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Instagram in biblioteca

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Dell’utilizzo dei social network in archivi e biblioteche si parla e si scrive in lungo ed in largo: Facebook e Twitter, in particolare, sono tra gli strumenti che gli esperti indicano come i più efficaci, il primo (solo per enunciare i principali pregi) in virtù della enorme base di utenti e della possibilità di pubblicizzare e promuovere eventi inserendo foto, video, etc. a corredo, il secondo soprattutto per l’immediatezza e la rapidità d’uso derivante dai 140 caratteri massimi ma anche per la potenza dell’hashtag cancelletto (#) come aggregatore tematico.
Sulla scorta di queste considerazioni non stupisce che negli ultimi anni numerosi archivi e biblioteche abbiano attivato account istituzionali di questi ultimi due servizi mentre altri, che richiedono maggiore impegno e maggiori competenze tecniche (penso a Youtube) oppure che meglio si adattano a specifiche tipologie di istituti (penso di nuovo a Youtube per archivi contemporanei con importanti fondi audiovisivi o a Flickr per quegli archivi e quelle biblioteche che conservano ricche raccolte fotografiche), sono rimasti decisamente meno diffusi.
In questo panorama abbastanza nitido, in verità se vogliamo per certi versi quasi scontato, ritengo che un’anomalia ingiustificata sia rappresentata dallo scarso utilizzo di Instagram, il social network nato nel 2010 come app per dispositivi iOS (quindi in ambiente mobile, aspetto non secondario, e solo successivamente divenuta utilità da desktop PC!) e caratterizzato dalla possibilità di scattare foto con la fotocamera presente sul device in uso, applicandovi poi filtri in alta definizione e, aspetto non meno importante, di taggarle, di condividerle con amici e di commentarle.
Instagram, forte della sua base di 400 milioni di utenti attivi, oramai ha scalzato Twitter (fermo a quota 320) nelle preferenze di molti utenti: posto che i dati in circolazione vanno maneggiati con cautela (non bisogna infatti confondere utenti attivi con utenti registrati!), bisogna ammettere che i numeri sono netti, al punto che secondo molti il 2016 sarà l’anno di Instagram, il quale gode di un’appeal senza pari tra le giovani generazioni, stanche di Facebook.
Ma quali sono i punti di forza di Instagram, tali da averne hanno decretato il successo? Precisato che si tratta ovviamente anche di un fenomeno di moda (numerosissime sono le celebrità presenti in Isntagram con propri profili, seguiti da milioni di fan; n.d.r), è necessario riconoscerne le indubbie qualità che a mio avviso sono le seguenti: 1) punta sulle fotografie, ed in tempi di società dell’immagine non c’è miglior via per assicurarsi il successo 2) da Facebook riprende funzionalità quali i “Like” ed i commenti (con tanto di faccine in stile Whatsapp) 3) da Twitter copia il meccanismo dell’hashtag, a riguardo del quale va precisato come attualmente non vengano forniti trend topics elaborati sulla base delle parole chiave più utilizzate in un dato momento come fa Twitter; all’utente, man mano che li scrive, vengono semplicemente suggeriti tag “standardizzati” che risultano ugualmente fondamentali per creare quella trama di collegamenti tra le proprie foto e quelle postate da altri utenti ed etichettate con gli stessi termini 4) da Foursquare recupera il principio della georeferenziazione: in base al luogo in cui ci troviamo (= dove si trova il nostro smartphone), Instagram ci propone una serie di foto scattate nelle prossimità.
In sostanza Instagram ha fatto proprie quelle che sono le principali caratteristiche degli altri social network, fondendole sapientemente in un’unica app che, venendo a noi, sono convinto potrebbe dare molte “soddisfazioni” qualora utilizzata in ambito bibliotecario.
Del resto il nesso tra biblioteche e mondo dell’immagine/foto è forte non solo perché esse incentrano principalmente la propria attività su un oggetto, il libro, che è fruibile (perlomeno nella nostra epoca) in primis mediante la vista; lo è anche perché il libro stesso ha una valenza estetica (nella copertina, nelle miniature, nelle illustrazioni) tale da far apparire quasi spontaneo “fotografarlo”.
Non sto chiaramente scoprendo nulla: basta infatti scorrere i tweet di una qualsiasi biblioteca per rendersi conto che molti bibliotecari già lo fanno, a volte inconsapevolmente altre con lo scopo pratico di far conoscere le nuove accessioni. Il punto è che su Twitter esse si confondono in un mare di teneri gattini e cuccioli vari (purtroppo accade ancora!), di locandine di eventi, di avvisi, di adesioni a campagne di mobilitazione varie, etc.
In altri termini la fotografia, in Twitter, perde il proprio valore aggiunto; per contro su Instagram vi è la possibilità di inserirla in discorso / flusso narrativo dotato di un certo valore estetico (non me ne vogliano i fotografi di professione, ma effettivamente su Instagram ci sentiamo un po’ tutti artisti!) e soprattutto dotato di una coerenza interna e con la “social media strategy” definita dall’ente, senza peraltro che ciò (e qui sta il bello) precluda ulteriori, non previsti, percorsi.
Ad esempio, se clicchiamo sull’immagine della biblioteca del Centro de Arte Reina Sofia di Madrid pubblicata in questo post, ecco che finiamo sulla stessa foto caricata nel mio profilo Instagram; qui possiamo cliccare ulteriormente sull’hashtag #library e veder comparire alcune foto che ritraggono le più belle biblioteche al mondo oppure sull’hashtag #reinasofia, al quale sono associate foto scattate dagli altri utenti nelle quali ricorre sì il medesimo tag ma che hanno un soggetto completamente diverso dal mio. Ecco dunque che, partendo dalla foto di una biblioteca, scopro che al Reina Sofia è esposto il celebre Guernica di Pablo Picasso ma anche, attraverso un’altra foto, pure che è in corso una mostra temporanea su Constant Nieuwenhuys, personaggio poliedrico ed autore del libro New Babylon.
Appare evidente come Instagram, in pochi passaggi, sia stato in grado di farci compiere un viaggio tra diverse arti e discipline, fornendoci peraltro ulteriori spunti di lettura!
Le potenzialità dello strumento dunque ci sono tutte, resta da capire come sfruttarle al meglio; la palla, a questo punto, passa ai social media strategist, figure delle quali le biblioteche devono a mio avviso dotarsi (qualora ciò non fosse possibile, è necessario che i bibliotecari apprendano i rudimenti della materia), ed ai quali spetta il compito di inserire Instagram nella più vasta strategia comunicativa della biblioteca / dell’Ente, affiancando e non sostituendo gli altri social media.
A riguardo, pur non essendo un esperto, mi permetto di fornire alcuni semplici, finali, suggerimenti operativi: A) fatti salvi casi specifici, è auspicabile che le foto pubblicate su Instagram vengano condivise automaticamente anche sugli altri social network nei quali si è presenti; B) nel momento in cui dobbiamo decidere su cosa basare il nostro discorso narrativo, prenderei in considerazione i seguenti tre: 1) i libri (= le raccolte), 2) le sedi e 3) le persone (utenti / bibliotecari), ovvero i tre elementi che incidentalmente sono a fondamento della biblioteconomia e che, con le loro interconnessioni quotidiane, reali e virtuali, ne assicurano la vitalità.

Quale futuro per gli archivi digitali fotografici

Screenshot di Carousel

Screenshot di Carousel

Gli utenti di Dropbox della prima ora ricorderanno come inizialmente questo servizio fosse usato essenzialmente a fini di “archiviazione documentaria” pura, nel senso che ci si caricava soprattutto file di testo; solo in un secondo momento, grosso modo in parallelo all’incremento delle velocità di upload e download dei nostri dispositivi mobili (cosa resa possibile tecnicamente grazie alla realizzazione delle reti 3G e 4G – a loro volta alla portata di tutti grazie ai piani flat – così come dalla sempre più capillare diffusione di hotspot wifi), si è passati a caricarvi massicciamente file di dimensione sensibilmente più pesanti, quali foto e brevi video.
Infatti Dropbox, ben consapevole dei trend in atto e delle crescenti esigenze dei propri utenti, ha ben pensato di assecondarli ampliando progressivamente la sua gamma di servizi e, con essi, il suo settore d’affari. In particolare l’azienda di San Francisco ha sviluppato le sue applicazioni lungo due direttrici: da un lato assicurando ai sempre più numerosi utilizzatori un minimo di produttività (del tipo creare e salvare direttamente sulla cloud di Dropbox file di testo in formato .txt), dall’altro scommettendo forte sulle fotografia (inserendo ad esempio la funzionalità di upload automatico per le foto scattate con un device mobile).
Con tale mossa Dropbox cercava evidentemente di giocare d’anticipo e di preservare l’importante margine di vantaggio acquisito sulle varie Apple, Microsoft e Google (il cui Drive, per rendere l’idea, è arrivato sul mercato nell’aprile 2012, vale a dire ben quattro anni dopo!).
E che il grosso della partita si giochi proprio sul fronte delle foto non deve sorprendere: anche a voler rifuggire dalla sociologia spiccia e dai facili slogan, è un dato di fatto (e ne ho già scritto) che nella nostra società l’immagine conti e che scattare foto o, al contrario, farsi immortalare in fotografie sia una delle azioni più comuni, più facili ed al contempo più appaganti per il nostro ego.

Non deve dunque sorprendere se anche gli ultimi, importanti, annunci in casa Dropbox abbiano a che vedere con il mondo delle immagini. L’azienda californiana ha infatti da un lato lanciato Carousel, una app del tutto nuova ma che, come si vedrà a breve, è intimamente collegata al classico servizio di storage, dall’altro ha acquisito Loom, azienda specializzata nel cloud storage di foto e video.
Come spiegato dai fondatori di Loom nel post sopra linkato, la loro soluzione per la gestione, organizzazione ed archiviazione andrà ad integrarsi proprio con Carousel che, a questo punto, è opportuno descrivere per sommi capi: in breve si tratta di un applicazione che organizza e dispone in ordine cronologico lungo una timeline (un po’ come fa ThisLife) tutte le foto presenti nel dispositivo in cui l’applicazione stessa viene installata, facendone nel contempo il back-up in automatico sui propri server.
In sostanza le nostre foto finiscono su Dropbox e Carousel diventa la via più agevole per visualizzarle e gestirle; a riguardo va precisato che di default le foto sono private ma in realtà ne viene fortemente incentivata la condivisione: sia che si tratti di inviare ad amici foto che ci appartengono o al contrario di aggiungere al nostro album foto arrivateci da un nostro amico, basta un semplice swipe verso l’alto o verso il basso!
Inoltre una volta che si condivide una foto con un amico si avvia in automatico una chat: anche in questo caso l’intento è chiaro, ovvero dare un’anima social, sull’esempio di Instagram o Snapchat, a quello che rischia altrimenti di restare uno sterile (leggasi: meno remunerativo) “contenitore”.

Ma le novità introdotte da Dropbox sono importanti soprattutto perché emblematiche di alcune dinamiche che, a mio parere, nei mesi e negli anni a venire si faranno sempre più nitide.
La prima, testimoniata appieno dall’acquisizione di Loom, è che i video rappresenteranno, nel prossimo futuro, l’oggetto della disfida.
La seconda, molto più interessante da analizzare anche perché dalle maggiori implicazioni “archivistiche”, è la progressiva divergenza (o, se si preferisce, specializzazione) che si sta verificando tra i vari servizi che consentono l’archiviazione di foto sulla cloud: se da una parte vi sono quelli dedicati ad un uso principalmente personale e dall’altra quelli con una vocazione più spiccatamente pubblica, nel mezzo vi stanno una molteplicità di servizi che, pur facendo altro, non disdegnano di sfruttare l’appeal delle foto.
Tra questi ultimi come non citare Twitter il quale, nato come servizio per l’invio di sms, ha poi virato verso il microblogging ed ha infine aperto alle foto, trovando nei celeberrimi selfie (vero e proprio simbolo di quel desiderio di apparire di cui parlavo sopra) uno dei suoi punti di forza?
Specializzato nei selfie è anche Instagram, applicazione che diversamente da Twitter ruota completamente attorno alle foto ed alla possibilità di ritoccarle applicandovi filtri (feature che ne ha decretato il successo planetario, n.d.r.) e che rappresenta il degno campione del primo gruppo. Va però osservato che in Instagram, diversamente dal neonato Carousel, la dimensione pubblica delle foto (“public by default) è spiccata e con essa, ovvia conseguenza, l’anima social (laddove in Carousel, come già sottolineato, la condivisione è più controllata e ristretta).

Ma al di là delle ovvie differenze è indiscutibile che tutti i servizi appena descritti sono accomunati dall’essere stati concepiti e realizzati per un uso personale (con terminologia archivistica potremmo categorizzarli come “archivi fotografici digitali di persona”), in contrasto cioè con l’altro gruppo di servizi cui si accennava sopra e che, peraltro a partire da basi simili, sta seguendo un percorso per certi versi opposto.
Il modello in questo caso è rappresentato da Flickr il quale, nato come servizio per pubblicare online le proprie foto, solo in un secondo momento (con un ritardo che peraltro si stava per rivelare fatale, n.d.r.) si è dotato di un’applicazione per dispositivi mobili; se questo passo si è reso necessario per reggere il passo della concorrenza e delle nuove modalità di scattare fotografie (operazione che avviene sempre meno con fotocamere professionali e sempre più con dispositivi quali smartphone, tablet od al più con macchine ibride come la Samsung Galaxy Camera), tamponando nel contempo la preoccupante emorragia di utenti, credo che l’aspetto più interessante della storia recente di Flickr stia non tanto nel suo strizzare l’occhio ai social network (come appare evidente non appena si apre la nuova release dell’applicazione per dispositivi mobili o dal profondo restyling di cui è stato oggetto il sito) bensì agli enormi passi fatti da iniziative quali The commons.
Avviata nel 2008 come collaborazione con la Library of Congress e successivamente aperta ad altre istituzioni, essa si prefigge di condividere ed incrementare l’accesso ai tesori nascosti provenienti dagli archivi fotografici pubblici nel mondo; l’elenco oramai è lungo e vede tra gli altri la partecipazione di numerosi archivi e biblioteche, pubblici e privati. Uno degli aspetti più interessanti del progetto è che di ciascun “fornitore” vengono forniti i relativi termini di utilizzo nei quali, come suggerito dal nome del progetto, predominano le licenze d’utilizzo di tipo Creative Commons e varianti: l’intento di favorire la conoscenza del patrimonio fotografico, ed eventualmente il suo riutilizzo e la rielaborazione, è evidente e con esso trova conferma la vocazione di Flickr a divenire “archivio fotografico pubblicamente accessibile”!
Certo, non sfugge come al CEO Marissa Mayer i conti importino eccome, e l’accordo stipulato con il celebre fornitore di stock e microstock Getty Image (sulla capacità di quest’ultima azienda di cavalcare lo tsunami della distribuzione online di foto, a suon di acquisizioni di prestigiosi archivi fotografici, tanto analogici quanto digitali e stravolgendo le tradizionali modalità di licensing, sarebbe da scrivere un altro post…) è lì a testimoniarlo, ma è inutile negare come Flickr si stia facendo carico di un ruolo e di una funzione tipicamente “pubblici”.

La cosa deve preoccuparci? Posto che la collaborazione tra pubblico e privato non deve essere demonizzata a priori, è inutile negare che tutto ciò che ruota attorno alle immagini susciti, per i motivi ampiamente esposti, gli appetiti delle varie aziende con tutto ciò che ne consegue.
Il problema, a mio avviso, è verificare la capacità che avranno i soggetti pubblici, inclusi gli archivi e le biblioteche, a mantenere la debita autonomia / indipendenza nei confronti degli attori privati nel momento in cui, dal punto di vista operativo, il fattore determinante sembra essere sempre più la “potenza di storage” che si è in grado di dispiegare (e la discesa nell’agone di Dropbox è in questo senso emblematica).
In quest’ultimo ambito, considerando il poco o nulla che viene fatto in quanto alla realizzazione di infrastrutture, non credo ci si debba creare grandi speranze. Del resto non molto meglio vanno le cose dal lato dei “contenuti”: da una parte infatti assistiamo alla “cessione del posseduto” (ovvero le collezioni e le raccolte fotografiche, digitali o digitalizzate), dall’altra i nuovi archivi si vanno formando direttamente sulle nuvole di proprietà delle medesime aziende alle quali “concediamo” le foto (a proposito, la nuova generazione di SD-Card ha il Wi-Fi integrato per effettuare immediatamente upload sulla nuvola).
Rebus sic stantibus crediamo davvero che gli archivi e le biblioteche possano recuperare posizioni?

Flickr offre un terabyte di spazio gratis (e la tentazione del cloud si insinua in tutti noi)


flickr di Zanastardust, su Flickr

flickr di Zanastardust, su Flickr

La notizia ha già ricevuto grande attenzione da parte di media, blog, etc. ma non posso ugualmente sottrarmi dal fare il mio modesto commento, non fosse altro perché mi ero già soffermato sugli archivi fotografici ai tempi del cloud computing in un post di qualche tempo fa.
Premesso che il restyling di Flickr si inserisce nel più amplio tentativo di risollevare le sorti di Yahoo! da parte della bionda CEO Marissa Mayer (di ieri la conferma dell’acquisizione di Tumblr a suon di miliardi), ciò che lascia sbalorditi è lo spazio messo gratuitamente a disposizione (ovviamente ci si becca la pubblicità, mentre in precedenza si imponeva un’autolimitazione per cui si visualizzavano solo le ultime 200 foto caricate; con la nuova tariffazione se non si vuole pubblicità occorre sborsare 50 dollari all’anno): un terabyte tondo tondo.
Una quantità enorme, specialmente considerando che gli altri servizi offrono gratuitamente storage sull’ordine delle decine di gigabyte; così grande che Flickr stessa ha inserito, nella pagina di presentazione delle novità introdotte, un apposito strumento per calcolare quante foto si possono caricare. Ed i risultati sono sbalorditivi: ipotizzando di scattare foto con risoluzione di 4 megapixel (un valore medio-basso per gli standard odierni) si possono caricare 873.813 foto; se si passa a 7 megapixel (il valore a cui lavorano i migliori smartphone in commercio e le fotocamere di fascia media) si possono caricare 499.321 foto, una al giorno per i prossimi 1368 anni! Anche se carichiamo foto da 16 megapixel il risultato è più che onorevole: 218.453 foto!
Appare evidente che una simile offerta di spazio è spudoratamente aggressiva: evidentemente la minaccia posta dall’accoppiata Facebook – Instagram era troppo grave (ne è la riprova il contestuale rilascio di una nuova app per Android, mentre quella per iPhone data a qualche mese fa) e serviva una risposta shock. Certo che essa risulta veramente “invitante” e credo sarà ben accolta non solo per fotografi “da smartphone” ma pure per fotoamatori e professionisti.
Ma al di là di tutto la vera riflessione da fare riguarda le prospettive degli archivi digitali di persona. Oramai i colossi dell’informatica dispongono di infrastrutture di storage capaci di sostenere offerte, come quella di Yahoo! – Flickr, fino a poco tempo fa semplicemente impensabili: oggi è toccato alle foto (relativamente pesanti), nel prossimo futuro sicuramente simili offerte riguarderanno tutte le tipologie di risorse digitali, inclusi ovviamente i “leggeri” documenti. Anche mettendo in conto l’aumento di “peso” cui andranno incontro le varie tipologie di risorse digitali possedute (le foto, giusto per stare in tema, sono più che raddoppiate negli ultimi due – tre anni), gli archivi sulla nuvola saranno ugualmente in grado di contenere, gratuitamente, pressoché l’intero archivio digitale di una persona. Ciò è positivo in quanto verrà meno quel pericolo, più volte sottolineato, di frammentazione / dispersione dell’archivio stesso anche se si continuerà a fare affidamento su infrastrutture di privati.
Personalmente, nell’attesa che qualche ente pubblico abbia il coraggio (oltre che ovviamente i mezzi) di proporsi in qualità di cloud service provider (neutro e terzo, ergo affidabile), rimango dell’opinione che gli archivi sulla nuvola restino, per i singoli cittadini, un utile mezzo di “diversificazione del rischio” che deve andare ad affiancare tutti gli altri supporti nei quali salviamo, precauzionalmente, i nostri documenti digitali.

PS Il mio auspicio di veder scendere attori pubblici nell’arena del cloud computing in qualità di provider forse un giorno si materializzerà ma nel frattempo dobbiamo registrare l’esatto contrario! Il nuovo Flickr ha una sezione, definita The Commons, in cui archivi e biblioteche di rilevanza internazionale (troviamo tra gli altri il Riksarkivet norvegese, la Royal Library danese, la National Library of Scotland, i National Archives britannici, etc.) contribuiscono, caricando foto distribuite in genere con licenza Creative Commons, all’ampliamento di quel già vasto archivio fotografico che è Flickr.

Società dell’immagine ed archivi fotografici digitali di persona

Who says archives are boring? (di Remco van Gastel, su Flickr)

Who says archives are boring?


INTRO

Nel corso degli ultimi decenni stuoli di studiosi hanno tentato di descrivere la società in cui viviamo etichettandola con aggettivi o formule ad effetto facilmente memorizzabili; se la maggior parte di queste definizioni si sono rivelate poco felici e sono ben presto finite nel dimenticatoio, è incontrovertibile che due di esse hanno resistito all’usura del tempo e si sono anzi progressivamente arricchite di ulteriori connotazioni. Mi riferisco in particolare all’idea di società dell’immagine e a quella, ad essa sempre più correlata, di società della comunicazione: infatti se nella prima l’apparire conta più dell’essere, è evidente che quest’apparire “reificato” in migliaia di foto, video, etc. non è fine a sé stesso ma trova un senso quando “comunicato” agli altri. In altri termini le odierne tecnologie di comunicazione ci mettono a disposizione strumenti (facilmente utilizzabili e che danno un “output” dal costo praticamente nullo per l’utente finale) che servono non tanto a tenere memoria di uno specifico fatto od evento (la vera ragione per cui macchine fotografiche, cineprese, etc. sono state in origine pensate e costruite) ma soprattutto a veicolare a terzi la nostra immagine, vera o costruita che sia.
Oltre ad assecondare il nostro naturale narcisismo vi è un ulteriore, decisivo aspetto che occorre evidenziare: nel momento in cui comunichiamo ad altri la nostra immagine, trasmettiamo anche il nostro stile di vita, i nostri gusti, le nostre preferenze di consumo (come vestiamo, cosa mangiamo, dove andiamo in vacanza, etc.): in altre parole nel momento stesso in cui facciamo vedere chi siamo = come appariamo facciamo anche vedere come spendiamo.
Non deve pertanto sorprendere il fatto che le principali società hi-tech d’oltreoceano, fiutando il business, possiedano o perlomeno controllino servizi di archiviazione e condivisione di foto e video (cito qui i vari Facebook / Instagram, Yahoo! / Flickr, Google / Picasa, Twitter ed entro certi termini HP / Snapfish, Photobucket, Dropbox, etc.), servizi attraverso i quali essi si contendono in una dura battaglia le immagini dei navigatori / clienti, le cui foto, parimenti agli altri dati digitali, finiscono nell’impalpabile (benché realissima) nuvola.

UN INTERESSANTE CASE HISTORY

L’ineluttabilità ed ampiezza di questo processo è confermato dal susseguirsi di operazioni di M&A (mergers & acquisitions) che talvolta finiscono in prima pagina (il caso più noto ha visto protagonista Facebook, la quale ha acquistato Instagram con un’operazione dal controvalore complessivo di quasi un miliardo di dollari) e tal’altre passano decisamente in sordina; è proprio un’operazione di questo secondo tipo, vale a dire la prospettata acquisizione (almeno dando credito a rumor d’oltreoceano, n.d.r.) di ThisLife, start-up per l’archiviazione e la condivisione di foto, da parte di Shutterfly, azienda che a sua volta fornisce servizi di stampa foto e creazione album, calendari, etc. a fornirmi un case history funzionale ad approfondire ulteriormente l’argomento rispetto a quanto già fatto nell’ultimo post pubblicato.
Le caratteristiche che rendono ThisLife così appetibile sono le seguenti:
1) in primo luogo con questo servizio è possibile importare, in automatico o in manuale, tutte le foto scattate e sparpagliate sui vari servizi (essenzialmente di photo sharing) ai quali siamo registrati / abbonati: Flickr, Picasa, Instagram, SmugMug e naturalmente gli immancabili Facebook e Twitter. Oltre che il “riversamento” dai vari servizi online è ovviamente consentito effettuare pure l’upload dal proprio PC: in questo modo è possibile creare sulla nuvola dei veri e propri album fotografici (ThisLife, come suggerisce il nome e la grafica del sito, punta decisamente su quelli di famiglia ma all’atto pratico possiamo caricarci di tutto)
2) una volta caricate, le foto vengono disposte lungo una timeline che si scorre orizzontalmente e che, di fatto, tende a ricostruire, scatto dopo scatto, avvenimento dopo avvenimento, un’intera vita; a rendere ancor più “circostanziata” la foto nello spazio e nel tempo è la possibilità di taggare luoghi ed eventuali persone immortalate (per gli utenti Pro è disponibile persino il riconoscimento facciale automatico)
3) condivisione (in tal modo rispondendo al succitato desiderio di “apparire” di gran parte delle persone) “controllata” delle proprie foto; infatti, diversamente da altri servizi analoghi, tanto la privacy policy quanto i Terms of Service appaiono da subito più equilibrati: in particolare non viene messa in discussione la titolarità sulle foto da parte del proprietario (ovvero colui che le carica, il quale nel momento in cui effettua l’upload dichiara esplicitamente di possederne anche i diritti) così come si dimostra un particolare riguardo per le foto ritraenti minori
4) corollario a questa impostazione è la chiara attenzione posta al tema della sicurezza; pur non assumendosi alcuna responsabilità in caso di perdita delle foto caricate (sic!) si promette di adottare (per quanto ragionevolmente possibile) le migliori soluzioni tecnologiche disponibili così come di far proprie le disposizioni di legge in materia. Non è dunque un caso se agli occhi dei creatori, i coniugi Matt ed Andrea Johnson, ThisLife rappresenta pure un valido modo per creare sulla nuvola una copia di sicurezza delle proprie foto preferite (a riguardo è da segnalare che proprio per considerazioni di “ridondanza” si può decidere di caricare più versioni della stessa foto, tanto un apposito algoritmo darà la preferenza, nella visualizzazione, a quella con la migliore risoluzione grafica).

I RISVOLTI ARCHIVISTICI

Se queste sono le principali caratteristiche “di funzionamento” di ThisLife, dal punto di vista archivistico questo servizio, che pure non è immune da gran parte dei difetti che notoriamente affliggono i servizi in cloud computing (assenza di controllo sui server che ospitano i dati => sulla loro localizzazione, sul tipo di soluzioni tecnologiche adottate e sulle procedure operative messe in atto; assenza di adeguato ristoro in caso di perdita dei dati; assenza di garanzie sulla continuità del servizio e via di questo passo), presenta delle innegabili novità:
1) nel momento in cui esso consente di recuperare (in automatico o meno) le foto sparpagliate tra i vari servizi presenti sulla nuvola esso finisce per ridare unitarietà ai nostri archivi fotografici (in opposizione alla frammentazione prima vigente); in altri termini ThisLife agisce come un “metacloud” specifico per le nostre foto (mentre ZeroPC, per chi si ricorda il mio post di qualche tempo fa, è più generalista)
2) la presenza di una timeline assicura (tendenzialmente) la presenza di un ordine cronologico alle foto caricate; alla sensazione di ordine contribuisce anche il contatore in basso a sinistra che aumenta di volta in volta che un “momento di vita” viene aggiunto (parlare di numero di protocollo è ovviamente una forzatura ma rende bene l’idea!)
3) la vocazione “familiare” del servizio è comprovata dal fatto che è possibile creare account condivisi (tra marito e moglie, fidanzato e fidanzata, etc.) in modo da far apparire assieme i rispettivi archivi fotografici; anche in questo caso il pensiero corre veloce, pur con i debiti distinguo, al caso degli archivi di famiglia ed alle loro tipiche peripezie (confluiti in archivi di altre famiglie od enti vuoi per matrimonio, vuoi per estinzione di un ramo della “casata”, vuoi per donazione, vuoi per qualsiasi altro accidente della Storia!)
4) il riconoscimento automatico dei volti (con “apposizione” del relativo tag) rappresenta un salto qualitativo nella modalità di creazione dei dati a corredo delle nostre foto che presenta rischi ed opportunità: a) tra i primi, come al solito, quelli inerenti alla tutela della privacy (in definitiva se una macchina è in grado di riconoscere il nostro volto significa che essa è in possesso dei relativi dati biometrici, con tutto ciò che ne consegue!) b) tra i secondi invece si potrebbero segnalare i possibili usi per finalità storiche: non solo gli storici del futuro (ammesso naturalmente che i dati siano leggibili…) potrebbero associare con maggior facilità nomi e cognomi ai volti presenti in una foto, ma anche quelli dei nostri giorni trarrebbero giovamento, nel momento in cui si procede alla digitalizzazione del patrimonio fotografico analogico e vi si inseriscono in automatico i dati identificativi delle persone fotografate, dalla possibilità di lavorare con foto di più facile “lettura”.

CONCLUSIONI

In questo post abbiamo visto come molteplici sono i motivi che ci spingono a “catturare immagini”: la volontà di tenere memoria di un fatto, il desiderio di apparire, la semplice disponibilità di device in grado di farlo ad un costo praticamente nullo… Abbiamo anche visto come le nostre immagini digitali prendono sempre più la via delle nuvole: gli archivi in the cloud infatti eccellono per flessibilità (permettono infatti al contempo di conservare e di condividere le proprie foto), accessibilità (teoricamente h24) e costi ragionevoli (fino alla completa gratuità); gli indubbi vantaggi non possono però far passare in secondo piano gli altrettanto evidenti svantaggi derivanti essenzialmente dal “mancato controllo” (privacy, proprietà, etc.).
Tenendo bene a mente questi poli opposti il case history presentato è dunque importante in quanto dimostra: 1) che alcuni servizi si stanno muovendo nella giusta direzione grazie all’applicazione, fosse anche involontaria, di principi riconducibili alla buona prassi archivistica b) l’importanza di avviare un dialogo (o perlomeno uno scambio) tra iniziative private e pubbliche: le prime ad esempio primeggiano per l’usabilità e piacevolezza della grafica ma peccano sotto il lato archivistico, le seconde al contrario sono dal punto di vista tecnico e della compliance legislativa ineccepibili ma perdono di vista il singolo cittadino, al quale spesso risultano troppo tecniche o ancor peggio non sono nemmeno destinate.
E’ quest’ultimo aspetto, e concludo, quello sul quale occorre velocemente agire: spesso gli archivi digitali di persona (fotografici e non) finiscono in posti “sbagliati” per il semplice motivo che mancano valide alternative. Se vogliamo garantire anche a questi archivi un futuro (nell’attesa che un domani venga valutata la loro rilevanza), dobbiamo fornire, attraverso un fecondo scambio di esperienze e, perché no, una vera e propria collaborazione “operativa” tra pubblico e privato, a tutti i cittadini (e non solo a poche fortunate istituzioni ed enti!) soluzioni di archiviazione adeguate.

Samsung Galaxy Camera ed i nuovi archivi fotografici

Samsung Galaxy Camera

Samsung Galaxy Camera

L’arrivo sugli scaffali dei principali negozi di informatica italiani della Samsung Galaxy Camera mi offre l’occasione per una veloce riflessione sullo stato degli archivi fotografici in questo cruciale momento di trapasso al digitale.
Prima però è opportuno presentare la nuova fotocamera digitale prodotta dallo chaebol sudcoreano dal momento che essa segna probabilmente un punto di rottura rispetto alle “macchinette fotografiche”, reflex o compatte che siano, sin qui realizzate. La Galaxy Camera infatti affianca ad un’ottica di tutto rispetto un altrettanto ricco lato software: attraverso lo schermo touch da 4,8 pollici è possibile interagire con il sistema operativo Android 4.1 Jelly Bean, ergo con tutte le applicazioni esistenti in questo ricchissimo ecosistema sia per il ritocco delle immagini stesse (cito qui il solo Instagram esclusivamente perché quello tra i più in voga del momento) sia per la loro immediata condivisione attraverso le proprie reti sociali. E quest’ultimo aspetto ci introduce alla vera novità della Galaxy Camera, vale a dire la presenza di connettività Wi-Fi e 3G la quale, si badi, ha un’utilità non solo, per così dire, “ludica” ma ne ha una molto più eminentemente pratica; a riprova del fatto che questa nuova fotocamera è fatta per restare sempre connessa (entrando a far parte a pieno titolo dell’Internet delle cose di cui tanto si parla), buona parte della memoria è allocata sulla cloud. A fronte di una memoria interna da 8 Giga (espandibile a 32 con scheda MicroSD / MicroSDHC) Samsung, che ha stretto un apposito accordo con Dropbox, ne mette a disposizione gratuitamente ben 50 sulla nuvola!
Il salto in avanti a mio modesto parere è netto e spiace che i puristi della fotografia abbiano perso di vista le novità di fondo fermandosi invece a rimarcare come, numeri alla mano, con i 549 euro necessari per aggiudicarsela si può comprare una reflex dalle caratteristiche tecniche (per quanto riguarda la sola ottica) decisamente superiori ed in definitiva bollando la Galaxy Camera come un costoso giocattolo che un “vero fotografo” mai si sognerebbe di usare.
Purtroppo mi pare che a costoro sfugga il non trascurabile dettaglio che oramai esiste un cospicuo numero di figure professionali (penso in special modo – ma non sono le uniche – a quelle legate al new journalism come blogger, live twitterer, storifyer senza dimenticare i più tradizionali giornalisti e fotoreporter free-lance!) che svolgono la loro attività attraverso l’uso di strumenti quali smartphone, tablet e per l’appunto foto/videocamere ai quali essi richiedono non tanto (o, per essere più precisi, non solo) le massime prestazioni possibili ma anche semplicità d’uso, affidabilità, poco ingombro… e naturalmente connettività.
Ma al di là dei risvolti di mercato la comparsa di device così concepiti ha naturalmente un impatto profondo sul modo in cui vengono a formarsi gli archivi fotografici digitali; cerchiamo di enucleare alcuni tra gli aspetti più rilevanti:
1) le foto digitali, prese come singularitas, divengono (paradossalmente) allo stesso tempo più instabili e “cangianti” rispetto alle parenti analogiche così come assai più “circostanziate” e ricche di informazioni. Alcuni semplici esempi presi dall’esperienza quotidiana rendono meglio l’uno e l’altro aspetto: mentre nel mondo analogico, trovandoci in presenza di un negativo e di un positivo fissati rispettivamente alla carta fotografica ed alla pellicola del rullino, le possibilità di “ritocchini” erano limitate ed opera perlopiù di esperti oggigiorno potenzialmente chiunque, attraverso appositi programmi (che partono dal livello amatoriale, dove consistono nell’applicazione di qualche filtro, ed arrivano ai programmi professionali per veri esperti), può alterarle. A fronte di questa possibilità praticamente universale di alterare la foto “originale”, si constata l’aumento della mole di dati che la corredano contribuendo a collocarla spazialmente e temporalmente: oramai di ogni foto scattata possiamo sapere in automatico non solo l’ora / data dello scatto e quale macchinetta abbiamo utilizzato ma persino il luogo in cui l’abbiamo fatta (georeferenziazione; per la Galaxy Camera tale dato verosimilmente deriva dall’incrocio dei segnali forniti dal Wi-Fi e dalla connessione cellualre) e chi abbiamo immortalato (in questo caso l’operazione di tagging avviene ancora in modo manuale). Insomma, una miniera di dati che, per inciso, qualora venissero resi anonimi e raggruppati in dataset e descritti con linguaggio RDF diventerebbero sicuramente utilissimi nell’ottica di un riuso all’insegna dei big (open) data! Del tutto opposta, ma purtroppo parimenti possibile, l’evenienza che di essi si faccia un uso “spavaldo” con palesi violazioni della privacy
2) l’instabilità è un tratto che caratterizza le fotografie digitali anche quando prese nel loro complesso, ossia nel loro essere “archivio”: questi ultimi infatti stanno seguendo, di supporto in supporto (CD-ROM, DVD, hard-disk, drive a stato solido, etc.), la stessa peregrinazione toccata in sorte a tutti gli altri tipi di file digitali ed ora stanno chiaramente prendendo la via della Nuvola, che come risaputo anche dal punto di vista tecnologico non è sicuramente infallibile (come provato, da ultimo, dall’uragano Sandy) né si può dire che una foto digitale sia molto più stabile delle ostiche pellicole in nitrato di cellulosa e meno bisognosa, negli anni, di pazienti cure! Insomma, la preservazione degli oggetti digitali e soprattutto la loro conservazione nel lungo periodo rimane un’incognita.
3) non lascia trascorrere sonni tranquilli neppure l’altro grande punto debole del modello cloud, ovvero quello attinente alla sfera legale e a quello, accennato poco sopra, della tutela della privacy; anzi, considerando l’elevata (ed immediata) sfruttabilità delle immagini, i rischi paiono essere persino superiori rispetto a quelli incombenti su altre tipologie di oggetti digitali! Instagram ad esempio, è notizia di questi giorni, dopo essere stata acquistata a suon di miliardi da Facebook ha annunciato la modifica unilaterale dei Termini di Servizio facendo paventare la possibilità di vendere a terzi le foto presenti nella piattaforma (peraltro senza assicurare alcun “ristoro” a chi quella foto l’ha caricata!) inclusa la possibilità di usarle all’interno di campagne pubblicitarie. Come prevedibile la notizia ha scatenato un putiferio tra gli utenti di Instagram, molti dei quali hanno annunciato di passare ad altri servizi come Flickr (qui in molti casi si tratterebbe di un ritorno…), Photobucket, Pinterest, Snapchat ed altri. Tra gli scontenti, a testimonianza dell’importanza che assumono questi archivi fotografici, pure National Geographic (la qualità dei cui reportage fotografici è universalmente riconosciuta), che conta sul network la bellezza di 660mila follower. Ovviamente Instagram è corsa ai ripari, ritrattando su tutta la linea ma oramai il danno era fatto, tanto più che molti utenti erano già indispettiti dalla cessazione del supporto a Twitter (fatto che risale invece alla settimana scorsa…). Insomma, la posta in palio attorno agli archivi fotografici del futuro prossimo venturo è elevata, come comprovato dal fatto che Twitter stesso ha reagito alla mossa di Instagram avviando il proprio servizio di hosting fotografico, dopo essersi appoggiato a lungo al citato Photobucket; se aggiungiamo che pure Flickr ha (ri)lanciato il guanto di sfida, mettendo a disposizione degli utenti (contestualmente al rilascio della sua nuova applicazione mobile) vari tool per ritoccare / modificare le foto, appare manifesto come sia in corso un autentico big game e spiace che anche in questo caso non esistano alternative pubbliche (o, perlomeno, frutto della collaborazione pubblico – privato) per chi vuole archiviare in modo sicuro le proprie foto.
Pare dunque, per concludere, segnato il destino degli archivi fotografici digitali: complice la proliferazione sul mercato di dispositivi connessi alla Rete capaci di scattare immagini (con la Galaxy Camera a rappresentare il punto più alto di questa “evoluzione”) e la presenza di operatori valutati milioni di dollari che realizzano applicazioni sulla nuvola per utenti sempre connessi e per organizzazioni che parimenti orientano sempre più il loro marketing (e talvolta il loro intero business) sulle nuove tecnologie, la loro destinazione finale è l’impalpabile cloud. Con tutto ciò che ne consegue, nel bene e nel male.