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Archiviazione digitale: la soluzione è il peer to peer?

Il modello di cloud p2p di Space Monkey

Il modello di cloud p2p di Space Monkey (fonte: http://www.spacemonkey.com/press)

Il cloud computing è stato un modello tecnologico che sin dal suo apparire ha fortemente diviso la comunità degli informatici e dei CIO tra fautori ed oppositori. A fronte degli evidenti (?) vantaggi di natura economica e di disponibilità H24 dei propri dati / documenti, si è sempre sottolineato come si perdesse il controllo diretto sugli stessi; forti dubbi inoltre venivano (vengono) sollevati in ordine alla tutela della privacy anche se, puntualizzavano i favorevoli, ciò appariva come un qualcosa di accettabile in ragione della sicurezza complessiva garantita dalle strutture (quegli enormi data center che Google, Facebook, Amazon, Apple, etc. vanno costruendo per mezzo mondo) che li ospitavano.
L’uragano Sandy ha però fatto in parte crollare queste certezze; ciò, unitamente a motivazioni di ordine economico (molti servizi non sono poi così convenienti come vorrebbero far credere…) ed ideologico (la ricerca di soluzioni di archiviazione green meno energivore rispetto ai data center, il ritorno ad un computing decentrato) ha indotto a sviluppare soluzioni alternative, soprattutto di personal digital archiving (dal momento che chi ha capacità e disponibilità economiche si costruisce la sua bella private cloud!), che salvassero i vantaggi minimizzando gli svantaggi.
Le linee ad oggi seguite sono state essenzialmente due: la prima è stata quelle di realizzare una cloud domestica (altresì detta personal cloud) con tanto di mini server, gruppi di continuità in grado di salvaguardare dagli sbalzi di corrente e garantire un minimo di autonomia in caso di interruzione nell’erogazione di energia elettrica, etc.; la seconda strada è stata quella di realizzare una rete interconnessa di sistemi di storage di piccole dimensioni. E’ di quest’ultima che mi occupo in questo post.
Spieghiamo innanzitutto in che cosa consiste una “nuvola” P2P? In estrema sintesi si tratta di un sistema che permette la condivisione di risorse di storage connesse alla rete; in pratica ciascun appartenente al network mette a disposizione una porzione del proprio spazio di archiviazione ottenendone a sua volta in cambio dell’altro da parte degli altri aderenti alla rete: un apposito software provvede ad effettuare in automatico una copia (spacchettata e criptata) dei nostri dati / documenti inviandola a kilometri di distanza e garantendone in tal modo la sopravvivenza in caso di rotture del dispositivo di storage, di calamità naturali, etc.
Un esempio concreto è Space Monkey: per 10 dollari al mese questa azienda fornisce ai suoi utenti un dispositivo ad hoc da 3 terabyte di memoria (uno disponibile, i rimanenti due destinati ad ospitare file altrui) che promette di essere più veloce nelle operazioni di upload/download nonché energeticamente più efficiente; la “sopravvivenza” dei propri dati è garantita, come anzidetto, dal fatto che essi vengono replicati in molteplici dispositivi di storage ma anche dall’ulteriore copia che viene fatta nel data center gestito, quale ulteriore precauzione, da Space Monkey stessa. Un sistema siffatto, questa è l’idea, dovrebbe risentire assai meno di eventuali outage (qualunque ne sia la causa) e garantire pertanto l’accesso ai propri dati o perlomeno ad una buona parte di essi.
Personalmente ritengo che questa soluzione, almeno dal punto di vista archivistico, non risolva granché i problemi di personal archiving dal momento che la questione della sicurezza e della eventuale sottrazione di dati / documenti resta sul tappeto. Come non pensare, giusto per fare un banale esempio, che un eventuale malintenzionato si abboni al servizio e tenti, dall’interno, di violarne le difese? In questo senso un tradizionale data center concepito a mo’ di fortino mi sembra molto più rassicurante! Considerando poi che un sistema siffatto non ha pretese di garantire autenticità, affidabilità, integrità, etc. né tantomeno la conservazione nel medio – lungo periodo si deduce che esso non soddisfa i requisiti per fungere da valido sistema di archiviazione digitale (al massimo può essere uno dei tanti modi per diversificare il rischio, così come suggerito dagli esperti del National Digital Information Infrastructure and Preservation Program).
Paradossalmente però un modello distribuito strutturato sulla falsa riga di Space Monkey potrebbe rivelarsi felicemente applicabile ad archivi “istituzionali” massimamente in paesi territorialmente poco estesi come l’Italia: posto che, in attesa dell’entrata in vigore del “Regolamento generale sulla protezione dei dati” (redatto a livello europeo), il trasferimento degli stessi all’estero presenta non poche controindicazioni, bisogna prendere atto che per il momento le soluzioni non possono che essere nazionali; a sua volta ciò deve portare a riconoscere che, ai fini del disaster recovery, è impresa improba (in special modo una volta eliminate le numerose zone a rischio sismico, idrogeologico, etc.) riuscire ad impiantare nello Stivale due data center che si trovino ad una distanza di sicurezza soddisfacente l’uno dall’altro!
Giusto per fare un esempio concreto PARER, il principale Polo italiano per la conservazione digitale, ha due data center rispettivamente nelle province di Bologna e Milano più un sito di back-up offline in quella di Roma. Specie nel primo caso le distanze non mi sembrano sufficientemente rassicuranti (tra Bologna e Milano ci sono appena 200 km mentre tra Bologna e Roma 300 e tra Milano e Roma 480; qui uno strumento per farvi i vostri calcoli!): d’accordo, eventi come il citato Sandy sono improbabili in Italia, ma considerando la tropicalizzazione cui a detta di molti esperti va incontro il bacino del Mediterraneo ed alla luce dei frequenti eventi estremi dei quali siamo testimoni, un po’ di preoccupazione ce l’avrei!
In altri termini sarebbe il caso di valutare se un sistema distribuito che preveda la realizzazione di un unico data center in una zona scelta con tutti i crismi del caso affiancato da una cospicua quantità di “punti di storage” (una per provincia?) nei quali replicare più e più volte i dati sia più confacente al caso italiano. Caso italiano, ricordo, caratterizzato tradizionalmente da un policentrismo spinto e da più centri di produzione e sedimentazione documentaria. Motivo ulteriore per verificare la fattibilità della soluzione.

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Pirateria informatica, ebook e gli archivi di persona del (prossimo) futuro

Copy the pirates

Copy the pirates di Will Lion, su Flickr

L’AIE (Associazione Itaiana Editori) ha ieri diffuso interessanti dati, frutto di ricerche condotte dal proprio Ufficio Antipirateria, relativi alla diffusione di versioni piratate degli ebook: le cifre non lasciano spazio a dubbi interpretativi, dal momento che a fronte di circa 19mila titoli di libri digitali presenti a catalogo (pari al 36% di quelli complessivamente pubblicati nel corso del 2011) in ben 15mila casi è possibile reperire la corrispettiva versione pirata.
Nulla da eccepire nemmeno sull’individuazione di quelli che sono gli attuali canali attraverso cui avviene lo scambio (o meglio, la condivisione) dei file piratati: non più e non tanto sistemi peer to peer ma piuttosto cyberlocker su modello del celeberrimo Megaupload.
Fin qui tutto bene, dunque; non sono d’accordo però su molti altri punti della posizione AIE: in primo luogo, nel report, si fa intendere che la pirateria potrebbe affossare il settore dell’editoria digitale ancor prima che questa si sviluppi appieno. Sarebbe veramente il caso che i responsabili dell’AIE entrassero in qualche sito dedicato all’ebook e si leggessero un po’ di commenti di quelli che potrebbero essere potenziali lettori / clienti ma che rebus sic stantibus difficilmente lo diventeranno; la maggior parte di essi si dice interessata all’ebook ma non abbandonerà la carta finché a) i prezzi non caleranno (complice anche l’IVA al 21% – colpa da non attribuire agli editori – non vi è una sensibile differenza nei prezzi delle corrispettive versioni analogiche e digitali) b) non verranno eliminate le eccessive rigidità, con i vari lucchetti digitali visti come altrettanti elementi che contribuiscono ad “ingessare” il sistema (in particolare l’impossibilità o le complicazioni che si devono affrontare per prestare un libro sono percepite come limitanti se non vessatorie).
Peraltro pare di leggere tra le righe che la crisi dell’editoria sia imputabile anche alla pirateria, cosa che solo in minima parte può essere dal momento che l’editoria digitale pesa solo per lo 0,3% del canale trade (dati del medesimo studio): le ragioni della crisi vanno dunque cercate altrove.
In secondo luogo trovo che la soluzione proposta per arginare il fenomeno pirateria sia destinata a risolversi in un grande buco nell’acqua: va dato atto che l’AIE è relativamemente moderata (non si chiede censura preventiva, come vorrebbero alcuni soggetti “più realisti del re”), dal momento che mira semplicemente ad ottenere la pronta rimozione da parte dei vari provider di quei materiali lesivi di diritti indebitamente pubblicati / resi pubblici. Purtroppo una tale impostazione parte dall’assunto che gli utenti carichino le proprie risorse digitali (testi, audio, video) su infrastrutture di terzi e che questi terzi, su input dei titolari dei diritti, provvederanno a cancellare quei materiali indicati come piratati. Si tratta di una pia speranza e non solo perché i materiali cancellati da una parte ricompariranno il giorno dopo dall’altra (la riproduzione teoricamente infinita delle risorse digitali è cosa nota) ma soprattutto perché a breve i singoli individui potranno bypassare i circuiti di hosting sulla nuvola gestiti da società terze ed agire in prima persona. Infatti con qualche centinaio di euro è possibile acquistare presso qualsiasi negozio d’informatica soluzioni tecnologiche che: offrono un paio di TB di spazio di storage, effettuano il backup automatico dei dati, consentono di creare una personal cloud alla quale si può accedere (ma anche far accedere!) da qualsiasi parte del mondo. Tali soluzioni, si badi, non nascono con lo scopo di favorire la pirateria informatica ma dalla concreta esigenza delle persone di aver a disposizione i propri dati e documenti ovunque esse si trovino (altrimenti è inutile dotarsi di dispositivi mobili dotati di connettività!). Esse inoltre rispondono ad esigenze di semplificazione: in queste personal cloud trovano posto tanto i film che verranno “richiamati” e riprodotti dalla Smart-TV mentre si sta in poltrona così come dal tablet mentre si è in viaggio, tanto gli ebook che verranno letti dall’ereader quanto le tracce MP3 per l’iPod o lo smartphone, senza dimenticare i giochi per la Playstation, le foto di famiglia, i vari software e documenti di lavoro per il PC!
(La questione assume un’interessante rilevanza archivistica giacché saranno questi i luoghi fisici nei quali si “condenseranno” gli archivi di persona e/o di famiglia, seppur con il rischio intrinseco che essi vengano dispersi, vadano incontro ad obsolescenza, siano completamente privi di affidabilità ed autenticità, etc.; mi fermo qui, ma l’argomento sarà sicuramente oggetto di un mio prossimo post).
Chiusa parentesi, torniamo al discorso pirateria: se gli ebook (ma il discorso vale per qualsiasi risorsa digitale soggetta a copyright) iniziano ad essere condivisi attraverso milioni (se non miliardi) di nuvole personali, come pensano di opporsi gli editori? Controllando uno ad uno gli utenti? Impedendo loro di crearsi una nuvola (sacrosanto diritto)? Mettendo lucchetti ancor più rigidi?
Ritengo che prima gli editori ammettono che l’evoluzione tecnologica sarà sempre un passo avanti a loro e meglio è; anzi li invito ad optare per il male minore, vale a dire aprirsi alle (non) regole del web e soprattutto rinunciare all’idea di replicare modelli di business che mal si addicono alla Rete.
Forse, a voler essere provocatori, la cosa migliore è far proprio il motto di Matt Mason (vedi immagine all’inizio) che nel suo Punk Capitalismo (per chi è interessato è edito in Italia da Feltrinelli su carta; è un paradosso, lo so!) suggerisce ai rappresentanti della old economy che il miglior modo per fronteggiare la pirateria, traendone magari un vantaggio, sia copiarla.

PS Per chi vuole approfondire rimando alla versione su Storify.

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