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Social network, privacy ed archivi

Graphs & Social Networks: Facebook Group Social Graph (Gephi)

Graphs & Social Networks: Facebook Group Social Graph (Gephi) di sociomantic

Il successo dei vari social network, da Facebook a Twitter, da LinkedIn ad aNobii, è così travolgente che non è nemmeno più il caso di spendere parole.
Quasi tutti noi ci cimentiamo quotidianamente in attività più o meno eroiche quali postare il nostro stato d’animo, pubblicare la foto del nostro cane, twittare un articolo reputato interessante e via di questo passo.
Una parte sempre più cospicua di queste azioni le compiamo nel corso della nostra giornata lavorativa, talvolta usando una serie di dispositivi tecnologici non di nostra proprietà ma bensì dell’organizzazione presso la quale siamo impiegati: desktop-PC, cellulari, smartphone, portatili, tablet. Talvolta si tratta di comportamenti fatti in modo “furtivo” senza il beneplacito dei nostri datori di lavoro, tal’altra siamo da questi ultimi direttamente incentivati al fine di sviluppare la dimensione (o quanto meno l’immagine) “sociale” della stessa. Nel primo caso il nostro operato, oggettivamente censurabile, può quanto meno provocarci una reprimenda ma può tranquillamente sfociare in sanzioni disciplinari fino al licenziamento (specie se ci lasciamo andare a commenti poco lusinghieri nei confronti dell’organizzazione cui apparteniamo!); nel secondo caso, al contrario, gli stessi account con i quali ci presentiamo e ci facciamo conoscere in Rete comunicano chiaramente agli altri utenti chi siamo e cosa facciamo e proprio in virtù di questo ruolo di “rappresentanti dell’azienda” ci è richiesto di mantenere un profilo in linea con quella che è l’immagine che la nostra organizzazione vuol trasmettere.
Che ci troviamo nel primo o nel secondo dei casi, l’organizzazione cui apparteniamo è spinta a “sorvegliare” la nostra attività; i motivi di questa “pulsione” sono molteplici: 1) di sicurezza (potremmo più o meno consapevolmente mettere in circolazione informazioni riservate) 2) economici (dal danno causato dalla “mancata prestazione” perché il dipendente trascorre il suo tempo a chattare anziché lavorare al caso opposto dell’ex collaboratore che si tiene la rete di contatti instaurata per conto dell’azienda; recente la causa intentata da un’azienda statunitense contro un suo ex lavoratore che le ha fatto un simile colpo gobbo e che ha valutato l’account Twitter con 17mila follower la bellezza di 340mila dollari) 3) di immagine / brand management (vigilare che il flusso di comunicazioni ed informazioni in uscita crei un feedback positivo; che poi quest’insieme di informazioni e comunicazioni possano essere sfruttati anche in chiave di business e di knowledge management tanto meglio!).
Questo compito di “sorveglianza” però è reso difficoltoso dalla notevole frammentazione in termini di device (= di strumenti di creazione) e di servizi (vale a dire, dei diversi social network di volta in volta usati); proprio per aiutare ad assolvere questa “mission” e a venir incontro a quest’insieme eterogeneo di esigenze talvolta contrastanti sono state fondate numerose aziende (una è Smarsh) che offrono servizi di social media archiving: in pratica è possibile definire il livello di accesso dei propri impiegati ai social network, stabilire quali funzionalità attivare nonché controllare preventivamente se quanto viene scritto è in linea con la propria policy. Il tutto viene indicizzato ed archiviato in data center geograficamente distinti (dal punto di vista tecnologico le soluzioni di archiviazione spaziano dai dischi WORM al cloud computing; la citata Smash ad esempio usa il primo per i messaggi su social network o l’instant messaging il secondo per mail ed sms).
Il ricorso a siffatti servizi, se da una parte è comprensibile, dall’altra proprio per la “promiscuità” intrinseca nello “strumento social network” (con una talvolta inscindibile compresenza di dimensione privata e dimensione pubblica), solleva a mio avviso una duplice preoccupazione per quanto attiene la tutela della privacy: in primo luogo quella relativa all’ingerenza nella sfera personale del proprio datore di lavoro, in secondo luogo quella (comune a tutti i servizi di storage sulla nuvola) relativa alla sicurezza dei dati / informazioni affidati a terzi.
Insomma l’ennesima riprova di come il modello del cloud computing presenti ancora lati oscuri e vada implementato con la massima cautela; nel frattempo IDC ha recentemente stimato che a livello globale i proventi del “message and social media archiving” saliranno dal miliardo di dollari del 2011 agli oltre 2 del 2015. Previsioni più che positive che non lasciano dubbi su quale sia la direzione verso cui stiamo andando: un futuro sempre connesso che se da un lato ci offrirà opportunità impensabili fino a pochi anni fa dall’altro “traccerà” ogni istante delle nostre vite e forse ci renderà un po’ meno liberi.

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Nuovo CAD e massimi sistemi

Seminario sul nuovo CAD

Seminario sul nuovo CAD

Tornato da un convegno / seminario sul nuovo CAD, nel corso del quale Gianni Penzo Doria ha come sempre saputo tenere attento e partecipe il numeroso pubblico, mi sono messo come spesso mi capita a fare considerazione sui massimi sistemi.

Infatti sarà stata la semplicemente fantastica “equazione del disordine”:

D*I = C2 (ovvero: Disorganizzazione * Informatica = Casino al quadrato)

la quale può a buon diritto essere riportata nei libri di fisica a fianco della legge dell’entropia oppure sarà stato il senso di smarrimento mistico in cui getta l’operato di un legislatore tanto iperattivo quanto confuso e pasticcione o ancora sarà stata la mia naturale repulsione per tutto ciò che sa anche solo lontanamente di legislativo… insomma sarà stato per tutto un insieme di fattori ma ho ritenuto che non ci fosse nulla di più tranquillizzante che rifugiarsi nei lenti (ma non per questo meno dirompenti) cambiamenti che agendo sottotraccia modificano la vita di tutti noi in modo impercettibile.
In particolare sono partito per la tangente con le mie speculazioni altamente filosofiche nel momento in cui si è parlato di firma elettronica / digitale; difatti, al di là del proliferare di specie e sottospecie, mi ha fatto riflettere il fatto che mentre il documento è attualmente conservabile per un discreto numero di anni, ciò non vale per l’eventuale firma ad esso apposta, essendo quest’ultima, per semplificare, “a scadenza”. Questo problema non da poco è aggirabile se l’utente si accredita ed interagisce (si vedano gli artt. 65 e 47 rispettivamente dei decreti legislativi 82/2005 e 235/2010) all’interno di un sito di una Pubblica Amministrazione: in tal caso infatti tutte le istanze e dichiarazioni vanno considerate per l’appunto come validamente sottoscritte.
In sostanza anche in questo caso, così come in quello parimenti complesso della conservazione digitale, una soluzione efficace pare essere il ricorso ad un “sistema”, visto alla stregua di luogo sicuro nel quale i documenti e gli atti si formano in base alle volontà degli attori chiamati in causa, vengono da essi “usati” ed infine conservati.
Rapito da questo turbinio di pensieri ho ampliato ancor più i miei orizzonti e mi sono soffermato sul fatto che la residenza di questi “sistemi” sarà in un tempo molto prossimo l’eterea “nuvola”, con tutto ciò che ne consegue. Infatti dopo tre decenni di atomizzazione della potenza di calcolo, degli applicativi e delle unità di memoria presso ciascun singolo individuo, il futuro del computing sembra andare inesorabilmente nella direzione dei grossi data center di proprietà anche degli Stati nazionali ma soprattutto dei colossi dell’informatica; data center cui delegheremo parte della capacità di calcolo e sui quali faremo girare i nostri programmi e “archivieremo” i nostri dati e documenti.
Una spinta centripeta che cozza con quella centrifuga alla quale ci eravamo oramai abituati; sarà la rivincita degli eredi dei grandi computer mainstream ed il tramonto dell’era del personal computer e con esso di tutte le promesse di liberazione dell’individuo.

Geolocalizzazione dei data center e cloud computing: da Gartner una nuova prospettiva

Un recente studio di Gartner, significativamente intitolato “Greening the Cloud: Location Is Critical for the Sustainable Future of Outsourced Data Storage and Services”, offre una prospettiva d’analisi diversa relativamente alle modalità di implementazione del cloud computing in generale e della propria server farm nello specifico.
Fino ad oggi infatti la maggior parte degli studi poneva l’attenzione sui vantaggi “convenzionali” ottenibili affidando a terzi la propria infrastruttura IT. I fattori generalmente citati come positivi andavano dal risparmio nell’acquisizione di hardware alla successiva gestione e manutenzione, alla sua scalabilità nonché ai miglioramenti “operativi” con ricadute finali sulla produttività complessiva dell’organizzazione. I benefici dunque in quest’ottica rientravano in tre grandi categorie: finanziari, tecnologici (= un’infrastruttura più snella e competitiva ideale per un mondo in cui mobilità e connettività “sempre ed ovunque” sono ormai elementi imprescindibili) ed operativi.
A fronte di questi vantaggi gli aspetti negativi che gli esperti erano (sono) soliti sollevare riguarda(va)no la sicurezza dei dati sensibili risiedenti presso server di terzi (ovviamente siamo nel caso di public cloud) ed i conseguenti rischi operativi e soprattutto legali derivanti dalla scelta di ricorrere ai servizi sulla nuvola.
Paradossalmente quello della sicurezza dei dati, che per molti sarebbero fortemente a rischio, era (è) un punto che gli esperti pro cloud sistematicamente presenta(va)no come punto di forza della nuvola in quanto a loro avviso in un sistema basato su di essa la ridondanza dei dati e delle infrastrutture, la sicurezza delle location fisiche (realizzate in luoghi geograficamente a basso rischio di disastro naturale / ambientale e dotate dei migliori sistemi di sicurezza, monitorati h24 da personale altamente qualificato), etc. darebbero massime garanzie in termini non solo di sopravvivenza dei dati ma anche di business continuity. Insomma, secondo costoro se non è il non plus ultra poco ci manca!
Lo studio Gartner che mi ha dato lo spunto per questo articolo si inserisce in questo contesto, nel quale le valutazioni di ordine economico sono di primaria importanza, ma compie un salto di qualità; infatti se fino ad oggi nel momento in cui si decideva dove localizzare geograficamente la propria infrastruttura IT si tenevano per l’appunto a mente aspetti quali sismicità della zona, presenza di corsi d’acqua (= rischio esondazione) o per contro vicinanza al mare (= tsunami) e via discorrendo (tutti aspetti che dovrebbero essere ben analizzati, predisponendo contestualmente adeguate contromisure, nei vari piani di sicurezza e di disaster recovery) ora gli analisti Gartner evidenziano come un altro aspetto vada tenuto in debita considerazione: la disponibilità in loco di energia pulita.
Come accennavo, le basi del ragionamento sono squisitamente economiche: poiché una delle principali voci di costo nel mantenimento delle imponenti server farm è quella energetica (i consumi vanno alle stelle soprattutto per riscaldare / raffreddare gli impianti e gli ambienti tout court), tutte quelle aziende che intendono passare al cloud come scelta strategica di lungo periodo dovrebbero localizzare le proprie infrastrutture IT / affidarsi ad aziende localizzate in luoghi e/o nazioni nei quali vi sia abbondanza di energia pulita e possibilmente low cost.
L’esempio portato da Gartner è lampante: l’Australia, troppo dipendente dal carbone (ed in generale dai combustibili fossili), sconterebbe uno “svantaggio competitivo” rispetto alla “vicina” Nuova Zelanda, dove un giusto mix di energie rinnovabili (eolico, fotovoltaico, etc.) garantirebbe, grazie anche alla politica governativa che tende ad incentivarne l’uso, notevoli vantaggi a quelle aziende che intendono qui impiantare la loro server farm (se si guarda al rischio sismico, lasciatemi dire, non si tratta di un bell’affare…).
Ovviamente, conclude Gartner, l’accesso ad energia “verde” e ad un prezzo accessibile non è che un tassello nella risoluzione del “problema energetico”; così sarebbe auspicabile che dal punto di vista costruttivo oltre agli aspetti di sicurezza (impianti antincendio, porte tagliafuoco, etc.) si tenesse conto di fattori quali l’isolamento termico / dispersione del calore e magari integrando nelle strutture stesse delle farm pannelli fotovoltaici a film “di nuova generazione” e via discorrendo!
Insomma, uno studio che apre nuove prospettive anche per paesi come l’Italia (che in fatto di rinnovabili sta facendo notevoli passi in avanti e che ha un enorme potenziale inespresso, anche se ad oggi la dipendenza dai combustibili fossili resta schiacciante), dove altri fattori (elevata percentuale di territorio a rischio idrogeologico e/o sismico su tutti, ma anche scarsa disponibilità di personale skilled reperibile sul posto) sembrerebbero giocare a suo sfavore e che viene incontro, specie per le Pubbliche Amministrazioni, a quelle che sono precise disposizioni di legge (che prevedono ad esempio la residenza di particolari tipi di dati all’interno di server situati geograficamente sul territorio nazionale) nonché alla particolare “sensibilità” di istituzioni quali gli archivi e le biblioteche, per i quali il patrimonio culturale dell’Italia (digitalizzato o in via di produzione che sia) non può e non deve finire all’estero per la mera necessità di risparmiare.

Come ormai consueto ho creato una versione storyfizzata (pertanto fornita degli opportuni link e riferimenti) di questo post: per questa lettura “alternativa” cliccate qui.

In libreria “Archivi e biblioteche tra le nuvole”

"Archivi e biblioteche tra le nuvole" (front cover)

Come preannunciato nel precedente post ho pubblicato un libro su cloud computing e dintorni.
In particolare parlo delle sue applicazioni in ambito archivistico e bibliotecario in sinergia con la diffusione dei nuovi mobile device, il che mi porta ad approfondire temi quali il social reading / networking, il fenomeno dello storage sulla nuvola e tutti i connessi problemi di privacy.