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Instagram in biblioteca

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Biblioteca Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)

Dell’utilizzo dei social network in archivi e biblioteche si parla e si scrive in lungo ed in largo: Facebook e Twitter, in particolare, sono tra gli strumenti che gli esperti indicano come i più efficaci, il primo (solo per enunciare i principali pregi) in virtù della enorme base di utenti e della possibilità di pubblicizzare e promuovere eventi inserendo foto, video, etc. a corredo, il secondo soprattutto per l’immediatezza e la rapidità d’uso derivante dai 140 caratteri massimi ma anche per la potenza dell’hashtag cancelletto (#) come aggregatore tematico.
Sulla scorta di queste considerazioni non stupisce che negli ultimi anni numerosi archivi e biblioteche abbiano attivato account istituzionali di questi ultimi due servizi mentre altri, che richiedono maggiore impegno e maggiori competenze tecniche (penso a Youtube) oppure che meglio si adattano a specifiche tipologie di istituti (penso di nuovo a Youtube per archivi contemporanei con importanti fondi audiovisivi o a Flickr per quegli archivi e quelle biblioteche che conservano ricche raccolte fotografiche), sono rimasti decisamente meno diffusi.
In questo panorama abbastanza nitido, in verità se vogliamo per certi versi quasi scontato, ritengo che un’anomalia ingiustificata sia rappresentata dallo scarso utilizzo di Instagram, il social network nato nel 2010 come app per dispositivi iOS (quindi in ambiente mobile, aspetto non secondario, e solo successivamente divenuta utilità da desktop PC!) e caratterizzato dalla possibilità di scattare foto con la fotocamera presente sul device in uso, applicandovi poi filtri in alta definizione e, aspetto non meno importante, di taggarle, di condividerle con amici e di commentarle.
Instagram, forte della sua base di 400 milioni di utenti attivi, oramai ha scalzato Twitter (fermo a quota 320) nelle preferenze di molti utenti: posto che i dati in circolazione vanno maneggiati con cautela (non bisogna infatti confondere utenti attivi con utenti registrati!), bisogna ammettere che i numeri sono netti, al punto che secondo molti il 2016 sarà l’anno di Instagram, il quale gode di un’appeal senza pari tra le giovani generazioni, stanche di Facebook.
Ma quali sono i punti di forza di Instagram, tali da averne hanno decretato il successo? Precisato che si tratta ovviamente anche di un fenomeno di moda (numerosissime sono le celebrità presenti in Isntagram con propri profili, seguiti da milioni di fan; n.d.r), è necessario riconoscerne le indubbie qualità che a mio avviso sono le seguenti: 1) punta sulle fotografie, ed in tempi di società dell’immagine non c’è miglior via per assicurarsi il successo 2) da Facebook riprende funzionalità quali i “Like” ed i commenti (con tanto di faccine in stile Whatsapp) 3) da Twitter copia il meccanismo dell’hashtag, a riguardo del quale va precisato come attualmente non vengano forniti trend topics elaborati sulla base delle parole chiave più utilizzate in un dato momento come fa Twitter; all’utente, man mano che li scrive, vengono semplicemente suggeriti tag “standardizzati” che risultano ugualmente fondamentali per creare quella trama di collegamenti tra le proprie foto e quelle postate da altri utenti ed etichettate con gli stessi termini 4) da Foursquare recupera il principio della georeferenziazione: in base al luogo in cui ci troviamo (= dove si trova il nostro smartphone), Instagram ci propone una serie di foto scattate nelle prossimità.
In sostanza Instagram ha fatto proprie quelle che sono le principali caratteristiche degli altri social network, fondendole sapientemente in un’unica app che, venendo a noi, sono convinto potrebbe dare molte “soddisfazioni” qualora utilizzata in ambito bibliotecario.
Del resto il nesso tra biblioteche e mondo dell’immagine/foto è forte non solo perché esse incentrano principalmente la propria attività su un oggetto, il libro, che è fruibile (perlomeno nella nostra epoca) in primis mediante la vista; lo è anche perché il libro stesso ha una valenza estetica (nella copertina, nelle miniature, nelle illustrazioni) tale da far apparire quasi spontaneo “fotografarlo”.
Non sto chiaramente scoprendo nulla: basta infatti scorrere i tweet di una qualsiasi biblioteca per rendersi conto che molti bibliotecari già lo fanno, a volte inconsapevolmente altre con lo scopo pratico di far conoscere le nuove accessioni. Il punto è che su Twitter esse si confondono in un mare di teneri gattini e cuccioli vari (purtroppo accade ancora!), di locandine di eventi, di avvisi, di adesioni a campagne di mobilitazione varie, etc.
In altri termini la fotografia, in Twitter, perde il proprio valore aggiunto; per contro su Instagram vi è la possibilità di inserirla in discorso / flusso narrativo dotato di un certo valore estetico (non me ne vogliano i fotografi di professione, ma effettivamente su Instagram ci sentiamo un po’ tutti artisti!) e soprattutto dotato di una coerenza interna e con la “social media strategy” definita dall’ente, senza peraltro che ciò (e qui sta il bello) precluda ulteriori, non previsti, percorsi.
Ad esempio, se clicchiamo sull’immagine della biblioteca del Centro de Arte Reina Sofia di Madrid pubblicata in questo post, ecco che finiamo sulla stessa foto caricata nel mio profilo Instagram; qui possiamo cliccare ulteriormente sull’hashtag #library e veder comparire alcune foto che ritraggono le più belle biblioteche al mondo oppure sull’hashtag #reinasofia, al quale sono associate foto scattate dagli altri utenti nelle quali ricorre sì il medesimo tag ma che hanno un soggetto completamente diverso dal mio. Ecco dunque che, partendo dalla foto di una biblioteca, scopro che al Reina Sofia è esposto il celebre Guernica di Pablo Picasso ma anche, attraverso un’altra foto, pure che è in corso una mostra temporanea su Constant Nieuwenhuys, personaggio poliedrico ed autore del libro New Babylon.
Appare evidente come Instagram, in pochi passaggi, sia stato in grado di farci compiere un viaggio tra diverse arti e discipline, fornendoci peraltro ulteriori spunti di lettura!
Le potenzialità dello strumento dunque ci sono tutte, resta da capire come sfruttarle al meglio; la palla, a questo punto, passa ai social media strategist, figure delle quali le biblioteche devono a mio avviso dotarsi (qualora ciò non fosse possibile, è necessario che i bibliotecari apprendano i rudimenti della materia), ed ai quali spetta il compito di inserire Instagram nella più vasta strategia comunicativa della biblioteca / dell’Ente, affiancando e non sostituendo gli altri social media.
A riguardo, pur non essendo un esperto, mi permetto di fornire alcuni semplici, finali, suggerimenti operativi: A) fatti salvi casi specifici, è auspicabile che le foto pubblicate su Instagram vengano condivise automaticamente anche sugli altri social network nei quali si è presenti; B) nel momento in cui dobbiamo decidere su cosa basare il nostro discorso narrativo, prenderei in considerazione i seguenti tre: 1) i libri (= le raccolte), 2) le sedi e 3) le persone (utenti / bibliotecari), ovvero i tre elementi che incidentalmente sono a fondamento della biblioteconomia e che, con le loro interconnessioni quotidiane, reali e virtuali, ne assicurano la vitalità.

Quale futuro per gli archivi digitali fotografici

Screenshot di Carousel

Screenshot di Carousel

Gli utenti di Dropbox della prima ora ricorderanno come inizialmente questo servizio fosse usato essenzialmente a fini di “archiviazione documentaria” pura, nel senso che ci si caricava soprattutto file di testo; solo in un secondo momento, grosso modo in parallelo all’incremento delle velocità di upload e download dei nostri dispositivi mobili (cosa resa possibile tecnicamente grazie alla realizzazione delle reti 3G e 4G – a loro volta alla portata di tutti grazie ai piani flat – così come dalla sempre più capillare diffusione di hotspot wifi), si è passati a caricarvi massicciamente file di dimensione sensibilmente più pesanti, quali foto e brevi video.
Infatti Dropbox, ben consapevole dei trend in atto e delle crescenti esigenze dei propri utenti, ha ben pensato di assecondarli ampliando progressivamente la sua gamma di servizi e, con essi, il suo settore d’affari. In particolare l’azienda di San Francisco ha sviluppato le sue applicazioni lungo due direttrici: da un lato assicurando ai sempre più numerosi utilizzatori un minimo di produttività (del tipo creare e salvare direttamente sulla cloud di Dropbox file di testo in formato .txt), dall’altro scommettendo forte sulle fotografia (inserendo ad esempio la funzionalità di upload automatico per le foto scattate con un device mobile).
Con tale mossa Dropbox cercava evidentemente di giocare d’anticipo e di preservare l’importante margine di vantaggio acquisito sulle varie Apple, Microsoft e Google (il cui Drive, per rendere l’idea, è arrivato sul mercato nell’aprile 2012, vale a dire ben quattro anni dopo!).
E che il grosso della partita si giochi proprio sul fronte delle foto non deve sorprendere: anche a voler rifuggire dalla sociologia spiccia e dai facili slogan, è un dato di fatto (e ne ho già scritto) che nella nostra società l’immagine conti e che scattare foto o, al contrario, farsi immortalare in fotografie sia una delle azioni più comuni, più facili ed al contempo più appaganti per il nostro ego.

Non deve dunque sorprendere se anche gli ultimi, importanti, annunci in casa Dropbox abbiano a che vedere con il mondo delle immagini. L’azienda californiana ha infatti da un lato lanciato Carousel, una app del tutto nuova ma che, come si vedrà a breve, è intimamente collegata al classico servizio di storage, dall’altro ha acquisito Loom, azienda specializzata nel cloud storage di foto e video.
Come spiegato dai fondatori di Loom nel post sopra linkato, la loro soluzione per la gestione, organizzazione ed archiviazione andrà ad integrarsi proprio con Carousel che, a questo punto, è opportuno descrivere per sommi capi: in breve si tratta di un applicazione che organizza e dispone in ordine cronologico lungo una timeline (un po’ come fa ThisLife) tutte le foto presenti nel dispositivo in cui l’applicazione stessa viene installata, facendone nel contempo il back-up in automatico sui propri server.
In sostanza le nostre foto finiscono su Dropbox e Carousel diventa la via più agevole per visualizzarle e gestirle; a riguardo va precisato che di default le foto sono private ma in realtà ne viene fortemente incentivata la condivisione: sia che si tratti di inviare ad amici foto che ci appartengono o al contrario di aggiungere al nostro album foto arrivateci da un nostro amico, basta un semplice swipe verso l’alto o verso il basso!
Inoltre una volta che si condivide una foto con un amico si avvia in automatico una chat: anche in questo caso l’intento è chiaro, ovvero dare un’anima social, sull’esempio di Instagram o Snapchat, a quello che rischia altrimenti di restare uno sterile (leggasi: meno remunerativo) “contenitore”.

Ma le novità introdotte da Dropbox sono importanti soprattutto perché emblematiche di alcune dinamiche che, a mio parere, nei mesi e negli anni a venire si faranno sempre più nitide.
La prima, testimoniata appieno dall’acquisizione di Loom, è che i video rappresenteranno, nel prossimo futuro, l’oggetto della disfida.
La seconda, molto più interessante da analizzare anche perché dalle maggiori implicazioni “archivistiche”, è la progressiva divergenza (o, se si preferisce, specializzazione) che si sta verificando tra i vari servizi che consentono l’archiviazione di foto sulla cloud: se da una parte vi sono quelli dedicati ad un uso principalmente personale e dall’altra quelli con una vocazione più spiccatamente pubblica, nel mezzo vi stanno una molteplicità di servizi che, pur facendo altro, non disdegnano di sfruttare l’appeal delle foto.
Tra questi ultimi come non citare Twitter il quale, nato come servizio per l’invio di sms, ha poi virato verso il microblogging ed ha infine aperto alle foto, trovando nei celeberrimi selfie (vero e proprio simbolo di quel desiderio di apparire di cui parlavo sopra) uno dei suoi punti di forza?
Specializzato nei selfie è anche Instagram, applicazione che diversamente da Twitter ruota completamente attorno alle foto ed alla possibilità di ritoccarle applicandovi filtri (feature che ne ha decretato il successo planetario, n.d.r.) e che rappresenta il degno campione del primo gruppo. Va però osservato che in Instagram, diversamente dal neonato Carousel, la dimensione pubblica delle foto (“public by default) è spiccata e con essa, ovvia conseguenza, l’anima social (laddove in Carousel, come già sottolineato, la condivisione è più controllata e ristretta).

Ma al di là delle ovvie differenze è indiscutibile che tutti i servizi appena descritti sono accomunati dall’essere stati concepiti e realizzati per un uso personale (con terminologia archivistica potremmo categorizzarli come “archivi fotografici digitali di persona”), in contrasto cioè con l’altro gruppo di servizi cui si accennava sopra e che, peraltro a partire da basi simili, sta seguendo un percorso per certi versi opposto.
Il modello in questo caso è rappresentato da Flickr il quale, nato come servizio per pubblicare online le proprie foto, solo in un secondo momento (con un ritardo che peraltro si stava per rivelare fatale, n.d.r.) si è dotato di un’applicazione per dispositivi mobili; se questo passo si è reso necessario per reggere il passo della concorrenza e delle nuove modalità di scattare fotografie (operazione che avviene sempre meno con fotocamere professionali e sempre più con dispositivi quali smartphone, tablet od al più con macchine ibride come la Samsung Galaxy Camera), tamponando nel contempo la preoccupante emorragia di utenti, credo che l’aspetto più interessante della storia recente di Flickr stia non tanto nel suo strizzare l’occhio ai social network (come appare evidente non appena si apre la nuova release dell’applicazione per dispositivi mobili o dal profondo restyling di cui è stato oggetto il sito) bensì agli enormi passi fatti da iniziative quali The commons.
Avviata nel 2008 come collaborazione con la Library of Congress e successivamente aperta ad altre istituzioni, essa si prefigge di condividere ed incrementare l’accesso ai tesori nascosti provenienti dagli archivi fotografici pubblici nel mondo; l’elenco oramai è lungo e vede tra gli altri la partecipazione di numerosi archivi e biblioteche, pubblici e privati. Uno degli aspetti più interessanti del progetto è che di ciascun “fornitore” vengono forniti i relativi termini di utilizzo nei quali, come suggerito dal nome del progetto, predominano le licenze d’utilizzo di tipo Creative Commons e varianti: l’intento di favorire la conoscenza del patrimonio fotografico, ed eventualmente il suo riutilizzo e la rielaborazione, è evidente e con esso trova conferma la vocazione di Flickr a divenire “archivio fotografico pubblicamente accessibile”!
Certo, non sfugge come al CEO Marissa Mayer i conti importino eccome, e l’accordo stipulato con il celebre fornitore di stock e microstock Getty Image (sulla capacità di quest’ultima azienda di cavalcare lo tsunami della distribuzione online di foto, a suon di acquisizioni di prestigiosi archivi fotografici, tanto analogici quanto digitali e stravolgendo le tradizionali modalità di licensing, sarebbe da scrivere un altro post…) è lì a testimoniarlo, ma è inutile negare come Flickr si stia facendo carico di un ruolo e di una funzione tipicamente “pubblici”.

La cosa deve preoccuparci? Posto che la collaborazione tra pubblico e privato non deve essere demonizzata a priori, è inutile negare che tutto ciò che ruota attorno alle immagini susciti, per i motivi ampiamente esposti, gli appetiti delle varie aziende con tutto ciò che ne consegue.
Il problema, a mio avviso, è verificare la capacità che avranno i soggetti pubblici, inclusi gli archivi e le biblioteche, a mantenere la debita autonomia / indipendenza nei confronti degli attori privati nel momento in cui, dal punto di vista operativo, il fattore determinante sembra essere sempre più la “potenza di storage” che si è in grado di dispiegare (e la discesa nell’agone di Dropbox è in questo senso emblematica).
In quest’ultimo ambito, considerando il poco o nulla che viene fatto in quanto alla realizzazione di infrastrutture, non credo ci si debba creare grandi speranze. Del resto non molto meglio vanno le cose dal lato dei “contenuti”: da una parte infatti assistiamo alla “cessione del posseduto” (ovvero le collezioni e le raccolte fotografiche, digitali o digitalizzate), dall’altra i nuovi archivi si vanno formando direttamente sulle nuvole di proprietà delle medesime aziende alle quali “concediamo” le foto (a proposito, la nuova generazione di SD-Card ha il Wi-Fi integrato per effettuare immediatamente upload sulla nuvola).
Rebus sic stantibus crediamo davvero che gli archivi e le biblioteche possano recuperare posizioni?

LinkedIn e la letteratura grigia

Outside Facebook Data Center di IntelFreePress, su Flickr

LinkedIn Logo di mariosundar, su Flickr

Sul perché LinkedIn possa ricoprire un notevole interesse per gli archivisti è abbastanza intuitivo: infatti anche questo servizio (che, per chi non lo conoscesse, consente agli iscritti, siano essi persone oppure aziende, di pubblicare sul web il proprio curriculum vitae e di replicare in modo virtuale la propria rete di contatti lavorativi), al pari di altri social network ben più diffusi (LinkedIn ad oggi conta “appena” 200 milioni di iscritti – traguardo tagliato il 9 gennaio scorso – ben lontano dunque dal miliardo circa di utenti attivi su Facebook e dagli oltre 500 di Twitter) sicuramente rappresenterà, qualora conservato per i posteri (un po’ come la Library of Congress sta facendo con i tweet), una preziosissima fonte di notizie ed informazioni.
Per quanto riguarda gli individui sono del parere che LinkedIn potrebbe risultare in assoluto una delle reti sociali più utili per i seguenti semplici motivi: a) ha contenuti formalizzati (i CV vengono inseriti in modo omogeneo) ed attendibili (diversamente da Facebook, su LinkedIn è più difficile bluffare dal momento che i nostri contatti possono in qualsiasi momento contestarci eventuali falsità relativamente agli studi ed alle posizioni di lavoro ricoperte) b) si rivolge a profili medio-alti potenzialmente assai “interessanti”, quali manager, imprenditori, appartenenti al mondo delle professioni (giornalisti, medici, avvocati, ingegneri e via dicendo). Non meno ricchi di informazioni sono i profili delle aziende presenti su LinkedIn: gli storici dell’economia ad esempio potrebbero trovarvi informazioni sugli organigrammi aziendali, sui membri dei board (con predecessori e successori), comunicati stampa, etc.
Seppur con tutte le cautele del caso appare dunque evidente come LinkedIn, per la sua intrinseca conformazione, vada tenuto d’occhio per gli utili apporti che può dare nei settori, giusto per usare una terminologia scientifica, degli archivi di persona e degli archivi d’impresa.
D’ora innanzi abbiamo però un ulteriore valido motivo per seguire con attenzione questo professional network: come preannunciato da Jeff Weiner, CEO della società, nel corso della presentazione dei dati relativi al quarto trimestre 2012, la scommessa per il 2013 è la valorizzazione del capitale intellettuale degli iscritti. Infatti, appoggiandosi anche alla piattaforma di Slideshare (piattaforma acquistata nel maggio 2012 che permette di pubblicare online slide, documenti, pdf così come di postare video e webinar), l’obiettivo è spingere gli iscritti a farsi notare (da potenziali datori di lavoro, soci, clienti, etc.) non solo per gli studi fatti o per la posizione di lavoro ricoperta, ma anche e soprattutto per il contributo in termini di know-how, di idee e di progetti che essi possono dare. Tali materiali, questo è il succo del discorso, possono fungere da vetrina per gli iscritti che li pubblicano e contribuiscono nel contempo ad accrescere il valore di LinkedIn stesso… per la serie “e vissero tutti felici e contenti”!
L’invito a pubblicare “contenuti” peraltro non è indirizzato solo ai singoli individui ma anche alle imprese: nel corso della medesima conference call Weiner ha annunciato che sono stati avviati colloqui con aziende di primissimo piano (si sono fatti nomi di Xerox e General Electric) affinché esse condividano la messe di pubblicazioni, studi, white paper redatti nel corso degli anni e talvolta mai resi pubblici.
Si tratta di un’iniziativa a mio avviso decisamente affascinante e meritoria dal momento che intende valorizzare quel materiale eterogeneo ed assai ostico da trattare noto agli addetti ai lavori come “letteratura grigia” ma che lascia nel contempo un po’ con l’amaro in bocca: per l’ennesima volta archivi e biblioteche (pubblici) sono stati relegati ai margini del flusso di informazioni e documenti che affolla il Web. Non è forse giunto il momento di darsi una svegliata?

La valenza “archivistica” dei social network. Alcune considerazioni

From Facebook: December 17, 2011 at 07:50AM

From Facebook: December 17, 2011 at 07:50AM di djwudi, su Flickr

Che gli italiani stravedano per i social network è cosa arcinota, ma che i social network stiano acquisendo ogni giorno di più una valenza “archivistica” (il termine rischia di essere fuorviante ma rende l’idea) è decisamente meno risaputo.
All’argomento mi ero avvicinato, con mille cautele e precauzionale uso del condizionale, già in Archivi e biblioteche tra le nuvole: in esso sostenevo che a) sotto alcune condizioni (in particolare facevo presente come fosse necessario effettuare una sorta di lavoro di “esegesi delle fonti”), alcuni social network erano per certi versi considerabili come i moderni archivi di persona b) per molti enti ed organizzazioni, tanto pubblici quanto privati, essi venivano a ricoprire un ruolo strumentale (nel senso proprio del termine) tale da renderli contemporaneamente mezzi e fonti di informazioni, notizie e documenti.
Ebbene, a distanza di nemmeno un anno queste mie affermazioni sembrano essere state persino troppo moderate!
Facciamo una rapida carrellata della situazione attuale per trarre in un secondo momento alcune necessariamente provvisorie conclusioni.
Alcuni social network mantengono la loro rilevanza in quanto “meri contenitori” di informazioni: è il caso di LinkedIn, rete sociale nella quale gli iscritti pubblicano i loro curriculum vitae (studi, esperienze lavorative, posizioni e ruoli ricoperti, etc.) e ricreano la propria rete di contatti in ambito lavorativo. Se lo scopo immediato è quello di relazionarsi con potenziali datori di lavoro o colleghi per intraprendere assieme un business, inutile dire che tali e tanti sono i profili accessibili (la registrazione è gratuita, ma sottoscrivendo l’account premium si possono sfruttare alcune funzionalità addizionali) che si possono ricostruire intere carriere di milioni di persone così come, per i più volenterosi, gli organigrammi passati e presenti di centinaia di migliaia di aziende.
Se LinkedIn “batte” sulle persone, Mendeley invece punta moltissimo sulla qualità dei documenti e sul target elevato dei suoi utilizzatori, moltissimi dei quali appartengono alla comunità accademica; Mendeley infatti consente all’utente di caricare i propri documenti in pdf (poniamo una ricerca sul diabete), effettuare sottolineature ed annotazioni che possono essere condivise con altre persone (ipotizziamo gli appartenenti ad un gruppo di ricerca ristretto su questa malattia oppure un gruppo tematico esistente su Mendeley), sottoporre il proprio lavoro ad una sorta di peer review, generare citazioni e bibliografie a partire dalla ricca base di dati a disposizione ed ovviamente salvare la propria attività in locale con backup automatico sulla nuvola (il che lo rende disponibile sempre e su qualsiasi dispositivo). Sebbene ad oggi la stragrande maggioranza dei documenti presenti sia di carattere scientifico, non è da escludere che in futuro questo servizio, sorta di ibrido tra archivio / biblioteca personale e gruppo di lavoro online, venga usato per creare documenti di rilevanza pubblica (mi vien in mente, giusto per fare un esempio, la prassi sempre più diffusa di sottoporre ad una “revisione” pubblica disegni di legge, bozze di regolamenti, etc.).
Affianco a questo uso dei social network in quanto “giacimenti di informazioni” permane quello che li considera (non a torto) strumenti propedeutici all’attività istituzionale: da manuale il caso di Twitter, il quale annovera tra i suoi tweeter non solo privati cittadini ma anche politici, enti pubblici ed aziende. I cinguettii di questi ultimi si affiancano in tutto e per tutto ai tradizionali comunicati stampa “unidirezionali” ed in quanto tali andrebbero conservati così come conserviamo i corrispettivi cartacei (conscia dell’importanza di alcuni tweet da quasi due anni la Library of Congress conserva tutti i cinguettii lanciati nel mondo; se sul merito sono d’accordo, sul metodo – conservazione indiscriminata dell’intero archivio – nutro più di un dubbio). Per inciso l’uso di Twitter da parte di personalità pubbliche crea casi ibridi decisamente interessanti (e problematici): l’attuale Ministro degli Affari Esteri italiano, Giulio Terzi di Sant’Agata, ha un suo profilo personale (non legato dunque alla carica che ricopre) dal quale però lancia tweet inerenti al suo incarico i quali di norma anticipano nel contenuto un successivo comunicato stampa od una nota ufficiale rilasciata dalla Farnesina ma che talvolta non sono seguiti da alcuna comunicazione ministeriale e pertanto devono essere considerati come opinioni personali dello stesso.
Frutto del medesimo approccio “strumentale” è quanto fatto dalla Direzione Generale per gli Archivi (DGA) con il suo canale YouTube, nel quale sono caricati VHS digitalizzati provenienti da diversi archivi italiani: se da un lato con ciò si ribadisce la volontà della pubblica amministrazione di andare dai cittadini là dove questi trascorrono gran parte del loro tempo, dall’altro c’è da interrogarsi sulla natura di quell’archivio “parallelo” (peraltro frutto di una operazione di selezione che archivisticamente parlando può sollevare qualche perplessità) che viene a crearsi su YouTube e soprattutto sulla natura di YouTube stesso, che allontanandosi dal suo motto Broadcast Yourself sembra tornare alle origini allorquando la parola d’ordine era “L’archivio digitale dei tuoi video”: ed è innegabile che in esso, seppur in modo accidentale, venga a formarsi un formidabile “archivio” di video alla portata di click di ciascun cittadino.
Una funzione analoga a YouTube è svolta, per quanto riguarda la foto, da Flickr e dall’astro nascente Pinterest, nei quali fotografi professionisti, architetti, designer, etc. caricano, condividono e conservano le proprie creazioni: anche in questo caso c’è da chiedersi (provocatoriamente) se questi servizi possano rappresentare gli Archivi Alinari del futuro.
Finisco questa carrellata con quello che è universalmente riconosciuto come il principe dei social network, Facebook: nato come servizio che consente alle persone di rimanere in contatto con i propri amici ha successivamente aperto le porte, per motivi di business, anche alle aziende ed alle organizzazioni. Di particolare rilevanza ai fini del discorso che sto qui facendo la nuova funzionalità Timeline: in pratica chiunque abbia un profilo può inserire, lungo una linea del tempo digitale, foto, eventi, video, etc. relativi a fatti accaduti in quel determinato momento. In tal modo un’intera vita può essere ricostruita e “postata”; se per la maggior parte degli utenti si tratterebbe di un’operazione ex post, per un’azienda fondata oggi o per un neonato (in tal caso il profilo ovviamente sarebbe gestito da un genitore; cercate, su FB ci sono già i primi esempi) è tecnicamente possibile riempire questa linea del tempo praticamente in real time al punto che, tra venti o trent’anni, potremmo essere in grado di ripercorrere un’intera esistenza giorno per giorno. Insomma, ci avviciniamo passo dopo passo al concetto una volta fantascientifico di vita digitale!
Ma tornando più sul concreto, le applicazioni pratiche di Facebook Timeline sono particolarmente interessanti per quanto riguarda il versante delle aziende / organizzazioni: sui principali quotidiani è ad esempio circolato il caso di Coca Cola Company la quale ha postato la foto del suo fondatore ed immagini delle prime bottiglie di questa famosa bibita recuperate dal proprio archivio d’impresa. Ancor più ricca di contenuti, a mio avviso, la pagina dell’US Army (per accedervi bisogna essere registrati a FB): dal 1775, anno della Dichiarazione d’Indipendenza ai giorni nostri, la storia dell’esercito è ricostruita attraverso foto, documenti e video molti dei quali provenienti dai National Archives. Una caratteristica molto affascinante è che man mano che ci si avvicina ai giorni nostri i contributi sono sempre più abbondanti e “fitti” fino a diventare pressoché minuto per minuto, con post da ogni parte del mondo e riferimenti ai più svariati reparti, da quelli impiegati in teatri operativi a quelli della Guardia Nazionale!
Giunti al termine di questa giocoforza rapida carrellata, mi sembra che si possa affermare che il rapporto archivi / social network, nella duplice funzione di “utile strumento” e “deposito di documenti digitali”, sia più vivo che mai e proprio per questo non vada affatto trascurato ma anzi seguito con attenzione nella sua evoluzione futura.

Social network, privacy ed archivi

Graphs & Social Networks: Facebook Group Social Graph (Gephi)

Graphs & Social Networks: Facebook Group Social Graph (Gephi) di sociomantic

Il successo dei vari social network, da Facebook a Twitter, da LinkedIn ad aNobii, è così travolgente che non è nemmeno più il caso di spendere parole.
Quasi tutti noi ci cimentiamo quotidianamente in attività più o meno eroiche quali postare il nostro stato d’animo, pubblicare la foto del nostro cane, twittare un articolo reputato interessante e via di questo passo.
Una parte sempre più cospicua di queste azioni le compiamo nel corso della nostra giornata lavorativa, talvolta usando una serie di dispositivi tecnologici non di nostra proprietà ma bensì dell’organizzazione presso la quale siamo impiegati: desktop-PC, cellulari, smartphone, portatili, tablet. Talvolta si tratta di comportamenti fatti in modo “furtivo” senza il beneplacito dei nostri datori di lavoro, tal’altra siamo da questi ultimi direttamente incentivati al fine di sviluppare la dimensione (o quanto meno l’immagine) “sociale” della stessa. Nel primo caso il nostro operato, oggettivamente censurabile, può quanto meno provocarci una reprimenda ma può tranquillamente sfociare in sanzioni disciplinari fino al licenziamento (specie se ci lasciamo andare a commenti poco lusinghieri nei confronti dell’organizzazione cui apparteniamo!); nel secondo caso, al contrario, gli stessi account con i quali ci presentiamo e ci facciamo conoscere in Rete comunicano chiaramente agli altri utenti chi siamo e cosa facciamo e proprio in virtù di questo ruolo di “rappresentanti dell’azienda” ci è richiesto di mantenere un profilo in linea con quella che è l’immagine che la nostra organizzazione vuol trasmettere.
Che ci troviamo nel primo o nel secondo dei casi, l’organizzazione cui apparteniamo è spinta a “sorvegliare” la nostra attività; i motivi di questa “pulsione” sono molteplici: 1) di sicurezza (potremmo più o meno consapevolmente mettere in circolazione informazioni riservate) 2) economici (dal danno causato dalla “mancata prestazione” perché il dipendente trascorre il suo tempo a chattare anziché lavorare al caso opposto dell’ex collaboratore che si tiene la rete di contatti instaurata per conto dell’azienda; recente la causa intentata da un’azienda statunitense contro un suo ex lavoratore che le ha fatto un simile colpo gobbo e che ha valutato l’account Twitter con 17mila follower la bellezza di 340mila dollari) 3) di immagine / brand management (vigilare che il flusso di comunicazioni ed informazioni in uscita crei un feedback positivo; che poi quest’insieme di informazioni e comunicazioni possano essere sfruttati anche in chiave di business e di knowledge management tanto meglio!).
Questo compito di “sorveglianza” però è reso difficoltoso dalla notevole frammentazione in termini di device (= di strumenti di creazione) e di servizi (vale a dire, dei diversi social network di volta in volta usati); proprio per aiutare ad assolvere questa “mission” e a venir incontro a quest’insieme eterogeneo di esigenze talvolta contrastanti sono state fondate numerose aziende (una è Smarsh) che offrono servizi di social media archiving: in pratica è possibile definire il livello di accesso dei propri impiegati ai social network, stabilire quali funzionalità attivare nonché controllare preventivamente se quanto viene scritto è in linea con la propria policy. Il tutto viene indicizzato ed archiviato in data center geograficamente distinti (dal punto di vista tecnologico le soluzioni di archiviazione spaziano dai dischi WORM al cloud computing; la citata Smash ad esempio usa il primo per i messaggi su social network o l’instant messaging il secondo per mail ed sms).
Il ricorso a siffatti servizi, se da una parte è comprensibile, dall’altra proprio per la “promiscuità” intrinseca nello “strumento social network” (con una talvolta inscindibile compresenza di dimensione privata e dimensione pubblica), solleva a mio avviso una duplice preoccupazione per quanto attiene la tutela della privacy: in primo luogo quella relativa all’ingerenza nella sfera personale del proprio datore di lavoro, in secondo luogo quella (comune a tutti i servizi di storage sulla nuvola) relativa alla sicurezza dei dati / informazioni affidati a terzi.
Insomma l’ennesima riprova di come il modello del cloud computing presenti ancora lati oscuri e vada implementato con la massima cautela; nel frattempo IDC ha recentemente stimato che a livello globale i proventi del “message and social media archiving” saliranno dal miliardo di dollari del 2011 agli oltre 2 del 2015. Previsioni più che positive che non lasciano dubbi su quale sia la direzione verso cui stiamo andando: un futuro sempre connesso che se da un lato ci offrirà opportunità impensabili fino a pochi anni fa dall’altro “traccerà” ogni istante delle nostre vite e forse ci renderà un po’ meno liberi.

Per la versione su Storify di questo articolo cliccate qui.

In libreria “Archivi e biblioteche tra le nuvole”

"Archivi e biblioteche tra le nuvole" (front cover)

Come preannunciato nel precedente post ho pubblicato un libro su cloud computing e dintorni.
In particolare parlo delle sue applicazioni in ambito archivistico e bibliotecario in sinergia con la diffusione dei nuovi mobile device, il che mi porta ad approfondire temi quali il social reading / networking, il fenomeno dello storage sulla nuvola e tutti i connessi problemi di privacy.