” attorno a libri, e-book, nuove frontiere dell’editoria, etc. sia più chiassoso che rumoroso 2) se i numeri sono questi, si spera non sia messa a repentaglio la riproposizione di questo festival, ripeto, davvero molto bello (magari con qualche aggiustamento, che pur a mio parere ci vuole!).
Il secondo “chiodo”, che è poi quello che ha dato il titolo a questo post, è di natura più tecnica (in linea con questo blog d’altronde) e riguarda il tanto vituperato impact factor (IF), vale a dire quell’indice, usato anche in biblioteconomia, che misura il numero medio di citazioni ricevute in un particolare anno da parte di articoli pubblicati in una data rivista scientifica nei due anni precedenti e che dovrebbe stabilire (ma ci riesce fino ad un certo punto in quanto manipolabile) importanza e “scientificità” di articoli (con relativi autori) e riviste.
Orbene, nel corso di un interessante tavola rotonda incentrata sulla precarietà nel mondo del lavoro la giornalista Marta Perego ha candidamente confessato (non che sia una colpa, si intende) come lei torni più volte nel corso della giornata a controllare quanti “Like”, “Retweet”, “PinIt” eccetera ha ricevuto il suo nuovo articolo, servizio, post o quel che è.
Per il bibliotecario sopito che è in me il passo alla riflessione successiva è stato breve: come noto l’impatto (e dunque la circolazione e di qui il successo) che un articolo ha in Rete dipende direi in modo pressoché proporzionale dal numero di condivisioni, “rimpalli” ed amplificazioni che esso riceve. Di questi articoli molti sono oggettivamente spazzatura ma altri sono di sicuro valore e purtroppo sfuggono completamente dal radar dell’IF, tutto richiuso in autoreferenziali logiche accademiche.
Naturalmente la presenza di centinaia o meglio ancora di migliaia di “Like” e “Retweet” non trasforma automaticamente un post in un capolavoro della saggistica meritevole di pubblicazione (dipende infatti anche da chi dice “I Like” e da chi retwitta; manca in altri termini un po’ di sana peer review), però è indubbio che tali “indicatori di gradimento” vadano oramai presi in considerazione.
La Rete è piena di materiale valido ed i bibliotecari già con le folksonomie (ovvero i tag e le parole chiave generate dagli utenti in modo essenzialmente “arbitrario”, senza cioè l’ausilio di strumenti, per intenderci, come thesauri o soggettari) e con le auto-catalogazioni da parte dei lettori dei libri che leggono (in siti come aNobii o ancor più GoodReads, Zazie e soprattutto LibraryThing) sono rimasti indietro rispetto ai ritmi del web: non vorrei che oggi accadesse altrettanto con le nuove modalità di attribuire il “rating” alle risorse online.
Forza bibliotecari, c’è un intero mondo da… catalogare, soggettare e valutare!