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Lettura sotto l’ombrellone

Ho sempre ritenuto, facendo dello sociologia spiccia lo ammetto, che l’Italia che si ritrova sotto l’ombrellone in agosto fornisca meglio di qualsiasi altra indagine demoscopica una fedele immagine di sé stessa.

Ciò non vale solo per gusti, mode, tormentoni musicali e via dicendo ma anche per le letture (questo o quel scrittore per intenderci) e per le abitudini di lettura stesse degli italiani.

Posto dunque che le osservazioni che seguono non sono scientificamente basate, quali sono i principali aspetti che balzano agli occhi “sbirciando” gli italiani sotto l’ombrellone?

La prima cosa che emerge è, contrariamente a quelle che sono le statistiche ufficiali, che gli italiani leggono eccome! Probabilmente lo faremo meno rispetto agli altri europei (mi ci metto in mezzo pure io), però è chiaro che nel Bel Paese – appena si ha un po’ di tempo libero a disposizione – la lettura è una pratica assai diffusa, aspetto che dovrebbe far riflettere su come ad incidere sulla scarsa propensione nostrana a tale pratica (sempre stando alle statistiche ufficiali) possano essere, piuttosto che fattori socio-culturali, fattori “ambientali” quali, per l’appunto, il poco tempo a disposizione il quale a sua volta potrebbe essere conseguenza di un rapporto sfavorevole, a livello di “sistema”, tra tempo libero e tempo del lavoro, il quale a sua volta potrebbe derivare a livello strutturale da una organizzazione troppo rigida degli orari di lavoro, di una cattiva logistica che ci impone di passare troppe ore nel traffico e via di questo passo.

Il secondo aspetto che risalta prepotentemente è l’assoluta preminenza – e vitalità vien da soggiungere – della carta rispetto al digitale: libri, giornali e riviste (cartacei, ca va sans dire) la fanno da padroni con percentuali bulgare rispetto ad e-reader e tablet, constatazione che non stupisce più di tanto nel caso dell’e-reader – da sempre un dispositivo di nicchia per lettori forti, probabilmente gli unici che hanno apprezzato le migliorie in fatto di impermeabilità che caratterizzano le ultime generazioni commercializzate – ma piuttosto in quello del tablet, il cui momento di fama (leggasi: iPad come oggetto “cool” da esibire ovunque) è probabilmente passato.

Diverso ovviamente è il discorso – e con questo arriviamo al terzo punto – se si decide di includere lo smartphone nel novero dei dispositivi di lettura: in tal caso ecco che i rapporti di forza si capovolgono e l’impatto del digitale sulle nostre abitudini (di lettura e non solo) appare davvero dirompente. Possiamo infatti non considerare “lettura” la sbirciatina che diamo, tra un selfie ed un messaggio su Whatsapp, alle news che Google o Facebook continuamente ci propongono? O quella di documenti, relazioni e via dicendo che ci arrivano in allegato via e-mail da parte di colleghi e collaboratori (il lato perverso dell’essere sempre connessi, per cui è impossibile staccare completamente dal lavoro…)? Parrebbe dunque trovare conferma sul campo la tesi di fondo contenuta nel libro “Le reti della lettura” (Editrice Bibliografica, 2017), ed in particolare nel contributo di Gino Roncaglia, secondo la quale – semplificando – non è che non si legge o si legge meno, semplicemente lo si fa in modo diverso rispetto al passato. La lettura, in buona sostanza, è sempre più mordi e fuggi, avviene in momenti “interstiziali” (in tram, in attesa alle poste o dal dottore) e, per converso, è tendenzialmente meno intensiva. Ne derivano, ma è un’ipotesi che andrebbe adeguatamente verificata, ripercussioni a cascata sul cosa si legge: è infatti probabile che il lettore X, consapevole di non avere molto tempo, inizierà una lettura che può essere esaurita nei pochi minuti disponibili (la notizia al volo di cui sopra oppure romanzi digitali a puntate appositamente concepiti).

Ecco dunque, per concludere, che potremmo assistere ad una “specializzazione” in base a supporto di lettura / oggetto della lettura / tipologia di lettore:
1) libro cartaceo tradizionale per letture che richiedono “impegno” (in termini di concentrazione e di tempo) da parte di lettori “medi” che, in momenti della giornata / periodi particolari dell’anno (= le vacanze agostane da cui ha preso il via questo post), possono dedicarsi intensivamente alla lettura;
2) e-reader per una minoranza di lettori forti autentici “divoratori” di libri di vario genere (narrativa ovviamente, ma anche saggistica, etc.);
3) smartphone come supporto “universale” cui fanno ricorso un po’ tutti (ma in primis i lettori deboli), per letture generalmente veloci e non impegnative.

Una schematizzazione che, va da sé, necessita per essere validata (o confutata) di uno studio più sistematico e che proprio nella mole di data generati può trovare un forte ausilio.

Barnes & Noble, un declino inarrestabile?

Barnes & Noble

Barnes & Noble di Christine K, su Flickr

Due notizie, del medesimo tenore negativo, accomunano due colossi (peraltro tra di loro legati da una strana quanto per ora infruttuosa alleanza) alle prese con un difficile riposizionamento nei rispettivi mercati: sto parlando di Barnes & Noble, che ha comunicato ai mercati conti, relativi all’ultimo trimestre, peggiori rispetto alle già non rosee attese e di Microsoft, la quale da parte sua si appresta a cambiare capo; Steve Ballmer è infatti pronto a cedere il timone non appena sarà trovato un adeguato sostituto.
E’ interessante osservare come entrambe le aziende tentino, attraverso i rispettivi uffici stampa, di stemperare la criticità del momento: B&N chiarisce (in verità non del tutto) che, a parziale rettifica di quanto a suo tempo annunciato, non verrà meno il suo impegno nella produzione di hardware (ovvero tablet ed ereader della famiglia Nook) mentre Microsoft precisa che spetterà al nuovo CEO proseguire il difficile percorso intrapreso che sta, di fatto, portando ad uno stravolgimento del business.
Purtroppo bisogna prendere atto che in questi ultimi anni di affannosa rincorsa le due aziende in questione hanno commesso grossolani errori strategici, ad iniziare dalla mancata ricerca di sinergie proprio in fatto di tavolette: è infatti un autentico controsenso che ciascuna produca un suo tablet (se consideriamo che anche Nokia, altra alleata di Microsoft, a breve dovrebbe entrare in questo segmento di mercato non è fuori luogo parlare di autentica dissipazione del capitale societario!) per accaparrarsi quote insignificanti di mercato!
Evidentemente B&N doveva concentrarsi sui soli ereader e Microsoft, dal canto suo, astenersi dal realizzare il suo Surface, affidandosi eventualmente a Nokia come OEM e mettendo a disposizione anche di Barnes & Noble il frutto di questa collaborazione.
Purtroppo si è deciso di rincorrere in ordine sparso la concorrenza (Amazon, Google, Apple) avventurandosi peraltro in terreni dove, per differenti ma precisi motivi, era praticamente impossibile tenere il passo. Apple, sfruttando l’appeal del suo brand, è infatti finora riuscita (stiamo a vedere se rimarrà così anche i futuro, ma prodotti come l’iPad Mini suggeriscono che qualcosa stia cambiando…) a farsi pagare profumatamente i propri gingilli tecnologici, assicurandosi ampi margini di guadagno. A questi ultimi hanno saputo e potuto rinunciare sia Amazon, che non avendo punti vendita fisici ha di conseguenza meno costi (e per contro ha costanti entrate garantite dall’affitto delle sue infrastrutture cloud), sia Google, la quale può contare sui cospicui introiti pubblicitari derivanti dalle ricerche effettuate attraverso il suo motore di ricerca. Insomma, queste ultime due aziende possono permettersi, nello specifico settore editoriale / dei contenuti (nel quale i tablet rappresenta una sorta di cavallo di Troia), margini risicati, cosa che per contro non può assolutamente fare B&N, appesantita dall’enorme catena di punti vendita, né tantomeno Microsoft, spiazzata dal declino del tradizionale modello di vendita dei propri sistemi operativi e software, i quali perdono progressivamente terreno nel nuovo mondo della navigazione / produttività in mobilità (che avviene su SO iOS ed Android).
Anzi, il gap è probabilmente destinato ad ampliarsi: difatti mentre B&N e Microsoft inseguono (ma anche Nokia e Blackberry, quest’ultima secondo rumor di nuovo a serio rischio di acquisizione, si trovano nella medesima situazione!) la concorrenza continua ad allungare il passo. Amazon, per garantire l’accesso e di conseguenza la possibilità di acquisto dei suoi contenuti (oltre che per ampliare la platea dei clienti), ha allo studio una rete wireless via satellite e medesimi obiettivi li stanno perseguendo Google, nello specifico attraverso avveniristici palloni aerostatici, e Facebook.
Il problema di fondo risiede dunque, al netto di eventuali luccicanti flagship store (utili soprattutto per rafforzare il marchio e fidelizzare i clienti), nella zavorra rappresentata da una originaria strutturazione aziendale di tipo brick & mortar; liberarsi di questa zavorra è operazione difficile e dolorosa ma nondimeno necessaria in quanto, aspetto di non secondaria importanza, impatta probabilmente in modo negativo nella cultura aziendale complessiva.
Insomma, il compito di Barnes & Noble, ed in generale della pattuglia delle inseguitrici, si presenta più difficile che mai ed impone un mutamento strutturale e non solo di facciata.

Ebook reader: quando a contare è l’ambiente di lavoro non distrattivo

Ritengo interessante riproporre anche in questo blog il video qui sopra non tanto per l’indubbia utilità che esso può ricoprire qualora ci si dovesse malauguratamente trovare tra le mani un tablet con il display frantumato ma soprattutto perché, al di là delle evidenti differenze che tuttora permangono tra schermi e-ink e retroilluminati, il protagonista del video, Donald Bell, man mano che procede al settaggio che trasformerà la sfortunata tavoletta in un ebook reader dedicato elimina (consciamente?) proprio tutti quelle caratteristiche (schermo touch, notifiche dai vari social network, etc.) che possono rappresentare per il lettore altrettanti elementi di disturbo.
In sostanza Bell ci mette di fronte al dato di fatto che la differenza tra tablet ed ebook reader non è una questione squisitamente tecnologica ma anzi, e forse soprattutto, concettuale: il primo, essendo progettato per fare molte cose, tende ad essere “caotico” ed in un certo senso induce il suo possessore a passare da un’applicazione all’altra (task-switching) senza consentirgli di concentrarsi adeguatamente su nessuna di esse; il secondo al contrario offre un ambiente di lavoro meno distrattivo e che meglio si adatta all’attività che con esso si dovrebbe principalmente fare, ovvero leggere.
C’è dunque da chiedersi se la probabile convergenza cui andranno incontro queste due classi di dispositivi rappresenti un effettivo vantaggio per gli amanti della lettura o se, al contrario, questo processo non comporti più svantaggi che vantaggi.
A mio avviso un fattore cruciale sarà il prezzo: viene naturale pensare che, dovessero le differenze di prezzo rimanere le attuali (ovvero estremamente risicate in rapporto a ciò che tavolette e lettori di libri digitali possono dare), il consumatore medio accorderà il proprio favore a quei device “generalisti” che consentono di soddisfare un maggior numero di esigenze.
Al contrario, qualora i prezzi degli ebook reader dovessero scendere divenendo competitivi allora probabilmente molte persone valuterebbero la possibilità di possedere un dispositivo dedicato per la lettura. Con tutti i benefici che ciò comporta.

BYOD in archivi e biblioteche: bello ma impossibile?


BYOD Turns Up the Heat on Wi-Fi Performance

BYOD Turns Up the Heat on Wi-Fi Performance di Fluke Networks, su Flickr

Va bene che negli States sono avanti rispetto a noi di qualche annetto, però sarebbe forse veramente l’ora di iniziare a parlare seriamente anche qui nel Belpaese dell’importante fenomeno del BYOD (Bring Your Own Device), ovvero dell’uso in ambito lavorativo dei vari dispositivi tecnologici (soprattutto smartphone e tablet ma anche i vari ultrabook, notebook e netbook…) che ciascuno di noi oramai possiede ed usa quotidianamente per i più disparati motivi: creare e fruire di contenuti digitali (libri, film, musica), navigare in Rete, relazionarsi con amici e familiari.
La necessità si fa tanto più urgente alla luce dei risultati di un recente studio condotto da Gartner presso un qualificato panel di CIO: ebbene, il 38% dei responsabili dei servizi tecnologici ritiene che di qui al 2016 le proprie aziende smetteranno di fornire ai propri dipendenti i summenzionati device.
Infatti, prendendo atto del fatto che già oggi i propri addetti usano i dispositivi forniti dall’azienda per scopi personali ed utilizzino applicativi consumer anche per risolvere questioni di lavoro, si è giunti alla conclusione che è più conveniente lasciare che siano questi ultimi a farsi carico dell’acquisto di questi device impegnandosi però a fornire un contributo nei costi di esercizio / gestione. Il tutto nella convinzione che: “the benefits of BYOD include creating new mobile workforce opportunities, increasing employee satisfaction, and reducing or avoiding costs”.
Personalmente ritengo questa impostazione corretta e la spinta verso un simile scenario del resto difficilmente contrastabile; è pertanto il caso di fare alcune veloci considerazioni sugli inevitabili pro e contro, anche in considerazione del fatto che ad essere coinvolto di questo radicale cambiamento di impostazione non sarà, sempre secondo Gartner, il solo ambiente corporate ma anche quello dei Governi e delle pubbliche amministrazioni.
La prima considerazione che viene, quasi spontaneamente, da fare è la seguente: dal momento che il processo di informatizzazione delle pubbliche amministrazioni italiane è stato fortemente rallentato negli ultimi anni dalla cronica penuria di soldi, tanto per gli acquisti quanto per l’indispensabile formazione del personale, l’adozione del modello del BYOD garantirebbe rilevanti risparmi in entrambi i settori: per quanto riguarda le acquisizioni, semplicemente queste verrebbero a cessare (solo per alcune tipologie di device, naturalmente; n.d.r.) e resterebbero da mettere a bilancio le spese per i soli costi di gestione (che comunque già si sostengono)! Non meno evidenti ed immediati sarebbero i risparmi sul fronte della formazione dal momento che si presume che il proprietario sappia usare il proprio smartphone e tablet! Tutto ciò ovviamente in linea teorica perché, e così arriviamo alla seconda considerazione, c’è da chiedersi se il passaggio al BYOD non rappresenterebbe una sorta di “salto nel vuoto” alla luce delle carenze infrastrutturali che affliggono le nostre pubbliche amministrazioni. Sono infatti dell’avviso che il BYOD abbia senso solo se procede di pari passo con l’adozione di tecnologie cloud sulle quali, come noto, ci sono parecchie riserve. Arriviamo così al nocciolo della questione (aspetto peraltro sollevato anche dai CIO intervistati da Gartner): quali sono i rischi per la sicurezza dei dati (data leakage) e dei documenti? Evidentemente sono elevati ed è inutile dire che grossi sforzi andrebbero fatti in questo settore a più livelli: da una parte assicurandosi che i device utilizzati dagli appartenenti all’organizzazione rispondano ad alcuni requisiti minimi di sicurezza, applicando dunque ai soli dispositivi verificati i dettami del BYOD (va in questa direzione il progetto di valutazione condotto dal Pentagono sui principali smartphone in commercio; un ulteriore vantaggio di questa politica è quella di diversificare le piattaforme usate – in termini di sistema operativo – e di indipendenza da specifici fornitori, n.d.r.), dall’altro diffondendo una cultura della sicurezza (informatica) a tutti i livelli dell’organizzazione.
Venendo infine a parlare delle conseguenze del modello BYOD su archivi e biblioteche, conseguenze inevitabili essendo questi istituti a tutti gli effetti incardinati nell’apparato statale, le ripercussioni sono diversamente valutabili a seconda del livello in cui ci si colloca.
Ponendosi ad esempio al livello degli archivisti e dei bibliotecari in quanto “lavoratori”, il progressivo processo di professionalizzazione che ha investito questi che fino a pochi anni fa erano ancora mestieri (con l’instaurazione di rapporti di lavoro sempre meno di tipo dipendente ed al contrario sempre più di “prestazione occasionale” / collaborazione) ha reso assai frequente il fatto che essi utilizzino durante il lavoro i propri laptop, etc. In questo senso pertanto il BYOD potrebbe anche non rappresentare un fattore di dirompente novità. Similmente non è da escludere che l’uso di ambienti di lavoro e di dispositivi simili in quanto consumer non contribuisca ad aumentare il livello di empatia tra i primi ed i secondi nonché che possa condurre ad una migliore comprensione dei problemi di natura “pratica” cui potrebbero incorrere i secondi anche nel solo utilizzo dei servizi e delle risorse approntate. Non meno importante, in quest’ottica di omologazione tra strumenti professionali e consumer, il ricorso ai social network quali principali strumenti di comunicazione / promozione (laddove ad esempio in ambito bibliotecario fino a pochi anni fa ci si affidava, per la comunicazione, alle piattaforme ad hoc sviluppate all’interno dei primissimi SOPAC…).
A fianco di questi aspetti complessivamente positivi non si possono comunque tacere gli innegabili aspetti negativi (perlopiù dal lato degli archivi): non si tratta solo dei summenzionati rischi di perdita dei dati / documenti, il problema è molto più alla radice!
Con il paradigma BYOD è il confine stesso tra pubblico e privato a farsi labile: mail, progetti, documenti, etc. di lavoro rischiano di mescolarsi pericolosamente con quelli privati in un vortice inestricabile di file e cartelle! Ed il dubbio se un documento sia pubblico (= da inserire nell’archivio dell’organizzazione) o privato (= da inserire nell’archivio di persona del membro dell’organizzazione) o peggio ancora un ibrido difficilmente collocabile rischia di minare la trustworthiness complessiva dell’archivio. Perché un documento può anche essere stato al sicuro “incorrotto” dentro al sistema ma se ad essere messa indubbio è la sua appartenenza stessa all’archivio, secolari certezze rischiano di venire improvvisamente meno.

Pietro Bembo, gli umanisti e l’ebook

De Aetna

De Aetna

A tutti coloro che, come il sottoscritto, sono affascinati dal passaggio, dei quali siamo tutti testimoni, dal libro analogico a quello digitale, consiglio vivamente una visita alla mostra Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento, in corso a Padova presso il palazzo del Monte di Pietà (termina il 19 maggio).
Infatti, in particolare nelle prime tre sale, si possono concretamente percepire quei profondi cambiamenti appresi anni orsono nei vari corsi di paleografia, di storia del libro e dell’editoria, etc.: così, attraverso le eleganti ed agili pagine del De Aetna, scritto da Bembo stesso, assistiamo all’invenzione di un nuovo carattere (incisore Francesco Griffo) caratterizzato da pulizia e chiarezza (grazie alla presenza della punteggiatura) nonché all’affermazione di un nuovo rapporto tra riga e riga (merito dell’ariosa interlinea) e tra testo e pagina, con la centralità del primo e la conseguente scomparsa dei commenti (il che significa lasciarsi alle spalle tutte le incrostazioni della scolastica); il tutto confezionato da Aldo Manuzio, primo vero editore nel senso moderno e a noi familiare del termine, nel nuovo formato del libro tascabile in dodicesimo od in sedicesimo con testo in carattere corsivo.
Il De Aetna fungerà da modello per il nuovo “classico tascabile”, formato responsabile, nei decenni successivi, di poderosi cambiamenti nelle modalità di fruizione (un libro da viaggio da poter leggere in silenzio e non più ad alta voce) e che diverrà, per le élite culturali e politiche dell’epoca, un must da possedere e sfoggiare; già perché, per Bembo e gli umanisti della sua cerchia, il tutto rientra in un preciso progetto culturale teso a ridare splendore all’Italia delle corti attraverso la riscoperta degli antichi, trasfondendone i gusti ed i valori all’intera società, come appare evidente, per restare in ambito librario, da altri due volumi esposti alla mostra e strettamente connessi all’opera di Bembo: il primo è l’Orlando Furioso, che Ariosto volle revisionato personalmente dal nobile veneziano in linea con le teorie da questi esposte nelle Prose della Volgar Lingua e nel cui proemio non a caso si dichiara la volontà di cantar “i cavalieri, le armi, gli amori”, il secondo è Il libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione, ambientato nella Urbino dei Montefeltro e che vede tra i suoi protagonisti proprio il Bembo, il quale effettivamente visse tra il 1506 ed il 1511 nella “città a forma di palazzo”.
Questo veloce excursus nel momento stesso in cui illumina, ancorché in modo non esaustivo, i molteplici collegamenti che legano indissolubilmente Pietro Bembo e la sua cerchia alla nascita di un libro e di un’editoria “moderni” che rompono con il libro a stampa ancora in fasce (nel senso letterale di “in culla”; incunabula), ci induce a delineare analogie ed a porci domande sui fenomeni dei quali siamo oggi testimoni, vale a dire l’epocale passaggio al libro ed all’editoria digitali.
Le analogie sono evidenti: come non accostare il De Aetna alle linee essenziali e minimaliste che caratterizzano gli odierni supporti di lettura, ereader e tablet?
Come non pensare, a proposito di tablet, alla figura di Steve Jobs, per altri aspetti sicuramente sopravvalutata ma che indubbiamente ha sempre tentato di posizionare la sua azienda all’intersezione tra tecnologia (e che altro era sul finire del XV secolo la stampa a caratteri mobili se non la tecnologia più avanzata?) e discipline umanistiche, spingendola alla maniacale ricerca di bellezza, semplicità e facilità d’uso e di lettura anche in virtù, aspetto spesso dimenticato, di nozioni acquisite durante la frequenza di alcuni corsi di calligrafia e tipografia ai tempi del Reed College, conoscenze che anni dopo egli applicò concretamente nella scelta dei font migliori?
Come non pensare poi al concetto di trasportabilità insito nel libro tascabile? I moderni device non promettono, tra le tante cose, di avere sempre con sé un’intera biblioteca?
Inoltre, analogamente a 500 anni fa, ereader e tablet sottintendono una nuova modalità di lettura, che resta interiore e silenziosa ma che nel contempo, grazie alle / a causa delle potenzialità della Rete e delle nuove tecnologie, può farsi partecipata e/o condivisa ma nel contempo diviene meno intensiva. Parallelamente anche la scrittura può divenire un processo collettivo “a più mani”, il che implica un’affievolirsi della responsabilità autoriale (da autore a co-autore) e dei relativi diritti.
Tutto ciò ci induce ad alcune conclusioni per certi aspetti preoccupanti: se cinque secoli orsono la stabilità tipografica garantì da un lato la possibilità per la Cultura occidentale di poter crescere e svilupparsi attorno ad idee indelebilmente impresse dai torchi sulla carta e dall’altro agli autori di veder progressivamente riconosciuti i propri diritti su quelle opere, oggigiorno l’instabilità tipografica ci fornisce testi che da un lato hanno il pregio di poter essere emendati, corretti ed aggiornati praticamente in ogni momento e di fornire immediati rimandi alle fonti, dall’altra rendono più difficile quella stratificazione delle idee indispensabile per avviare riflessioni e dibattiti approfonditi.
Né vanno sottaciuti i possibili (e ribadisco possibili) aspetti negativi presenti in un modello di scrittura condivisa caratterizzata giuridicamente da licenze copyleft, creative commons o quant’altro associate a pubblicazioni prodotte ricorrendo al self publishing: al di là del possibile (ma non automatico!) scadimento qualitativo della produzione editoriale, si rischia il tracollo definitivo delle case editrici tradizionali per finire nelle braccia dei nuovi colossi dell’editoria digitale i quali, si badi, non vanno visti come l’incarnazione del Male ma vanno comunque limitati nel loro strapotere. E non tanto perché gli oligopoli sono da guardare a prescindere con diffidenza ma piuttosto perché manca nella loro azione, a differenza di 500 anni fa, un qualche progetto culturale. E questo è il vero grande problema.

Autenticazione grafometrica tra privacy ed esigenze di conservazione: è vera semplificazione?

Wacom bamboo pen di cnycompguy, su Flickr

Wacom bamboo pen di cnycompguy, su Flickr

Sul sito del Garante per la protezione dei dati personali sono state recentemente pubblicate le motivazioni, di fatto e di diritto, sulla scorta delle quali il Garante medesimo autorizza il gruppo bancario Unicredit, che aveva avanzato apposita istanza nell’ottica di migliora e snellire i propri servizi, a “trattare” i dati biometrici derivanti dalle firme dei propri clienti.
La lettura del dispositivo offre molteplici spunti di riflessione:
1) in primo luogo va precisato che il Garante ammette il trattamento dei dati biometrici non già per operazioni di sottoscrizione digitale bensì per quelle di autenticazione (= verifica dell’identità della persona che si presenta allo sportello), autenticazione che avviene mediante comparazione (matching) tra la firma apposta al momento su tablet e quelle conservate come “modello” in una apposita base di dati
2) in secondo luogo è interessante osservare come a) nella fase iniziale di enrollement vengano acquisite, da ciascun cliente, ben 6 firme (ciò al fine di crearsi un “profilo medio” di come un individuo firma) ma anche come b) successivamente il sistema sia in grado di “tracciare” l’eventuale processo di modifica nel tempo del modo in cui il cliente scrive (questa dinamicità, per inciso, preoccupa il Garante in quanto potrebbe rivelare aspetti comportamentali dell’individuo)
3) le misure tecnologiche di sicurezza sono molteplici: crittografia tanto al momento della firma quanto in quello del trasferimento dei dati; NON residenza della firma all’interno del tablet (che funge da mero “supporto” di scrittura, definito signpad) bensì in database dedicati all’interno di server siti sul territorio nazionale; conservazione dei dati di log
4) la conservazione dei dati biometrici relativi alla firma dura fintantoché è instaurato il rapporto tra il cliente e la banca; una volta venuto a cessare quest’ultimo c’è l’obbligo della loro cancellazione immediata (al netto di tempi tecnici ed eventuali contenziosi legali pendenti).
Personalmente, pur trovando la maggior parte di queste prescrizioni comprensibili, mi chiedo se esse non siano eccessive e rischino di annullare tutti i potenziali vantaggi. Ad esempio, pur avendo io già a suo tempo espresso perplessità sull’affidabilità del “sistema tablet” nel suo complesso, ritengo che la firma biometrica su tavoletta dovrebbe permettere di sottoscrivere un documento e non ridursi a mero strumento preliminare di verifica dell’identità del cliente (verifica che, beninteso, va fatta)! Che senso ha effettuare l’autenticazione con firma biometrica per poi sottoscrivere le successive operazioni bancarie attraverso strumenti quali le smart card che di certo non brillano per praticità?
Mi pare che in un simile sistema i grattacapi crescano esponenzialmente: infatti, non fossero bastate tutte le preoccupazioni derivanti dalla conservazione dei certificati, delle marche temporali, etc. ci si trova ora a dover conservare per un arco temporale indefinito (quale può essere la durata del rapporto che si instaura tra una banca ed i suoi clienti) pure quelli biometrici relativi alle firme!
Anche alla luce della “Guida alla Firma Digitale” predisposta dall’allora CNIPA, versione 1.3 dell’aprile 2009 (citata dallo stesso Garante), e delle riflessioni dell’avvocato Lisi che avevo riportato in un altro mio post di qualche tempo fa non sarebbe più naturale, oltre che economicamente vantaggioso, sottoscrivere (e non solo autenticare) su tablet, concentrando su questo gli sforzi di conservazione?

Ebook, è il momento di osare

DOK Delft

DOK Delft (di Gerard Stolk – vers la Chandeleur -, su Flickr)

I dati non sono ancora completi ma oramai non ci sono molti dubbi residui: le ultime festività, che secondo molti dovevano consacrare l’ebook ed in generale l’editoria digitale, sono state avare di soddisfazioni (qui un’accurata sintesi dell’orgia di numeri ai quali siamo stati esposti nelle ultime settimane).
Credere semplicisticamente che questo risultato deludente sia stato influenzato dalla crisi / stagnazione economica che ha contribuito a congelare i consumi non aiuta a comprendere bene lo stato delle cose. Ad esempio lo shopping 2011-12 è andato proporzionalmente meglio nonostante i cataloghi meno forniti! La causa principale di questo mezzo flop va dunque a mio parere ricercata altrove: per la precisione va preso atto che la tecnologia e-ink che caratterizza gli ereader agli occhi dei potenziali acquirenti ha (oramai a parità di prezzo!) un evidente minor appeal rispetto ai tablet, che non a caso non hanno accennato di rallentare la loro corsa (fatta eccezione per quelli di fascia alta prodotti dalla Apple). La prima classe di dispositivi (gli ereader) è appannaggio dei soli cosiddetti “lettori forti” che sono anche i principali “consumatori” di ebook mentre i lettori deboli optano piuttosto per dispositivi più versatili ed “universali” come le tavolette, usate anche per leggere seppur nel corso di “sessioni di lettura” mediamente di minor durata.
Detta in soldoni il rallentamento nelle vendite di lettori per libri digitali potrebbe dunque semplicemente indicare che è stata saturata la peraltro non vastissima platea dei lettori forti (verosimilmente tra i primi ad essere incuriositi dalla novità rappresentata dall’ebook) e che ora viene la parte difficile, ovvero riuscire a convertire al Verbo della lettura digitale chi gran lettore non è!
Ciò a mio avviso non è un’utopia ma senz’altro possibile a patto che tutti gli altri attori osino (e talvolta concedano) qualcosina:
1) partiamo dai produttori di device: gli ereader si stanno sviluppando troppo lentamente (motivo per cui il tasso di sostituzione non è elevato; non fosse per la recente introduzione dell’illuminazione frontale un dispositivo “vecchio” di un paio di anni non è molto inferiore ad uno ora sugli scaffali, laddove i tablet hanno fatto passi da gigante). E’ necessario dunque spingere sulla ricerca al fine di introdurre sul mercato quanto meno ereader con display a colori (su larga scala) e basati su sistema operativo che consente di godersi un minimo di applicazioni multimediali!
2) gli editori da parte loro dovrebbero studiare politiche di prezzo (e di marketing) più aggressive e nel contempo più creative: negli Stati Uniti, per fare un esempio, Humble Bundle nell’ultima tornata è riuscita a raccoglier 10 milioni di dollari vendendo, a prezzi stabiliti dall’acquirente, pacchetti di videogiochi, libri, film… tutti rigorosamente DRM free! Sono certo che in un momento di tagli ai bilanci delle famiglie l’iniziativa sarebbe gradita ed il successo senz’altro replicabile anche di qua dell’Atlantico.
3) le biblioteche dovrebbero premere sull’acceleratore del digitale: sono consapevole che ciò implica onerosi investimenti e che le relative tecnologie sono soggette a veloce obsolescenza ma sono convinto che, se si trova il giusto punto di equilibrio, il sistema sia sostenibile (posto che le biblioteche sono sempre in perdita!). D’altro canto se, come ricorda l’ennesima ricerca del Pew Research Center, il 53% degli utenti statunitensi sopra i 16 anni apprezzerebbe un incremento nell’offerta di ebook, qualcosa bisogna pur fare!
4) gli Stati poi dovrebbero a loro volta fare il massimo per agevolare questo settore strategico: tassazione favorevole sui libri digitali e relativi lettori, investimenti per l’appunto nelle biblioteche (e se i soldi non ci sono favorendo il mecenatismo e/o le sponsorizzazioni!), promozione della lettura e via di questo passo.
Se questa terapia d’urto dovesse venire veramente attuata sono certo che l’intero ecosistema che ruota attorno al libro digitale spiccherebbe, stavolta definitivamente, il volo.

eReader verso il declino?

eBook Readers Galore di libraryman, su Flickr

eBook Readers Galore di libraryman, su Flickr

La questione ritorna periodicamente alla ribalta ed è stata più volte affrontata anche in questo blog (tra i numerosi post si veda almeno questo): gli ereader sono destinati a sparire di fronte all’avanzata inarrestabile dei tablet?
Infatti benché i primi, anche prendendo come data ufficiale di nascita il 19 novembre 2007 (giorno in cui venne presentato al pubblico il Kindle di prima generazione; in verità il device della casa di Seattle non è il primo ereader in assoluto, risalendo i primi dispositivi di questa categoria a circa un decennio prima, n.d.r.), abbiano preceduto i secondi di oltre due anni (Steve Jobs infatti lanciò l’iPad di prima generazione il 27 gennaio 2010; anche in questo caso non si trattava della prima tavoletta in assoluto a vedere la luce, ma fu la prima ad imporsi – in termini geografici e di vendite – globalmente), da subito si iniziò a discettare della possibilità che queste due classi di dispositivi potessero o meno coesistere.
A riguardo le posizioni furono sin dall’inizio variegate: a fianco di coloro che decretavano la vittoria a breve dei tablet stavano coloro che non mancavano di sottolineare le peculiarità, tali da garantire loro la sopravvivenza, degli ereader; vi erano infine coloro (e tra questi va inserito il sottoscritto) che vedevano in prospettiva una convergenza tra queste due tipologie di dispositivi.
Queste tre “scuole di pensiero” sono a grandi linee quelle tuttora prevalenti ed è interessante rilevare come, a distanza di tre anni, ciascuna potrebbe affermare di avere avuto sinora ragione:
1) la prima ha dalla sua i crudi numeri: i tablet sono, secondo tutti i dati di vendita, l’unico segmento del mercato PC a crescere nonostante la crisi con volumi di vendita impressionanti (le varie Gartner, IDC, Canalys, etc. su questo punto concordano)
2) la seconda ha dalla sua la qualità: nonostante gli sviluppi degli schermi LCD quelli con inchiostro digitale rimangano imbattibili in quanto a facilità di lettura e minor affaticamento degli occhi
3) la terza, infine, ha dalla sua alcuni fatti incontrovertibili: la convergenza infatti si è materializzata, oltre che per il form factor, dal lato delle tavolette con la ricerca di schermi più performanti in termini di resa dell’immagine (luminosità, nitidezza dell’immagine, visione ad angoli elevati, eliminazione di riflessi, etc.) e di consumi di energia, dal lato degli ereader con l’aggiunta di funzionalità quali lo schermo touch, la connettività (Wi-Fi o 3G), la comparsa del colore e la possibilità (ad onor del vero ancora più teorica che pratica) di vedere brevi filmati.
Poco sopra ho appositamente usato il grassetto per evidenziare quel “sinora” in quanto un recentissimo articolo dell’agenzia Reuters a firma di Jeremy Wagstaff (articolo ampiamente ripreso in Italia da Wired) sembrerebbe celebrare il funerale degli ebook reader. In effetti, stando a Wagstaff, la situazione appare a dir poco complicata e tutte le stime di mercato (confortate dal tracollo di vendite di eInk Holding nell’ultimo bimestre 2011) pessime. I fattori che spingono a formulare queste previsioni nere sono presto detti: con una forchetta di appena 70 euro nel prezzo tra gli ereader di punta (ovvero i 129 euro del Kindle Paperwhite o del Kobo Glo) e rispettabilissime tavolette entry level quali il Kindle Fire HD od il Nexus 7 di Google (che si trovano a 199 euro) è evidente che la maggior parte dei consumatori, a meno che non si tratti di grandi lettori, si orienterà verso quest’ultima classe! Un ulteriore aspetto che induce a cattivi presagi è poi quello delle “potenzialità”: a detta di numerosi analisti intervistati la tecnologia e-ink si sviluppa più lentamente rispetto a quella LCD e ciò avviene nonostante gli ingenti investimenti effettuati (la crisi in realtà riguarda anche Qualcomm che starebbe cercando di “piazzare” in licenza la sua ottima tecnologia Mirasol…).
A mio avviso è purtroppo indubbio che gli ereader non stiano “crescendo” come dovrebbero: i colori restano una caratteristica di pochi dispositivi (tra l’altro va rilevato che Barnes & Noble, per ora, ha puntato sul Nook Glowlight con illuminazione frontale e non su una versione migliorata del Color!) e peraltro restano assai “sbiaditi”, la connettività nella maggior parte dei casi avviene via Wifi, non esiste (ad eccezione del Kyobo, che si basa su una versione personalizzata di Android) un sistema operativo di riferimento con il suo ricco sistema di applicazioni tale da conferire maggiore appeal alla categoria, il refresh delle pagine lascia ancora a desiderare e lo stesso schermo touch non è sensibile al tocco quanto lo è il corrispettivo sulle tavolette. Insomma, gli unici vantaggi indiscutibili rimangono la maggiore facilità di lettura / minor affaticamento dell’occhio (aspetto questo assolutamente decisivo) e l’invidiabile autonomia delle batterie.
Quale dunque il futuro? Ha ragione Wagstaff? Personalmente rimango della mia opinione che si vada verso la convergenza (al termine della quale sarà arduo per ovvi motivi stabilire se avremo tra le mani più un tablet od un ereader) e questo perché il tracollo dei lettori di libri digitali non potrà essere così repentino: 1) i benefici effetti delle economie di scala si faranno sentire anche per questi ultimi (già ora se uno si accontenta con 50 euro si porta a casa un ereader anzianotto quanto si vuole ma comunque capace di fare il suo dovere) ed i prezzi caleranno di conseguenza, rendendoli più appetibili 2) se è vero che in ambito educational tutti (corpo docente, istituzioni scolastiche, etc.) sembrano preferire le tavolette per le indubbie maggiori proprietà “multimediali” / interattive, non andrebbero nemmeno sottaciuti i ben noti svantaggi (difficoltà di concentrazione, affaticamento vista, fragilità schermi, etc.) 3) dal punto di vista editoriale non è ancora stata raggiunta una vera standardizzazione sul formato da adottare e forse, a causa della continua evoluzione tecnologica, mai ci si arriverà (l’unica costante sarà la Rete come “ambiente operativo”), motivo per cui device alternativi troveranno sempre una nicchia di sopravvivenza.
Insomma, non la farei così scontata come il report Reuters lascia intravedere: sicuramente un importante banco di prova sarà il Natale 2012, al quale peraltro i produttori di ereader si presentano ben armati (oltre ai vari lettori con illuminazione frontale sono incuriosito dai risultati che riuscirà ad ottenere l’interessante Kobo Mini): se le vendite saranno soddisfacenti allora si potranno mettere in cantiere ulteriori modelli per il prossimo biennio (rinviando la “morte” dell’ereader) mentre in caso contrario è prevedibile l’uscita di molti operatori.
Una volta mancati i necessari capitali molti progetti resteranno sulla carta mentre altri (mi riferisco a quelli di quegli operatori che finora hanno tenuto il piede in due scarpe, leggasi tablet ed ereader) verranno verosimilmente accorpati. E allora sì che sarà veramente convergenza!

Arriva Microsoft Surface: cosa cambia nell’arena dei tablet

Microsoft Surface

Microsoft Surface (Copyright Microsoft)

Una cosa è certa: con la presentazione di Surface, primo tablet con il proprio marchio, Microsoft ha compiuto un’operazione di marketing all’altezza dell’acerrima rivale Apple, riprendendosi la ribalta mediatica dopo un lungo periodo di appannamento.
Per giorni infatti si è discusso a suon di indiscrezioni su cosa sarebbe stato presentato in quel di Los Angeles: chi diceva una tavoletta frutto della collaborazione con Barnes & Noble capace di interagire in streaming con l’Xbox (ipotesi improbabile considerando la smentita di B&N, che non sembrava d’ufficio, e come l’accordo tra le due società risalga ad appena qualche mese fa), chi un tablet ma frutto al contrario dell’accordo con Nokia (io personalmente propendevo per questa ipotesi), chi un ereader puro (sempre in collaborazione con B&N, ma anche in questo caso ho sin da subito trovato l’indiscrezione poco plausibile: poco tempo a disposizione per lo sviluppo… e poi al Nook che fine facevamo fare?) e chi infine l’annuncio di una qualche acquisizione a suon di miliardi di dollari (si era parlato di Yammer, effettivamente acquistata). Tutti comunque, avevano individuato grossomodo l’oggetto dell’annuncio: un device fisico connesso in qualche modo al nuovo sistema operativo Windows 8 / RT.
Ma al di là dei rumor dei siti specializzati, dei bagliori dei flash e del colori sgargianti del nuovo device, quale sarà l’impatto di Surface sull’arena dei tablet? Secondo Stan Shih, fondatore di Acer, il nuovo tablet dell’azienda di Seattle servirebbe soprattutto per “spronare” gli altri produttori ad adottare il nuovo sistema operativo di Windows; d’altronde, ragionano sempre nella casa taiwanese, chi lo fa fare a Microsoft di gettarsi nel settore dell’hardware con i suoi bassi margini?
Personalmente reputo questa spiegazione poco credibile e tesa soprattutto a sminuire la portata dello schiaffo subito: Acer, e con essa tutti i produttori che da anni adottano software Microsoft, sono rimasti spiazzati dal comportamento dell’azienda diretta da Steve Ballmer. Appartengo infatti a quella “scuola di pensiero” che ritiene la mossa di Microsoft di tipo strategico e destinata ad avere ripercussioni di grossa portata (perlomeno sulla conduzione del business da parte dell’azienda): in altri termini a Seattle, visto il pericolo sempre più concreto di vedersi tagliati fuori dall’universo dei dispositivi mobili, sono stati costretti ad adeguarsi a quanto fatto dai principali e più temibili competitor (Amazon, Google, Apple) i quali hanno percorso con decisione la strada di dispositivi brandizzati con SO fatto in house (iOS od Android) o quanto meno altamente personalizzato (come Amazon).
La mossa di Microsoft, dunque, è stata obbligata e, bisogna riconoscere, Ballmer non si è tirato indietro, presentando un prodotto che sfida direttamente (per specifiche tecniche e fascia di prezzo) l’iPad di Apple: Surface infatti nelle due versioni Windows 8 ed RT monta processori che sono il top della gamma rispettivamente di Nvidia (dovrebbe essere il Tegra) e di Intel (con l’Ivy Bridge), ha dimensioni e pesi grosso modo assimilabili alla tavoletta made in Cupertino e display in alta definizione. Al di là dei dettagli tecnologici, anch’essi comunque indicativi, a mio parere il tratto distintivo di Surface è la particolare attenzione per la dimensione di produttività (come si evince dalla possibilità di scrivere a mano libera con una risoluzione di 600 dpi – con digital ink, tecnologia da anni nel cassetto di Microsoft – e dall’interessantissima cover / tastiera), strizzando così un occhio ad aziende e pubbliche amministrazioni ovvero proprio a coloro che devono ancora effettuare il loro passaggio al mobile e che erano in attesa di un prodotto compatibile con gli esistenti “parchi macchine”.
Se la mossa di Microsoft è dunque di quelle destinate a lasciare il segno, non meno interessante sarà vedere come reagiranno i vari protagonisti del panorama high-tech mondiale.
Iniziamo da quelli che si trovano nelle posizioni più critiche (tra i quali metto tutti i vari produttori “puri” di hardware): Acer, Lenovo, HP (che ha letteralmente gettato il suo WebOS frutto dell’acquisizione di Palm!), Dell, etc. si trovano nella difficile situazione di essere costretti ad adottare il sistema operativo fornito da chi nel contempo gli fa anche la concorrenza come produttore (ovvero Microsoft, che peraltro si fa pure pagare, ed a breve Google).
Ci sono poi i due malati cronici: 1) RIM, che pur avrebbe il suo SO Blackberry 10, si trova in acque agitate ed ha appena annunciato il licenziamento di 6mila dipendenti nell’estremo tentativo di tagliare i costi: purtroppo dati di vendite e quote di mercato non consentono particolari ottimismi al punto che si riaffaccia prepotentemente, a mio avviso, l’eventualità di un’acquisizione (Amazon?) 2) Nokia, i cui destini sono altrettanto incerti, ha licenziato 10mila dipendenti, chiuso fabbriche e si vocifera dovrebbe persino realizzare smartphone low-cost basati su Android: evidentemente l’accordo con Microsoft non sta dando i frutti sperati ed in effetti lascia perplessi che Surface non sia esito di questo deal (come anzidetto ero tra chi propendeva per questa ipotesi) né d’altro canto è accettabile che l’unico risultato pratico (oltre alla presenza di Windows Phone sui Lumia) sia l’uso delle mappe di Nokia al posto di quelle di Bing a bordo dei paventati telefonini intelligenti marchiati Microsoft!
Ancora più interessanti, però, saranno le contromosse dei veri sfidanti di Microsft: Apple, Amazon e Google.
Apple ha già sparato il suo colpo con il Nuovo iPad, quindi non ha altri proiettili in canna da usare nell’immediato; molti analisti comunque continuano a prospettare la realizzazione di una versione con display di dimensioni ridotte ed effettivamente sono possibilista sulla cosa, avendo essa una sua logica in termini di differenziazione di prezzo (un entry-level più basso) e di prodotto, inserendosi in un segmento di mercato altrimenti regalato a Samsung. Insomma non sono tra coloro che ritengono impossibile che un giorno potremo vedere un Mini iPad per il semplice fatto che Steve Jobs aveva a suo tempo proferito il suo niet!
Decisamente più articolate e da scandire con oculatezza nei mesi a venire le manovre in casa Amazon: l’azienda di Seattle deve infatti da un lato “coccolare” il mercato USA, dall’altro non deve trascurare quello europeo. Negli Stati Uniti infatti dopo l’exploit natalizio il mercato si è raffreddato; è pertanto previsto per ottobre l’arrivo del Kindle Fire 2 con una dotazione hardware e software aggiornata (con quale Android? Ice Cream Sandwich o Jelly Bean?). Contestualmente, come già avvenuto con altri prodotti, il prezzo del “vecchio” Fire dovrebbe scendere preservando l’appetibilità di questo tablet. E l’Europa? L’annuncio, di qualche giorno fa, che gli sviluppatori possono iniziare a lavorare su applicazioni per il Vecchio Continente da distribuire entro l’estate, può indicare che l’arrivo del Fire sia, dopo mesi di annunci e smentite, veramente prossimo. A questo punto dell’anno è però auspicabile che il Fire “europeo” possa aver beneficiato di qualche sostanzioso upgrade, necessario per un prodotto non al top della gamma nemmeno al momento della presentazione; non penso che i consumatori europei siano esaltati dall’idea di trovarsi tra le mani un device vecchiotto o quanto meno di serie B rispetto a quello che i cittadini d’Oltreoceano avranno a disposizione tra appena qualche mese!
Last but not least c’è Google. Dopo mesi di annunci e di indiscrezioni sembra essere arrivata la volta buona: durante l’annuale incontro I/O al Moscone Center di San Francisco (in programma dal 27 al 29 giugno prossimi) l’azienda di Mountain View dovrebbe, tra le tante cose, svelare il Nexus Tablet (a doppio marchio Google ed Asus) il quale, ormai è altrettanto certo, avrà un display da 7 pollici, sistema operativo Android Jelly Bean e prezzo di 199 dollari. Se tali caratteristiche fanno (legittimamente) ipotizzare che lo sfidante principale sia proprio il Kindle Fire, personalmente ritengo che nessuno competitor possa dormire sonni tranquilli: a) con la recente Books App (relativa a Google Books) si è compiuto un ulteriore deciso passo nel mercato di quegli ebook “riserva di caccia”, finora, di Amazon ed Apple; b) Google Docs oramai è una diffusissima suite di produttività sulla nuvola, tale da impensierire Office di Microsoft c) Drive fornisce il necessario spazio di storage, senz’altro alternativo ai sistemi dei rivali d) su Google Play si trovano applicazioni di ogni genere, da quelle utili alla produttività a quelle ludiche, e che nulla hanno da temere rispetto a quelle del celeberrimo Apple Store. Insomma una politica di sviluppo a 360 gradi che non ha praticamente lasciato nulla al caso; semmai, se proprio devo muovere un appunto a Google, trovo strana la lentezza con la quale si mette a frutto l’acquisizione di Motorola Mobility.
Siamo dunque alla guerra di tutti contro tutti e così come avviene sui campi di battaglia un fattore determinante potrebbe essere quello tempo: Apple è insidiata da Microsoft, il cui Surface però arriverà solo in autunno, periodo nel quale dovrebbe arrivare pure il Fire 2; nel frattempo invece sul mercato dovrebbe arrivare (da luglio) il Nexus di Google, motivo per cui quest’ultima azienda potrebbe approfittare del vantaggio per fare il pieno ai danni soprattutto di Amazon e di Microsoft. Nei riguardi della prima infatti è lecito chiedersi: perché attendere sino ad ottobre per un prodotto affine, ovvero low cost e che come dotazione tecnologica sicuramente non rappresenta lo stato dell’arte? Nei confronti della seconda invece la domanda da porsi è: perché pagare tanto per un tablet se poi anche il Nexus se la cava in quanto a produttività? E poi, se proprio devo spendere, non è forse meglio farlo per avere almeno il fascino della Mela?
Ognuno darà la sua risposta, la sfida intanto è aperta.

PS Per chi volesse approfondire ulteriormente la lettura rimando al relativo Storify.

Firma grafometrica: alcune perplessità archivistiche

Olipad Graphos

Olipad Graphos (fonte: http://www.olipad.it)

Quando si parla di “informatica negli uffici” si tende, complice anche l’inserimento della questione nel programma del partito politico risultato poi vincente alle ultime elezioni, a pensare soprattutto alla “dematerializzazione”, vale a dire all’abbandono dei vari supporti analogici (carta su tutti), ritenuti ingombranti e costosi, per lasciar posto a quello digitale, per contro ritenuto conveniente e flessibile.
In realtà tutti sanno che non è sufficiente sostituire una macchina da scrivere con un PC per poter dire di aver veramente “informatizzato” un ufficio se poi l’uso che si fa del PC è equivalente a quello di una macchina da scrivere: intendiamoci, già l’uso di un programma di videoscrittura rappresenta un buon passo in avanti, ma è altresì superfluo sottolineare che il vero “cambio di passo” lo si può ottenere modificando (con termine tecnico “reingegnerizzando”) le modalità di lavoro ed adattandole ai nuovi strumenti a disposizione.
Purtroppo quest’opera di “reingegnerizzazione” è tanto più difficile quando si tratta di uffici della Pubblica Amministrazione, dove bisogna attenersi a normative che più che al raggiungimento spedito dei risultati mirano a garantire la correttezza dell’operato sotto il profilo giuridico-formale e dove è difficile diffondere una “cultura informatica”, la quale sottintende un aggiornamento continuo delle competenze professionali ed altrettanti mutamenti nel modo di lavorare, abbandonando consolidate e tranquillizzanti prassi operative.
In un simile contesto mi chiedo quale potrà essere l’impatto di uno strumento come il nuovissimo Olipad Graphos, tablet della Olivetti esplicitamente destinato ad un’utenza business oltre che, appunto, alla Pubblica Amministrazione, la cui peculiarità è la possibilità di firma grafometrica con pieno valore legale. Come si appone ed in cosa consiste questa firma? In pratica attraverso una speciale penna in dotazione assieme alla tavoletta il sottoscrittore firma così come farebbe con un qualsiasi documento cartaceo; il dispositivo acquisisce in automatico sia l’immagine della firma che i parametri salienti del sottoscrittore quali pressione esercitata, ritmo, movimento, velocità, accelerazione.
Si tratta di un sistema per il quale, vista la sua facilità d’utilizzo, è prevedibile un impiego generalizzato (al momento Olivetti si limita ad indicare come possibili settori d’utilizzo “l’emissione di verbali di sopralluoghi ed interventi tecnici, rivolte sia al mercato delle Utilities sia alla Pubblica Amministrazione” ed in generale “soluzioni di automazione e dematerializzazione del libro firma delle aziende e della PA”) e che potrebbe far piazza pulita di tutti quei molteplici tipi di firma (elettronica e digitale, più o meno qualificata) normati dal legislatore e che a mio avviso hanno ottenuto l’unico risultato di generare ulteriore confusione oltre che di creare ex novo problemi di non facile soluzione (come la durata delle marche temporali e la loro conservazione).
Se di primo acchito l’arrivo della firma grafometrica è dunque da salutare con favore, alcune semplici valutazioni di tipo archivistico consentono di individuare alcune criticità che dovrebbero indurre, specie nella Pubblica Amministrazione, ad abbracciare con le dovute cautele questo per il resto interessante dispositivo (e gli altri con le medesime caratteristiche che sicuramente verranno).
Il primo aspetto da considerare è ovviamente quello della sicurezza: su quella intrinseca di questa modalità di firma non ho modo di esprimere giudizi (in genere è communis opinio che i metodi di autenticazione basati su dati biometrici siano praticamente inviolabili ma la storia dell’informatica è piena di sistemi considerati insuperabili e poi puntualmente aggirati, motivo per cui non è da escludere che il ritornello si ripeta; diciamo dunque che la firma biometrica offre standard di sicurezza elevatissimi ma è, come tutti i sistemi umani, fallibile), nutro invece qualche dubbio sul “sistema tablet” nel suo complesso. Il fatto che l’accesso al dispositivo avvenga attraverso la lettura delle impronte digitali del legittimo proprietario a mio avviso non è sufficiente: si impedisce, quello sì, che persone non autorizzate utilizzino il dispositivo ma d’altro canto un dispositivo mobile come una tavoletta è per sua natura maggiormente a rischio di perdita o furto e con esso di tutti i documenti firmati in esso contenuti. Per fare un parallelo è come se un ladro, introdottosi negli uffici di una Pubblica Amministrazione, rubasse non solo gli appetibili PC ma anche i faldoni (cartacei) che, nonostante la sbandierata dematerializzazione, continuano ad affollarne armadi e scrivanie. Insomma, un doppio danno!
Questa considerazione ci porta al secondo punto: nel momento in cui si inizia ad operare in mobilità la necessità di opportune operazioni di back-up / storage diviene un imperativo se possibile ancor più categorico. Ed in mobilità come vorrai mai effettuare queste operazioni? Con il cloud computing ovviamente (già, perché non vorrai mica metterti ogni sera con il cavetto a scaricare i dati? vuoi mettere la comodità di un sistema che ti fa l’upload su server sicuri e ti sincronizza in automatico i dati mettendoli immediatamente a disposizione dell’organizzazione?)! E qui ritorniamo ai soliti problemi: o la Pubblica Amministrazione si rivolge a servizi di privati (a proposito Olivetti non lo scrive esplicitamente ma è più che verosimile che la soluzione cloud di riferimento sia quella in-house di Nuvola Italiana di Telecom Italia) oppure, scelta lungimirante, si decide una volta per tutte a realizzare queste infrastrutture strategiche.
Del resto, ultimo aspetto da valutare, nel momento in cui si realizzano queste strutture informatiche, imprescindibili per l’attività ordinaria e straordinaria dell’organizzazione, è necessario considerare aspetti di compatibilità ed interoperabilità; in particolare l’introduzione dei dispositivi mobili sta creando grattacapi non indifferenti ai responsabili IT dal momento che questi device hanno applicazioni basate su sistemi operativi (iOS ed Android) che mal si adattano con i software prevalentemente in ambiente Microsoft già presenti negli uffici. In questo senso Android, SO libero ed open source, è assolutamente preferibile ad iOS non avendo del resto a mio avviso senso attendere i futuri dispositivi con Windows 8. A ben vedere l’avvento del mobile nei pubblici uffici, pur con tutti i nodi irrisolti e le difficoltà che esso rappresenta, potrebbe costituire l’occasione giusta per abbandonare i prodotti dell’onerosa Microsoft (non si parla sempre di ridurre i costi?) ed abbracciare finalmente l’universo open source così come per cambiare davvero il modo di lavorare nella PA (con evidenti impatti sui flussi documentali) e realizzare qualcosa che si avvicini a quegli “uffici senza carta” finora utilizzati come uno slogan propagandistico o poco più.
Ma soprattutto, e chiudo, il passaggio al mobile può contribuire al riallineamento tra prassi amministrativa e corretta tenuta archivistica dei dati e dei documenti all’interno di una aggiornata cornice informatica.