In un momento di crisi economica qual è l’attuale è frequente sentire discorsi del tipo: “i tagli riguardano tutti ed è normale che anche la cultura sia colpita” o al contrario “no, la cultura è la principale ricchezza del paese ed è esattamente questo il momento per investirci”. Sebbene il sottoscritto abbracci in toto la seconda delle due (tra l’altro sono in compagnia di fior di economisti; si veda a riguardo l’iniziativa lanciata dal Sole 24 Ore, principale quotidiano economico italiano), alla luce della lettura dell’articolo Queda en cibercafé la Megabiblioteca Vasconcelos en el DF, mi chiedo e chiedo provocatoriamente: ma siamo davvero sicuri che qualsiasi investimento in cultura sia davvero giustificato? i soldi spesi per realizzare una mega biblioteca come quella descritta nell’articolo rappresentano davvero un buon investimento?
I fatti, così come raccontati dall’estensore del pezzo, sono i seguenti: a sei anni dall’inaugurazione questa avveneristica biblioteca si sarebbe ridotta a mero cibercafé; certo, gli stanziamenti promessi per lo sviluppo delle collezioni non sono arrivati nelle cifre previste (2 milioni di pesos dal 2007 al 2011 a fronte dei 5 milioni annui ritenuti necessari) ma è altrettanto vero che i principali indicatori statistici non sono positivi: 1.714.228 accessi (di utenti; n.d.r.) nel 2011 a fronte di stime che prevedevano dai 4 ai 5 milioni annui, la metà quasi dei quali (735.000) vi si è recata per navigare in Internet. Non soddisfacenti nemmeno i dati sui prestiti: posto che appena il 4,7% dei visitatori (ovvero 81.275 persone) possiedono le credenziali (vale a dire, sono registrati per i servizi di prestito), i prestiti a domicilio sono stati solamente 355.391, cioè poco più di 4 libri a testa, mentre le letture in sala (non so esattamente come calcolate, essendo la biblioteca chiaramente a scaffale aperto) sono assommate a 495.105. Aggiungendo, ciliegina sulla torta, che la struttura presenta problemi di infiltrazioni d’acqua al settimo piano (motivo per cui si è dovuto procedere per ben due volte alla chiusura straordinaria della biblioteca) è evidente come il giudizio complessivo su quest’opera faraonica dall’astronomico costo di 98 milioni di dollari (questa la cifra inizialmente messa a bilancio, in realtà sono stati molti di più proprio per rimediare ai difetti strutturali di cui sopra) presenti molte ombre!
Astraendo dal caso specifico della Vasconcelos, il punto nodale è a mio parere il seguente: ha senso, in un mondo come quello attuale in cui i contenuti si vanno digitalizzando e l’accesso avverrà in maniera crescente da remoto attraverso i più disparati dispositivi, realizzare biblioteche colossali dai costi fissi di gestione immani? Prevedere chilometri lineari di scaffali che probabilmente mai verranno riempiti giacché gran parte dei libri verranno richiesti e fruiti esclusivamente in modalità digitale? Predisporre decine se non centinaia di postazioni Internet fisse quando oramai la navigazione avviene in mobilità?
Ovviamente no e questo vale per la Vasconcelos (tanto più che in Messico il compito di conservare la produzione nazionale spetta alla Biblioteca Nacional de México), per la “nostra” BEIC (qualora qualcuno abbia ancora intenzione di buttarci sopra soldi!) e per qualsiasi altro progetto che abbia lo scopo di assecondare le manie di grandeur del politico / potente di turno e gli interessi speculativi dei costruttori.
Il modo corretto di procedere è, al contrario, quello di effettuare una seria analisi preliminare del bacino di utenza e delle relative esigenze informative (intese qui in senso lato), calando il tutto nel contesto culturale, sociale e tecnologico. Se tale analisi fosse stata fatta, magari sarebbe saltato fuori che in una megalopoli come Città del Messico (quasi 20 milioni di abitanti considerando l’intera conurbazione) era più utile e conveniente creare strutture diffuse sul territorio (o potenziare le esistenti, non conosco nel dettaglio la realtà messicana) capaci di erogare servizi differenziati che trascendono il mero prestito librario. Qualcosa di affine, per intenderci, agli Idea store londinesi, nei quali oltre ai soliti libri, periodici, film e via discorrendo si organizzano corsi di lingua per i neo-immigrati, si danno informazioni tipo “sportello del cittadino”, espongono offerte di lavoro, forniscono notizie sui mezzi di trasporto, sulle iniziative delle associazioni locali, etc.
In definitiva è esattamente grazie a questa attenta analisi preliminare che ogni specifica realtà potrebbe individuare la propria “via alla biblioteca”; in Italia, ad esempio, le sfide poste dall’immigrazione sono diverse da quelle britanniche ed infatti, complice l’assenza di vere metropoli, non esistono quartieri interamente abitati da immigrati (con relativi noti problemi). Al contrario il modello che va per la maggiore è quello della città diffusa che storicamente affonda le sue radici nell’Italia dei Comuni, motivo che farebbe propendere per la realizzazione di strutture decentrate di medie dimensioni e capaci di offrire servizi calibrati sulle reali esigenze (attuali e future, espresse ed inespresse) della comunità di riferimento.
Alla luce di quanto esposto, mi azzarderei pertanto a sostenere che oggigiorno nel mondo, e a maggior ragione in Italia, NON c’è bisogno di realizzare grandi biblioteche (bastano ed avanzano le Nazionali Centrali) essendo le uniche strutture di una certa dimensione delle quali veramente c’è bisogno quelle informatiche, deputate a fungere da “punti di accumulo” delle risorse digitali che poi dovranno venir distribuite, in vista della loro fruizione attraverso molteplici piattaforme, ai vari client, siano essi biblioteche, istituzioni, etc. o gli utenti / cittadini stessi.
8 Mar