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Conservare le app?

Uno degli shot tratti da Polyfauna

Uno degli shot tratti da Polyfauna

In questo blog mi sono spesso occupato di argomenti, per così dire, “borderline” ma quello affrontato in questo post, anticipo subito, lo è sotto molteplici aspetti; del resto, allo stadio attuale, è già qualcosa porsi le giuste domande, figuriamoci fornire risposte.
Ma partiamo dall’antefatto, ovvero il lancio, da parte del gruppo musicale Radiohead, di una app per iOS ed Android chiamata Polyfauna. In cosa consiste Polyfauna? Si tratta, riprendendo le parole usate dal cantante ed anima del gruppo Thom Yorke, di “an experimental collaboration between us (Radiohead) & Universal Everything, born out of The King of Limbs sessions and using the imagery and the sounds from the song Bloom. It comes from an interest in early computer life-experiments and the imagined creatures of our subconscious”.
In sostanza, una volta scaricata l’applicazione, si viene proiettati dentro un mondo virtuale diverso per ogni visitatore (unico punto in comune la canzone Bloom a fungere da colonna sonora) da esplorare muovendo il proprio smartphone o tablet ma con il quale si può anche interagire: toccando lo schermo, infatti, si possono “disegnare” bizzarre figure che dopo pochi secondi si decompongono. Lo scopo “ludico” è comunque un altro: trovare ed inseguire un punto rosso lampeggiante scontrandosi con il quale si viene catapultati in un nuovo ambiente (anche se non vi è alcuna progressione nel livello di difficoltà né si acquisisce alcun punteggio).
Degli scenari visitati, alcuni veramente suggestivi, si possono pure scattare foto che vengono inviate al sito ufficiale dei Radiohead dove vanno ad alimentare, in una sorta di feed, una apposita gallery.
Le reazioni al lancio di Polyfauna sono state assai variegate: alcuni si sono spinti a parlare di “opera pop formato app” nella quale arti visive e musica si compenetrano, altri l’hanno criticata per monotonia ed assenza di ritmo, altri ancora per l’estrema semplicità grafica (e non a torto: non aspettatevi infatti chissà quali “effetti speciali”!).
A prescindere ora dalle diverse valutazioni che si possono dare ad un’applicazione come questa (ed alle numerose altre di simili che già esistono), quel che mi preme è porre l’attenzione sugli aspetti conservativi.
Ammettiamo infatti per un momento che Polyfauna sia veramente un’opera d’arte contemporanea: in tal caso essa andrebbe evidentemente conservata così come facciamo con un Fontana od un Haring. Le difficoltà tecniche, in tal caso, sarebbero però decisamente notevoli: in primo luogo sarebbe da capire a quale figura professionale (ammesso che esista) spetti tale arduo compito. La presenza di musica ed immagini potrebbero far propendere per un “conservatore museale” o tuttalpiù per un “conservatore di musica elettronica”; il fatto però che le foto scattate finiscano nel sito web, e che dell’archiviazione di Internet si occupino a vario titolo anche archivisti e bibliotecari, potrebbe suggerire l’idea che anche queste due categorie vengano chiamate in causa. Anzi, verosimilmente, la conservazione di un’app come Polyfauna andrebbe affidata ad un team di esperti provenienti da tutti questi campi.
Non meno problematica la scelta di cosa conservare: conservare la sola applicazione (di fatto, un programma informatico) non è infatti risolutivo. Essenziale infatti è disporre di device con accelerometro, senza i quali l’esplorazione virtuale (e la connessa esperienza sensoriale) non sarebbe possibile; analogamente è indispensabile conservare il sito web dei Radiohead, che come abbiamo visto è intimamente collegato alle funzionalità di condivisione inserite in Polyfauna e che viene modificato dinamicamente man mano che vengono pubblicate le foto scattate dagli utilizzatori.
Come sia possibile conservare tutto ciò in modo integrato, poi, è un autentico dilemma; mi limito qui ad osservare solo come, singolarmente, vengono ad essere evocate un po’ tutte le modalità dibattute in questi anni: museo dell’informatica (= necessità di uno smartphone o di un tablet funzionante), emulazione di sistemi operativi defunti (in questo caso il “proprietario” e restrittivo iOS potrebbe dare, anche legalmente, parecchie grane), archiviazione di Internet, etc.
La nota positiva, a volerne trovare una, è che Polyfauna rappresenta un caso estremo: nella realtà le applicazioni veramente da conservare non sono poi così numerose e nemmeno così complesse. Ciò non deve comunque indurre ad un colpevole “rilassamento”: la tendenza, inequivocabile, va proprio verso la realizzazione di app sempre più multimediali e che “vivono” all’interno di un ecosistema complesso e pertanto difficile da riprodurre / conservare.
La spinta, manco a dirlo, proviene dalla diffusione capillare di dispositivi mobili sempre più potenti e che consentono un’interazione uomo – macchina senza precedenti; in altri termini credo che l’attuale divergenza tra fisso e mobile (emblematica nel caso di Snapchat o del famosissimo Istagram, con il suo sterminato “archivio fotografico”, applicazioni cioè nate e crescite “mobili” senza evolvere attraverso i consueti stadi, ovvero da sito statico a dinamico ad applicazione per smartphone e tablet) a breve verrà ricomposta e tutto sarà “mobile”; ciò significherà il trionfo di app talmente “ricche” da chiamare in causa tutti i sensi. Conservare, a questo punto, sarà un’operazione altamente complessa perché non sarà più sufficiente “archiviare” un pezzo di codice sorgente e questo o quel dispositivo; una buona conservazione, per essere veramente tale, dovrà essere in grado di replicare in modo il più possibile fedele pure l’interazione uomo / macchina con tutti quelli che sono i risvolti sensoriali ed “emotivi” (un po’ come fanno i sistemi di emulazione dei giochi arcade, che oltre al programma tentano di rendere realistico anche il sistema di puntamento / joystick)
Considerazioni forse eccessivamente allarmistiche ma che non fanno che rafforzare ulteriormente la mia personale convinzione che sulla conservazione delle app sia ora di iniziare a ragionare in modo sistematico.

La “nuova” app di aNobii

La nuova applicazione di aNobii

In un mondo cui la dimensione mobile acquista importanza ogni giorno che passa, il rilascio da parte di aNobii della nuova versione dell’applicazione per Apple ed Android rappresenta sicuramente un momento privilegiato per valutare sia lo stato di salute sia la “direzione strategica” che questo diffuso sito di social reading intende prendere.
Premesso che in qualità di felice possessore di Acer Metal Liquid lavoro in ambiente Android, vediamo un po’ alcune caratteristiche della nuova applicazione. Di quest’ultima salta immediatamente agli occhi il gradevole restyling grafico (logo incluso) e la posizione di assoluta centralità mantenuta dalla funzione Scan barcode; per il resto, paradossalmente, non mi sembra siano state aggiunte nuove funzionalità / schermate e se è stato fatto non ho idea di dove siano state annidate! E’ nettamente migliorata, quello sì, la velocità di caricamento dei libri nel proprio scaffale così come quella di visualizzazione dei commenti (escludo si tratti di un semplice fattore di connessione perché nel momento in cui si accetta il download degli aggiornamenti si specifica che tra le caratteristiche della nuova versione c’è proprio la velocità e la rimozione di alcuni bug che, confermo, affliggevano spesso e volentieri la precedente) ma in fin dei conti si tratta di poca roba perché, scusate, è o non è ormai il minimo sindacabile che un’applicazione sia veloce e non si impalli?! Ed era troppo “pretendere” una qualche novità?
Faccio un banale esempio: se mi trovo all’interno di una libreria non trovo molto utile passare il barcode con lo scan per scoprire, attraverso i commenti degli altri utenti, se il libro che ho adocchiato può essere di mio gradimento! Sarà la mia formazione da bibliotecario ma un libro lo valuto attraverso altri parametri quali autore, piano dell’opera, indice, etc. Piuttosto, non me ne vogliano gli amici librai, personalmente considero molto più interessante sapere quanto costa lo stesso libro nei bookshop online! Purtroppo l’applicazione di aNobii non opera come “compara prezzi”, diversamente invece da quanto si riesce a fare con l’app Barcode scan integrata in Android! Con quest’ultima una volta scansionato il libro compaiono più opzioni: a) “Cerca prodotto” ti rimanda alla sezione “Shopping” del motore di ricerca nella quale sono presentate le offerte dei principali retailer b) “Cerca libro” ti rimanda a Google Books ma con la premura, sulla colonna di sinistra, di presentare le offerte di alcuni retailer (verosimilmente quelli che sono anche inserzionisti di Google) c) “Cerca contenuti” ti indirizza ad eventuali contenuti disponibili in Rete mentre d) Google Shopper, non ancora supportato in Italia, in futuro presenterà in maniera combinata molteplici informazioni (recensioni, negozi nelle vicinanze – con relativa mappa – e via discorrendo) utili alla finalizzazione dell’acquisto.
Con questo esempio, si badi, volevo solo mettere in luce come basterebbe poco per colmare alcune carenze oggettive del servizio (anche perché, non nascondiamoci, il prezzo è un fattore importante nella scelta di un libro almeno quanto i consigli / commenti degli amici) e lungi da me l’augurare la “commercializzazione” di aNobii, sul cui futuro è lecito però porsi qualche domanda!
In particolare mi chiedo quale sarà la sua utilità nel momento in cui l’e-book diventerà predominante e con esso scompariranno i codici a barre e la funzione di commento / condivisione sarà, verosimilmente, integrata nella piattaforma di lettura. Inutile aggiungere che si renderà necessaria una radicale virata (con contestuale riprogettazione della piattaforma) nelle finalità del servizio, altrimenti il futuro sarà scuro! Sarò troppo drastico, ma forse sarebbe stato meglio iniziare, con piccoli passi, ad andare nella nuova direzione e forse la nuova app poteva rappresentare l’occasione giusta.

La nuova app Android per Dropbox, alcuni commenti

Dropbox en Android

Dropbox en Android di Dekuwa, su Flickr

Chiudo quest’anno con un post più “leggero” del solito ma di alto livello simbolico; parlerò infatti della nuova applicazione (la 2.0) rilasciata da Dropbox per dispositivi Android, che a mio vedere riassume in un certo senso gran parte dei discorsi fatti nel corso del 2011 sul fenomeno del cloud computing, sul numero crescente di individui ed organizzazioni che “archiviano” i propri file sulla nuvola, sul ruolo sempre maggiore svolto nelle nostre vite digitali / “sociali” dalla diffusione dei dispositivi mobili, etc.
In effetti usando la nuova release alcune feature, completamente nuove o la miglioria di già esistenti, balzano immediatamente agli occhi: 1) l’aspetto di condivisione risulta ulteriormente accresciuto (mail, social network, etc.): se Dropbox è nato per essere un “punto di accumulo neutro” di documenti e risorse che per loro natura possono essere usati su molteplici dispositivi (=> per evitare di dover tenere tali “documenti” su tutti quanti i possibili dispositivi, con evidente spreco di tempo, energie… e memoria!), il fatto che ora tali risorse possano venir fatte circolare e “proliferare” potrebbe apparire un controsenso. In realtà oggigiorno la condivisione di alcune risorse è considerata favorevolmente da molti guru essendo questa una via importante per sprigionare creatività altrimenti inespressa. Ovviamente per dati “delicati” l’esigenza principale è quella della riservatezza ed in tal caso tutto torna come prima. 2) Non c’è praticamente più alcuna distinzione tra dispositivi, nel senso che il PC non ha dal punto di vista logico dell’architettura del sistema alcuna centralità (ovviamente poi solo il PC avrà la potenza di calcolo e le capacità di elaborazione per effettuare sui documenti “archiviati” determinate operazioni ma questa, per l’appunto, è una limitazione di ordine tecnico / tecnologico…) 3) Tale perdita di centralità, alla quale fa da contraltare l’ascesa dei vari device collegati a Dropbox, è testimoniata dalla possibilità di modificare i titoli delle cartelle e dei file uploadati così come da una capacità basica di editing (brevi testi in formato .txt) 4) Oltre ovviamente a caricare su Dropbox è possibile ora anche scaricare i propri file sul dispositivo in uso (per la precisione sulla sua scheda SD).
Riassumendo questa nuova versione risulta decisamente più flessibile e versatile della precedente e pertanto credo risulterà gradita ai numerosissimi utilizzatori di Drobox, il cui successo è testimoniato anche finanziariamente dalla facilità con la quale il fondo Sequoia Capital ha raccolto fondi presso gli investitori istituzionali per garantirne l’ulteriore crescita. Pur avendo già rilevato come quelli sulla nuvola non possano essere considerati archivi nel senso pieno del termine è inutile dire che in futuro le strategie di “conservazione” dei propri documenti digitali da parte di individui ovviamente ma anche di organizzazioni passeranno sempre più per la nuvola. Vi è semmai da sperare che gli ingenti capitali raccolti vengano anche utilizzati per realizzare future versioni di Dropbox maggiormente in grado di aderire a quelli che sono gli standard archivistici.