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Quale futuro per gli archivi digitali fotografici

Screenshot di Carousel

Screenshot di Carousel

Gli utenti di Dropbox della prima ora ricorderanno come inizialmente questo servizio fosse usato essenzialmente a fini di “archiviazione documentaria” pura, nel senso che ci si caricava soprattutto file di testo; solo in un secondo momento, grosso modo in parallelo all’incremento delle velocità di upload e download dei nostri dispositivi mobili (cosa resa possibile tecnicamente grazie alla realizzazione delle reti 3G e 4G – a loro volta alla portata di tutti grazie ai piani flat – così come dalla sempre più capillare diffusione di hotspot wifi), si è passati a caricarvi massicciamente file di dimensione sensibilmente più pesanti, quali foto e brevi video.
Infatti Dropbox, ben consapevole dei trend in atto e delle crescenti esigenze dei propri utenti, ha ben pensato di assecondarli ampliando progressivamente la sua gamma di servizi e, con essi, il suo settore d’affari. In particolare l’azienda di San Francisco ha sviluppato le sue applicazioni lungo due direttrici: da un lato assicurando ai sempre più numerosi utilizzatori un minimo di produttività (del tipo creare e salvare direttamente sulla cloud di Dropbox file di testo in formato .txt), dall’altro scommettendo forte sulle fotografia (inserendo ad esempio la funzionalità di upload automatico per le foto scattate con un device mobile).
Con tale mossa Dropbox cercava evidentemente di giocare d’anticipo e di preservare l’importante margine di vantaggio acquisito sulle varie Apple, Microsoft e Google (il cui Drive, per rendere l’idea, è arrivato sul mercato nell’aprile 2012, vale a dire ben quattro anni dopo!).
E che il grosso della partita si giochi proprio sul fronte delle foto non deve sorprendere: anche a voler rifuggire dalla sociologia spiccia e dai facili slogan, è un dato di fatto (e ne ho già scritto) che nella nostra società l’immagine conti e che scattare foto o, al contrario, farsi immortalare in fotografie sia una delle azioni più comuni, più facili ed al contempo più appaganti per il nostro ego.

Non deve dunque sorprendere se anche gli ultimi, importanti, annunci in casa Dropbox abbiano a che vedere con il mondo delle immagini. L’azienda californiana ha infatti da un lato lanciato Carousel, una app del tutto nuova ma che, come si vedrà a breve, è intimamente collegata al classico servizio di storage, dall’altro ha acquisito Loom, azienda specializzata nel cloud storage di foto e video.
Come spiegato dai fondatori di Loom nel post sopra linkato, la loro soluzione per la gestione, organizzazione ed archiviazione andrà ad integrarsi proprio con Carousel che, a questo punto, è opportuno descrivere per sommi capi: in breve si tratta di un applicazione che organizza e dispone in ordine cronologico lungo una timeline (un po’ come fa ThisLife) tutte le foto presenti nel dispositivo in cui l’applicazione stessa viene installata, facendone nel contempo il back-up in automatico sui propri server.
In sostanza le nostre foto finiscono su Dropbox e Carousel diventa la via più agevole per visualizzarle e gestirle; a riguardo va precisato che di default le foto sono private ma in realtà ne viene fortemente incentivata la condivisione: sia che si tratti di inviare ad amici foto che ci appartengono o al contrario di aggiungere al nostro album foto arrivateci da un nostro amico, basta un semplice swipe verso l’alto o verso il basso!
Inoltre una volta che si condivide una foto con un amico si avvia in automatico una chat: anche in questo caso l’intento è chiaro, ovvero dare un’anima social, sull’esempio di Instagram o Snapchat, a quello che rischia altrimenti di restare uno sterile (leggasi: meno remunerativo) “contenitore”.

Ma le novità introdotte da Dropbox sono importanti soprattutto perché emblematiche di alcune dinamiche che, a mio parere, nei mesi e negli anni a venire si faranno sempre più nitide.
La prima, testimoniata appieno dall’acquisizione di Loom, è che i video rappresenteranno, nel prossimo futuro, l’oggetto della disfida.
La seconda, molto più interessante da analizzare anche perché dalle maggiori implicazioni “archivistiche”, è la progressiva divergenza (o, se si preferisce, specializzazione) che si sta verificando tra i vari servizi che consentono l’archiviazione di foto sulla cloud: se da una parte vi sono quelli dedicati ad un uso principalmente personale e dall’altra quelli con una vocazione più spiccatamente pubblica, nel mezzo vi stanno una molteplicità di servizi che, pur facendo altro, non disdegnano di sfruttare l’appeal delle foto.
Tra questi ultimi come non citare Twitter il quale, nato come servizio per l’invio di sms, ha poi virato verso il microblogging ed ha infine aperto alle foto, trovando nei celeberrimi selfie (vero e proprio simbolo di quel desiderio di apparire di cui parlavo sopra) uno dei suoi punti di forza?
Specializzato nei selfie è anche Instagram, applicazione che diversamente da Twitter ruota completamente attorno alle foto ed alla possibilità di ritoccarle applicandovi filtri (feature che ne ha decretato il successo planetario, n.d.r.) e che rappresenta il degno campione del primo gruppo. Va però osservato che in Instagram, diversamente dal neonato Carousel, la dimensione pubblica delle foto (“public by default) è spiccata e con essa, ovvia conseguenza, l’anima social (laddove in Carousel, come già sottolineato, la condivisione è più controllata e ristretta).

Ma al di là delle ovvie differenze è indiscutibile che tutti i servizi appena descritti sono accomunati dall’essere stati concepiti e realizzati per un uso personale (con terminologia archivistica potremmo categorizzarli come “archivi fotografici digitali di persona”), in contrasto cioè con l’altro gruppo di servizi cui si accennava sopra e che, peraltro a partire da basi simili, sta seguendo un percorso per certi versi opposto.
Il modello in questo caso è rappresentato da Flickr il quale, nato come servizio per pubblicare online le proprie foto, solo in un secondo momento (con un ritardo che peraltro si stava per rivelare fatale, n.d.r.) si è dotato di un’applicazione per dispositivi mobili; se questo passo si è reso necessario per reggere il passo della concorrenza e delle nuove modalità di scattare fotografie (operazione che avviene sempre meno con fotocamere professionali e sempre più con dispositivi quali smartphone, tablet od al più con macchine ibride come la Samsung Galaxy Camera), tamponando nel contempo la preoccupante emorragia di utenti, credo che l’aspetto più interessante della storia recente di Flickr stia non tanto nel suo strizzare l’occhio ai social network (come appare evidente non appena si apre la nuova release dell’applicazione per dispositivi mobili o dal profondo restyling di cui è stato oggetto il sito) bensì agli enormi passi fatti da iniziative quali The commons.
Avviata nel 2008 come collaborazione con la Library of Congress e successivamente aperta ad altre istituzioni, essa si prefigge di condividere ed incrementare l’accesso ai tesori nascosti provenienti dagli archivi fotografici pubblici nel mondo; l’elenco oramai è lungo e vede tra gli altri la partecipazione di numerosi archivi e biblioteche, pubblici e privati. Uno degli aspetti più interessanti del progetto è che di ciascun “fornitore” vengono forniti i relativi termini di utilizzo nei quali, come suggerito dal nome del progetto, predominano le licenze d’utilizzo di tipo Creative Commons e varianti: l’intento di favorire la conoscenza del patrimonio fotografico, ed eventualmente il suo riutilizzo e la rielaborazione, è evidente e con esso trova conferma la vocazione di Flickr a divenire “archivio fotografico pubblicamente accessibile”!
Certo, non sfugge come al CEO Marissa Mayer i conti importino eccome, e l’accordo stipulato con il celebre fornitore di stock e microstock Getty Image (sulla capacità di quest’ultima azienda di cavalcare lo tsunami della distribuzione online di foto, a suon di acquisizioni di prestigiosi archivi fotografici, tanto analogici quanto digitali e stravolgendo le tradizionali modalità di licensing, sarebbe da scrivere un altro post…) è lì a testimoniarlo, ma è inutile negare come Flickr si stia facendo carico di un ruolo e di una funzione tipicamente “pubblici”.

La cosa deve preoccuparci? Posto che la collaborazione tra pubblico e privato non deve essere demonizzata a priori, è inutile negare che tutto ciò che ruota attorno alle immagini susciti, per i motivi ampiamente esposti, gli appetiti delle varie aziende con tutto ciò che ne consegue.
Il problema, a mio avviso, è verificare la capacità che avranno i soggetti pubblici, inclusi gli archivi e le biblioteche, a mantenere la debita autonomia / indipendenza nei confronti degli attori privati nel momento in cui, dal punto di vista operativo, il fattore determinante sembra essere sempre più la “potenza di storage” che si è in grado di dispiegare (e la discesa nell’agone di Dropbox è in questo senso emblematica).
In quest’ultimo ambito, considerando il poco o nulla che viene fatto in quanto alla realizzazione di infrastrutture, non credo ci si debba creare grandi speranze. Del resto non molto meglio vanno le cose dal lato dei “contenuti”: da una parte infatti assistiamo alla “cessione del posseduto” (ovvero le collezioni e le raccolte fotografiche, digitali o digitalizzate), dall’altra i nuovi archivi si vanno formando direttamente sulle nuvole di proprietà delle medesime aziende alle quali “concediamo” le foto (a proposito, la nuova generazione di SD-Card ha il Wi-Fi integrato per effettuare immediatamente upload sulla nuvola).
Rebus sic stantibus crediamo davvero che gli archivi e le biblioteche possano recuperare posizioni?

Società dell’immagine ed archivi fotografici digitali di persona

Who says archives are boring? (di Remco van Gastel, su Flickr)

Who says archives are boring?


INTRO

Nel corso degli ultimi decenni stuoli di studiosi hanno tentato di descrivere la società in cui viviamo etichettandola con aggettivi o formule ad effetto facilmente memorizzabili; se la maggior parte di queste definizioni si sono rivelate poco felici e sono ben presto finite nel dimenticatoio, è incontrovertibile che due di esse hanno resistito all’usura del tempo e si sono anzi progressivamente arricchite di ulteriori connotazioni. Mi riferisco in particolare all’idea di società dell’immagine e a quella, ad essa sempre più correlata, di società della comunicazione: infatti se nella prima l’apparire conta più dell’essere, è evidente che quest’apparire “reificato” in migliaia di foto, video, etc. non è fine a sé stesso ma trova un senso quando “comunicato” agli altri. In altri termini le odierne tecnologie di comunicazione ci mettono a disposizione strumenti (facilmente utilizzabili e che danno un “output” dal costo praticamente nullo per l’utente finale) che servono non tanto a tenere memoria di uno specifico fatto od evento (la vera ragione per cui macchine fotografiche, cineprese, etc. sono state in origine pensate e costruite) ma soprattutto a veicolare a terzi la nostra immagine, vera o costruita che sia.
Oltre ad assecondare il nostro naturale narcisismo vi è un ulteriore, decisivo aspetto che occorre evidenziare: nel momento in cui comunichiamo ad altri la nostra immagine, trasmettiamo anche il nostro stile di vita, i nostri gusti, le nostre preferenze di consumo (come vestiamo, cosa mangiamo, dove andiamo in vacanza, etc.): in altre parole nel momento stesso in cui facciamo vedere chi siamo = come appariamo facciamo anche vedere come spendiamo.
Non deve pertanto sorprendere il fatto che le principali società hi-tech d’oltreoceano, fiutando il business, possiedano o perlomeno controllino servizi di archiviazione e condivisione di foto e video (cito qui i vari Facebook / Instagram, Yahoo! / Flickr, Google / Picasa, Twitter ed entro certi termini HP / Snapfish, Photobucket, Dropbox, etc.), servizi attraverso i quali essi si contendono in una dura battaglia le immagini dei navigatori / clienti, le cui foto, parimenti agli altri dati digitali, finiscono nell’impalpabile (benché realissima) nuvola.

UN INTERESSANTE CASE HISTORY

L’ineluttabilità ed ampiezza di questo processo è confermato dal susseguirsi di operazioni di M&A (mergers & acquisitions) che talvolta finiscono in prima pagina (il caso più noto ha visto protagonista Facebook, la quale ha acquistato Instagram con un’operazione dal controvalore complessivo di quasi un miliardo di dollari) e tal’altre passano decisamente in sordina; è proprio un’operazione di questo secondo tipo, vale a dire la prospettata acquisizione (almeno dando credito a rumor d’oltreoceano, n.d.r.) di ThisLife, start-up per l’archiviazione e la condivisione di foto, da parte di Shutterfly, azienda che a sua volta fornisce servizi di stampa foto e creazione album, calendari, etc. a fornirmi un case history funzionale ad approfondire ulteriormente l’argomento rispetto a quanto già fatto nell’ultimo post pubblicato.
Le caratteristiche che rendono ThisLife così appetibile sono le seguenti:
1) in primo luogo con questo servizio è possibile importare, in automatico o in manuale, tutte le foto scattate e sparpagliate sui vari servizi (essenzialmente di photo sharing) ai quali siamo registrati / abbonati: Flickr, Picasa, Instagram, SmugMug e naturalmente gli immancabili Facebook e Twitter. Oltre che il “riversamento” dai vari servizi online è ovviamente consentito effettuare pure l’upload dal proprio PC: in questo modo è possibile creare sulla nuvola dei veri e propri album fotografici (ThisLife, come suggerisce il nome e la grafica del sito, punta decisamente su quelli di famiglia ma all’atto pratico possiamo caricarci di tutto)
2) una volta caricate, le foto vengono disposte lungo una timeline che si scorre orizzontalmente e che, di fatto, tende a ricostruire, scatto dopo scatto, avvenimento dopo avvenimento, un’intera vita; a rendere ancor più “circostanziata” la foto nello spazio e nel tempo è la possibilità di taggare luoghi ed eventuali persone immortalate (per gli utenti Pro è disponibile persino il riconoscimento facciale automatico)
3) condivisione (in tal modo rispondendo al succitato desiderio di “apparire” di gran parte delle persone) “controllata” delle proprie foto; infatti, diversamente da altri servizi analoghi, tanto la privacy policy quanto i Terms of Service appaiono da subito più equilibrati: in particolare non viene messa in discussione la titolarità sulle foto da parte del proprietario (ovvero colui che le carica, il quale nel momento in cui effettua l’upload dichiara esplicitamente di possederne anche i diritti) così come si dimostra un particolare riguardo per le foto ritraenti minori
4) corollario a questa impostazione è la chiara attenzione posta al tema della sicurezza; pur non assumendosi alcuna responsabilità in caso di perdita delle foto caricate (sic!) si promette di adottare (per quanto ragionevolmente possibile) le migliori soluzioni tecnologiche disponibili così come di far proprie le disposizioni di legge in materia. Non è dunque un caso se agli occhi dei creatori, i coniugi Matt ed Andrea Johnson, ThisLife rappresenta pure un valido modo per creare sulla nuvola una copia di sicurezza delle proprie foto preferite (a riguardo è da segnalare che proprio per considerazioni di “ridondanza” si può decidere di caricare più versioni della stessa foto, tanto un apposito algoritmo darà la preferenza, nella visualizzazione, a quella con la migliore risoluzione grafica).

I RISVOLTI ARCHIVISTICI

Se queste sono le principali caratteristiche “di funzionamento” di ThisLife, dal punto di vista archivistico questo servizio, che pure non è immune da gran parte dei difetti che notoriamente affliggono i servizi in cloud computing (assenza di controllo sui server che ospitano i dati => sulla loro localizzazione, sul tipo di soluzioni tecnologiche adottate e sulle procedure operative messe in atto; assenza di adeguato ristoro in caso di perdita dei dati; assenza di garanzie sulla continuità del servizio e via di questo passo), presenta delle innegabili novità:
1) nel momento in cui esso consente di recuperare (in automatico o meno) le foto sparpagliate tra i vari servizi presenti sulla nuvola esso finisce per ridare unitarietà ai nostri archivi fotografici (in opposizione alla frammentazione prima vigente); in altri termini ThisLife agisce come un “metacloud” specifico per le nostre foto (mentre ZeroPC, per chi si ricorda il mio post di qualche tempo fa, è più generalista)
2) la presenza di una timeline assicura (tendenzialmente) la presenza di un ordine cronologico alle foto caricate; alla sensazione di ordine contribuisce anche il contatore in basso a sinistra che aumenta di volta in volta che un “momento di vita” viene aggiunto (parlare di numero di protocollo è ovviamente una forzatura ma rende bene l’idea!)
3) la vocazione “familiare” del servizio è comprovata dal fatto che è possibile creare account condivisi (tra marito e moglie, fidanzato e fidanzata, etc.) in modo da far apparire assieme i rispettivi archivi fotografici; anche in questo caso il pensiero corre veloce, pur con i debiti distinguo, al caso degli archivi di famiglia ed alle loro tipiche peripezie (confluiti in archivi di altre famiglie od enti vuoi per matrimonio, vuoi per estinzione di un ramo della “casata”, vuoi per donazione, vuoi per qualsiasi altro accidente della Storia!)
4) il riconoscimento automatico dei volti (con “apposizione” del relativo tag) rappresenta un salto qualitativo nella modalità di creazione dei dati a corredo delle nostre foto che presenta rischi ed opportunità: a) tra i primi, come al solito, quelli inerenti alla tutela della privacy (in definitiva se una macchina è in grado di riconoscere il nostro volto significa che essa è in possesso dei relativi dati biometrici, con tutto ciò che ne consegue!) b) tra i secondi invece si potrebbero segnalare i possibili usi per finalità storiche: non solo gli storici del futuro (ammesso naturalmente che i dati siano leggibili…) potrebbero associare con maggior facilità nomi e cognomi ai volti presenti in una foto, ma anche quelli dei nostri giorni trarrebbero giovamento, nel momento in cui si procede alla digitalizzazione del patrimonio fotografico analogico e vi si inseriscono in automatico i dati identificativi delle persone fotografate, dalla possibilità di lavorare con foto di più facile “lettura”.

CONCLUSIONI

In questo post abbiamo visto come molteplici sono i motivi che ci spingono a “catturare immagini”: la volontà di tenere memoria di un fatto, il desiderio di apparire, la semplice disponibilità di device in grado di farlo ad un costo praticamente nullo… Abbiamo anche visto come le nostre immagini digitali prendono sempre più la via delle nuvole: gli archivi in the cloud infatti eccellono per flessibilità (permettono infatti al contempo di conservare e di condividere le proprie foto), accessibilità (teoricamente h24) e costi ragionevoli (fino alla completa gratuità); gli indubbi vantaggi non possono però far passare in secondo piano gli altrettanto evidenti svantaggi derivanti essenzialmente dal “mancato controllo” (privacy, proprietà, etc.).
Tenendo bene a mente questi poli opposti il case history presentato è dunque importante in quanto dimostra: 1) che alcuni servizi si stanno muovendo nella giusta direzione grazie all’applicazione, fosse anche involontaria, di principi riconducibili alla buona prassi archivistica b) l’importanza di avviare un dialogo (o perlomeno uno scambio) tra iniziative private e pubbliche: le prime ad esempio primeggiano per l’usabilità e piacevolezza della grafica ma peccano sotto il lato archivistico, le seconde al contrario sono dal punto di vista tecnico e della compliance legislativa ineccepibili ma perdono di vista il singolo cittadino, al quale spesso risultano troppo tecniche o ancor peggio non sono nemmeno destinate.
E’ quest’ultimo aspetto, e concludo, quello sul quale occorre velocemente agire: spesso gli archivi digitali di persona (fotografici e non) finiscono in posti “sbagliati” per il semplice motivo che mancano valide alternative. Se vogliamo garantire anche a questi archivi un futuro (nell’attesa che un domani venga valutata la loro rilevanza), dobbiamo fornire, attraverso un fecondo scambio di esperienze e, perché no, una vera e propria collaborazione “operativa” tra pubblico e privato, a tutti i cittadini (e non solo a poche fortunate istituzioni ed enti!) soluzioni di archiviazione adeguate.

La settimana prossima arriva Drive, il servizio di cloud storage di Google. Cosa cambia per gli archivi

Cloud storage: a confused but evolving market

Cloud storage: a confused but evolving market di joe.ross, su Flickr

Di Google Drive, servizio di cloud storage del gigante di Mountain View, si parla da tempo ma questa sembrerebbe essere davvero la volta buona. I principali blog tecnologici hanno infatti diffuso la notizia che la settimana prossima è previsto il lancio del nuovo servizio; John Biggs di Techcrunch è stato pure in grado di fornire la prova dell’esistenza (si veda l’articolo su Techcrunch) avendone persino scaricato l’app! Biggs non è riuscito ad entrare nel nuovo servizio, in quanto esso risulta “essere ancora non abilitato per la sua utenza” (ovvio dal momento che ufficialmente il servizio nemmeno esiste), ma ha potuto scoprire che offre il supporto nativo per quei tipi di file creati con strumenti come Google Docs e GDraw. Per il resto le indiscrezioni trapelate indicano che Google, che da tempo sta lavorando a questo dossier, adotterà una politica aggressiva del mercato: è infatti ormai opinione comunemente accettata che saranno ben 5 i Giga di memoria gratuitamente messi a disposizione (ovvero più del doppio rispetto a Dropbox, principale rivale) e verosimilmente saranno immediatamente disponibili le relative app per Android ed iOS, a testimonianza dell’importanza cruciale assunta dalla dimensione mobile (comprovata dagli accordi stipulati dalla citata Dropbox con HTC per l’One X e Samsung per il Galaxy Tab).
Personalmente della notizia, in sé scontata, trovo interessanti le implicazioni industriali e quelle archivistiche: delle prime basti qui dire che è in atto quello che Chris Velazco, sempre di Techcrunch, definisce cloud storage clash e che vede in campo, oltre alle due aziende già ricordate, pesi massimi del calibro di Microsoft (con Skydrive), Amazon (con Cloud Drive) ed Apple (con iCloud). La domanda a questo punto è: c’è spazio per tutti sul mercato? La natura affermativa o negativa della risposta dipende anche dai prezzi che Google farà per i servizi pay (purtroppo, lo dico per inciso anche se la questione meriterebbe più spazio, quando si valuta un servizio di cloud storage quello dei soldi è il principale parametro osservato, mentre scivolano in secondo piano aspetti quali garanzie legali e bontà delle soluzioni tecnologiche adottate): se, come credo, questi saranno altamente competitivi è probabile che non tutti ci staranno più dentro con i costi e dunque potrebbe profilarsi qualche operazione di M&A. Di sicuro il settore è ritenuto profittevole, se si considera che ad ottobre 2011 Dropbox, azienda contestualmente valutata in 4 miliardi di dollari, non ha avuto alcun problema a portare a termine un round di finanziamenti da 250 milioni di dollari.
Non meno interessanti le ripercussioni “archivistiche”, le quali sono a mio avviso essenzialmente di due ordini: 1) il primo riguarda nello specifico Google, 2) il secondo è di respiro più generale. Procediamo con ordine.
1) Come noto numerosi servizi di Google (GMail e Google Docs su tutti) sono largamente usati da molte Pubbliche Amministrazioni; ora che arriva Google Drive vien quasi automatico pensare che molti dei dati e documenti prodotti da queste ultime saliranno sulla nuvola e di qui prenderanno… vie ignote! Il problema, insomma, è il solito: a meno che Google non abbia ampliato o costruito ex novo i suoi data center europei (due nei Paesi Bassi ed uno in Belgio) questi dati e documenti prendono la via degli Stati Uniti violando pertanto le leggi UE sul trasferimento dei dati (sorvoliamo qui su quelle dei singoli Stati!). In altri termini l’utilizzo di Google Drive da parte di questi soggetti pubblici non sarebbe attualmente possibile, motivo per cui vedo aprirsi quattro possibili strade: a) l’azione di lobby dei vari colossi hi-tech ottiene dagli euroburocrati una deroga al trasferimento dei dati sulla nuvola qualora vengano rispettati alcuni paletti fissati su misura b) Google (& soci) si adattano e realizzano / ampliano data center nel Vecchio Continente (non sarebbe male, giacché si creerebbero nuovi posti di lavoro qualificati) c) noi europei rinunciamo ai vantaggi della nuvola made in Mountain View oppure al contrario d) ci sobbarchiamo, magari in maniera collettiva, degli oneri di realizzazione di queste strutture strategiche.
2) La questione di carattere generale è la seguente: la discesa in campo di Google in termini di teoria economica (rudimentale) è da accogliere con favore in quanto amplia la concorrenza ed a beneficiarne dovrebbe essere il consumatore / utente finale. Dal punto di vista pratico però non vorrei che si rafforzasse quella frammentazione degli archivi, specie quelli di persona, di cui ho ripetutamente parlato: giusto per fare un esempio “mirato” se possiedo casualmente uno smartphone HTC, un tablet Kindle Fire ed un normale PC con connessione ad Internet ed account Google il risultato sarebbe che le foto ed i video realizzati con il telefonino intelligente finiscono sulla nuvola di Dropbox, i miei e-book ed i miei film su quella di Amazon ed infine i miei documenti su quella di Google! Una vera e propria diaspora!
Si ha pertanto la riprova che la nuvola, sia essa di “proprietà” del singolo cittadino o (a maggior ragione) di un ente pubblico con migliaia di Giga caricati, per apportare reali vantaggi va gestita con attenzione e che tale attività di gestione può essere facilitata da una parte attraverso l’uso consapevole della nuvola (ad esempio imponendosi una sorta di codice di comportamento per cui i vari documenti e contenuti non vanno uploadati a casaccio) dall’altra ricorrendo a quegli strumenti di metacloud descritti in un precedente post.
Questi ultimi servizi, in quanto capaci di garantire l’indispensabile integrazione e coerenza, saranno, ne sono convinto, il prossimo oggetto del contendere dei colossi tecnologici.