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Mendeley e Pulse, ovvero, quando quel che conta è il contenuto

Mendeley

Mendeley di AJC1, su Flickr

Evidentemente agli startupper la propria azienda sta a cuore fino ad un certo punto, nel senso che molti sembrano più interessati a farla crescere per poi venderla alla prima “offerta irrinunciabile” (salvo giustificare la vendita stessa come indispensabile per garantire un futuro florido) piuttosto che accompagnarla nel non sempre facile processo di crescita.
E’ proprio questa la sorte capitata in settimana, dopo insistenti rumor, a due aziende la cui attività riguarda in modo più o meno diretto archivi e biblioteche: la prima è la cessione di Mendeley al colosso editoriale Elsevier, la seconda quella di Pulse a LinkedIn.
L’acquisizione di Mendeley lascia un po’ l’amaro in bocca: su questa piattaforma (usata per generare citazioni e bibliografie, diffondere e condividere ricerche, creare gruppi di lavoro online su specifiche tematiche) la comunità accademica, già ai ferri corti con le case editrici ed il contestato sistema dell’impact factor, aveva scommesso forte e si può immaginare il disappunto e la sincera preoccupazione alla notizia che Mendeley finisce dritta dritta in pancia ad uno dei colossi dell’editoria mondiale!
E’ infatti evidente, in un mondo iperconnesso in cui i progetti di ricerca sono molteplici e spesso transnazionali, l’importanza di una piattaforma, possibilmente indipendente / neutra, che permetta di confrontare, scambiare e diffondere i rispettivi risultati! Viene dunque un po’ di rammarico a vedere che le biblioteche (universitarie in primis), che pure in fatto di organizzazione e disseminazione avrebbero qualcosa da dire, rimangono ai margini di quel processo di creazione che esse stesse, grazie alle risorse (bibliografiche e non) messe a disposizione, concorrono a produrre.
Analogo lo stato d’animo e le considerazioni che si possono fare riguardo alla seconda notizia: del fatto che LinkedIn fosse intenzionato a trasformarsi in un vero hub in cui aziende e professionisti non solo pubblicano i propri curricula, ricercano / offrono opportunità di lavoro ed estendono la propria rete di contatti ma anche nel quale pubblicano i propri lavori, paper interni, etc. ne avevo già dato conto in un precedente post. Con l’acquisizione di Pulse (piattaforma per la personalizzazione, selezione e condivisione delle notizie) viene messo un ulteriore tassello nella direzione, stando alle parole di Deep Nishar, di creare “[a] definitive professional publishing platform — where all professionals come to consume content and where publishers come to share their content”. In altre parole quando questa vision sarà realizzata su LinkedIn troveremo non solo letteratura grigia ma pure fresche ed altrettanto preziosissime informazioni!
Una linea di sviluppo indubbiamente interessante al punto che, sorvolando ora sul triste fatto che archivi e biblioteche sono tagliate fuori dai giochi, LinkedIn potrebbe divenire utile luogo di incontro pure per gli archivisti ed i bibliotecari: infatti, in parte perché costretti (la Pubblica Amministrazione non rappresenta più per i noti motivi lo sbocco professionale per eccellenza) in parte per precisa volontà di affermare lo statuto e la dignità delle rispettive professioni (ANAI ed AIB da anni si battono per ottenere il giusto riconoscimento), è in atto un profondo processo di professionalizzazione di questi che fino a qualche tempo fa erano piuttosto mestieri. Su LinkedIn dunque archivisti e bibliotecari, dove per inciso sono già presenti (qui per puro esempio il link ai “colleghi” della sezione Piemonte e Valle d’Aosta), potrebbero al pari di ingegneri, architetti, commerciali, esperti di marketing, etc. pubblicare il proprio CV, reperire offerte di lavoro, entrare in contatto con aziende ed enti, pubblicare articoli e saggi, leggere le principali novità di loro interesse! Si tratterebbe sicuramente di un interessante luogo di confronto e crescita professionale!
In conclusione, si può trarre un importante insegnamento generale dalle acquisizioni di Mendeley e Pulse: queste due società sono diventate appetibili rispettivamente per Elsevier e LinkedIn in quanto ricche di contenuti: sono questi ultimi, specialmente quando legati alle persone ed alle relative reti relazionali, a generare il vero valore aggiunto! Quest’ultimo infatti ha il pregio di essere infungibile e difficilmente imitabile e finisce per tradursi in un maggior valore complessivo (anche economico) dell’azienda. Ne consegue a cascata per i professional, tra i quali ascrivo pure archivisti e bibliotecari, la seguente lezione: puntare sulla sostanza e meno sui fronzoli (leggasi: titoli di studio e cariche ricoperte), curare il proprio profilo (dandogli valore magari attraverso la diffusione di parte delle proprie conoscenze) e la propria cerchia di “contatti” nella consapevolezza che tutto ciò può voler dire maggiori opportunità di lavoro. Lungo questa via dovrebbero muoversi pure archivisti e bibliotecari i quali sono indubbiamente ricchi di “contenuti” e dotati, direi quasi per vocazione, di capacità relazionali. Il che non può che essere motivo di speranza.

LinkedIn e la letteratura grigia

Outside Facebook Data Center di IntelFreePress, su Flickr

LinkedIn Logo di mariosundar, su Flickr

Sul perché LinkedIn possa ricoprire un notevole interesse per gli archivisti è abbastanza intuitivo: infatti anche questo servizio (che, per chi non lo conoscesse, consente agli iscritti, siano essi persone oppure aziende, di pubblicare sul web il proprio curriculum vitae e di replicare in modo virtuale la propria rete di contatti lavorativi), al pari di altri social network ben più diffusi (LinkedIn ad oggi conta “appena” 200 milioni di iscritti – traguardo tagliato il 9 gennaio scorso – ben lontano dunque dal miliardo circa di utenti attivi su Facebook e dagli oltre 500 di Twitter) sicuramente rappresenterà, qualora conservato per i posteri (un po’ come la Library of Congress sta facendo con i tweet), una preziosissima fonte di notizie ed informazioni.
Per quanto riguarda gli individui sono del parere che LinkedIn potrebbe risultare in assoluto una delle reti sociali più utili per i seguenti semplici motivi: a) ha contenuti formalizzati (i CV vengono inseriti in modo omogeneo) ed attendibili (diversamente da Facebook, su LinkedIn è più difficile bluffare dal momento che i nostri contatti possono in qualsiasi momento contestarci eventuali falsità relativamente agli studi ed alle posizioni di lavoro ricoperte) b) si rivolge a profili medio-alti potenzialmente assai “interessanti”, quali manager, imprenditori, appartenenti al mondo delle professioni (giornalisti, medici, avvocati, ingegneri e via dicendo). Non meno ricchi di informazioni sono i profili delle aziende presenti su LinkedIn: gli storici dell’economia ad esempio potrebbero trovarvi informazioni sugli organigrammi aziendali, sui membri dei board (con predecessori e successori), comunicati stampa, etc.
Seppur con tutte le cautele del caso appare dunque evidente come LinkedIn, per la sua intrinseca conformazione, vada tenuto d’occhio per gli utili apporti che può dare nei settori, giusto per usare una terminologia scientifica, degli archivi di persona e degli archivi d’impresa.
D’ora innanzi abbiamo però un ulteriore valido motivo per seguire con attenzione questo professional network: come preannunciato da Jeff Weiner, CEO della società, nel corso della presentazione dei dati relativi al quarto trimestre 2012, la scommessa per il 2013 è la valorizzazione del capitale intellettuale degli iscritti. Infatti, appoggiandosi anche alla piattaforma di Slideshare (piattaforma acquistata nel maggio 2012 che permette di pubblicare online slide, documenti, pdf così come di postare video e webinar), l’obiettivo è spingere gli iscritti a farsi notare (da potenziali datori di lavoro, soci, clienti, etc.) non solo per gli studi fatti o per la posizione di lavoro ricoperta, ma anche e soprattutto per il contributo in termini di know-how, di idee e di progetti che essi possono dare. Tali materiali, questo è il succo del discorso, possono fungere da vetrina per gli iscritti che li pubblicano e contribuiscono nel contempo ad accrescere il valore di LinkedIn stesso… per la serie “e vissero tutti felici e contenti”!
L’invito a pubblicare “contenuti” peraltro non è indirizzato solo ai singoli individui ma anche alle imprese: nel corso della medesima conference call Weiner ha annunciato che sono stati avviati colloqui con aziende di primissimo piano (si sono fatti nomi di Xerox e General Electric) affinché esse condividano la messe di pubblicazioni, studi, white paper redatti nel corso degli anni e talvolta mai resi pubblici.
Si tratta di un’iniziativa a mio avviso decisamente affascinante e meritoria dal momento che intende valorizzare quel materiale eterogeneo ed assai ostico da trattare noto agli addetti ai lavori come “letteratura grigia” ma che lascia nel contempo un po’ con l’amaro in bocca: per l’ennesima volta archivi e biblioteche (pubblici) sono stati relegati ai margini del flusso di informazioni e documenti che affolla il Web. Non è forse giunto il momento di darsi una svegliata?

La valenza “archivistica” dei social network. Alcune considerazioni

From Facebook: December 17, 2011 at 07:50AM

From Facebook: December 17, 2011 at 07:50AM di djwudi, su Flickr

Che gli italiani stravedano per i social network è cosa arcinota, ma che i social network stiano acquisendo ogni giorno di più una valenza “archivistica” (il termine rischia di essere fuorviante ma rende l’idea) è decisamente meno risaputo.
All’argomento mi ero avvicinato, con mille cautele e precauzionale uso del condizionale, già in Archivi e biblioteche tra le nuvole: in esso sostenevo che a) sotto alcune condizioni (in particolare facevo presente come fosse necessario effettuare una sorta di lavoro di “esegesi delle fonti”), alcuni social network erano per certi versi considerabili come i moderni archivi di persona b) per molti enti ed organizzazioni, tanto pubblici quanto privati, essi venivano a ricoprire un ruolo strumentale (nel senso proprio del termine) tale da renderli contemporaneamente mezzi e fonti di informazioni, notizie e documenti.
Ebbene, a distanza di nemmeno un anno queste mie affermazioni sembrano essere state persino troppo moderate!
Facciamo una rapida carrellata della situazione attuale per trarre in un secondo momento alcune necessariamente provvisorie conclusioni.
Alcuni social network mantengono la loro rilevanza in quanto “meri contenitori” di informazioni: è il caso di LinkedIn, rete sociale nella quale gli iscritti pubblicano i loro curriculum vitae (studi, esperienze lavorative, posizioni e ruoli ricoperti, etc.) e ricreano la propria rete di contatti in ambito lavorativo. Se lo scopo immediato è quello di relazionarsi con potenziali datori di lavoro o colleghi per intraprendere assieme un business, inutile dire che tali e tanti sono i profili accessibili (la registrazione è gratuita, ma sottoscrivendo l’account premium si possono sfruttare alcune funzionalità addizionali) che si possono ricostruire intere carriere di milioni di persone così come, per i più volenterosi, gli organigrammi passati e presenti di centinaia di migliaia di aziende.
Se LinkedIn “batte” sulle persone, Mendeley invece punta moltissimo sulla qualità dei documenti e sul target elevato dei suoi utilizzatori, moltissimi dei quali appartengono alla comunità accademica; Mendeley infatti consente all’utente di caricare i propri documenti in pdf (poniamo una ricerca sul diabete), effettuare sottolineature ed annotazioni che possono essere condivise con altre persone (ipotizziamo gli appartenenti ad un gruppo di ricerca ristretto su questa malattia oppure un gruppo tematico esistente su Mendeley), sottoporre il proprio lavoro ad una sorta di peer review, generare citazioni e bibliografie a partire dalla ricca base di dati a disposizione ed ovviamente salvare la propria attività in locale con backup automatico sulla nuvola (il che lo rende disponibile sempre e su qualsiasi dispositivo). Sebbene ad oggi la stragrande maggioranza dei documenti presenti sia di carattere scientifico, non è da escludere che in futuro questo servizio, sorta di ibrido tra archivio / biblioteca personale e gruppo di lavoro online, venga usato per creare documenti di rilevanza pubblica (mi vien in mente, giusto per fare un esempio, la prassi sempre più diffusa di sottoporre ad una “revisione” pubblica disegni di legge, bozze di regolamenti, etc.).
Affianco a questo uso dei social network in quanto “giacimenti di informazioni” permane quello che li considera (non a torto) strumenti propedeutici all’attività istituzionale: da manuale il caso di Twitter, il quale annovera tra i suoi tweeter non solo privati cittadini ma anche politici, enti pubblici ed aziende. I cinguettii di questi ultimi si affiancano in tutto e per tutto ai tradizionali comunicati stampa “unidirezionali” ed in quanto tali andrebbero conservati così come conserviamo i corrispettivi cartacei (conscia dell’importanza di alcuni tweet da quasi due anni la Library of Congress conserva tutti i cinguettii lanciati nel mondo; se sul merito sono d’accordo, sul metodo – conservazione indiscriminata dell’intero archivio – nutro più di un dubbio). Per inciso l’uso di Twitter da parte di personalità pubbliche crea casi ibridi decisamente interessanti (e problematici): l’attuale Ministro degli Affari Esteri italiano, Giulio Terzi di Sant’Agata, ha un suo profilo personale (non legato dunque alla carica che ricopre) dal quale però lancia tweet inerenti al suo incarico i quali di norma anticipano nel contenuto un successivo comunicato stampa od una nota ufficiale rilasciata dalla Farnesina ma che talvolta non sono seguiti da alcuna comunicazione ministeriale e pertanto devono essere considerati come opinioni personali dello stesso.
Frutto del medesimo approccio “strumentale” è quanto fatto dalla Direzione Generale per gli Archivi (DGA) con il suo canale YouTube, nel quale sono caricati VHS digitalizzati provenienti da diversi archivi italiani: se da un lato con ciò si ribadisce la volontà della pubblica amministrazione di andare dai cittadini là dove questi trascorrono gran parte del loro tempo, dall’altro c’è da interrogarsi sulla natura di quell’archivio “parallelo” (peraltro frutto di una operazione di selezione che archivisticamente parlando può sollevare qualche perplessità) che viene a crearsi su YouTube e soprattutto sulla natura di YouTube stesso, che allontanandosi dal suo motto Broadcast Yourself sembra tornare alle origini allorquando la parola d’ordine era “L’archivio digitale dei tuoi video”: ed è innegabile che in esso, seppur in modo accidentale, venga a formarsi un formidabile “archivio” di video alla portata di click di ciascun cittadino.
Una funzione analoga a YouTube è svolta, per quanto riguarda la foto, da Flickr e dall’astro nascente Pinterest, nei quali fotografi professionisti, architetti, designer, etc. caricano, condividono e conservano le proprie creazioni: anche in questo caso c’è da chiedersi (provocatoriamente) se questi servizi possano rappresentare gli Archivi Alinari del futuro.
Finisco questa carrellata con quello che è universalmente riconosciuto come il principe dei social network, Facebook: nato come servizio che consente alle persone di rimanere in contatto con i propri amici ha successivamente aperto le porte, per motivi di business, anche alle aziende ed alle organizzazioni. Di particolare rilevanza ai fini del discorso che sto qui facendo la nuova funzionalità Timeline: in pratica chiunque abbia un profilo può inserire, lungo una linea del tempo digitale, foto, eventi, video, etc. relativi a fatti accaduti in quel determinato momento. In tal modo un’intera vita può essere ricostruita e “postata”; se per la maggior parte degli utenti si tratterebbe di un’operazione ex post, per un’azienda fondata oggi o per un neonato (in tal caso il profilo ovviamente sarebbe gestito da un genitore; cercate, su FB ci sono già i primi esempi) è tecnicamente possibile riempire questa linea del tempo praticamente in real time al punto che, tra venti o trent’anni, potremmo essere in grado di ripercorrere un’intera esistenza giorno per giorno. Insomma, ci avviciniamo passo dopo passo al concetto una volta fantascientifico di vita digitale!
Ma tornando più sul concreto, le applicazioni pratiche di Facebook Timeline sono particolarmente interessanti per quanto riguarda il versante delle aziende / organizzazioni: sui principali quotidiani è ad esempio circolato il caso di Coca Cola Company la quale ha postato la foto del suo fondatore ed immagini delle prime bottiglie di questa famosa bibita recuperate dal proprio archivio d’impresa. Ancor più ricca di contenuti, a mio avviso, la pagina dell’US Army (per accedervi bisogna essere registrati a FB): dal 1775, anno della Dichiarazione d’Indipendenza ai giorni nostri, la storia dell’esercito è ricostruita attraverso foto, documenti e video molti dei quali provenienti dai National Archives. Una caratteristica molto affascinante è che man mano che ci si avvicina ai giorni nostri i contributi sono sempre più abbondanti e “fitti” fino a diventare pressoché minuto per minuto, con post da ogni parte del mondo e riferimenti ai più svariati reparti, da quelli impiegati in teatri operativi a quelli della Guardia Nazionale!
Giunti al termine di questa giocoforza rapida carrellata, mi sembra che si possa affermare che il rapporto archivi / social network, nella duplice funzione di “utile strumento” e “deposito di documenti digitali”, sia più vivo che mai e proprio per questo non vada affatto trascurato ma anzi seguito con attenzione nella sua evoluzione futura.

Social network, privacy ed archivi

Graphs & Social Networks: Facebook Group Social Graph (Gephi)

Graphs & Social Networks: Facebook Group Social Graph (Gephi) di sociomantic

Il successo dei vari social network, da Facebook a Twitter, da LinkedIn ad aNobii, è così travolgente che non è nemmeno più il caso di spendere parole.
Quasi tutti noi ci cimentiamo quotidianamente in attività più o meno eroiche quali postare il nostro stato d’animo, pubblicare la foto del nostro cane, twittare un articolo reputato interessante e via di questo passo.
Una parte sempre più cospicua di queste azioni le compiamo nel corso della nostra giornata lavorativa, talvolta usando una serie di dispositivi tecnologici non di nostra proprietà ma bensì dell’organizzazione presso la quale siamo impiegati: desktop-PC, cellulari, smartphone, portatili, tablet. Talvolta si tratta di comportamenti fatti in modo “furtivo” senza il beneplacito dei nostri datori di lavoro, tal’altra siamo da questi ultimi direttamente incentivati al fine di sviluppare la dimensione (o quanto meno l’immagine) “sociale” della stessa. Nel primo caso il nostro operato, oggettivamente censurabile, può quanto meno provocarci una reprimenda ma può tranquillamente sfociare in sanzioni disciplinari fino al licenziamento (specie se ci lasciamo andare a commenti poco lusinghieri nei confronti dell’organizzazione cui apparteniamo!); nel secondo caso, al contrario, gli stessi account con i quali ci presentiamo e ci facciamo conoscere in Rete comunicano chiaramente agli altri utenti chi siamo e cosa facciamo e proprio in virtù di questo ruolo di “rappresentanti dell’azienda” ci è richiesto di mantenere un profilo in linea con quella che è l’immagine che la nostra organizzazione vuol trasmettere.
Che ci troviamo nel primo o nel secondo dei casi, l’organizzazione cui apparteniamo è spinta a “sorvegliare” la nostra attività; i motivi di questa “pulsione” sono molteplici: 1) di sicurezza (potremmo più o meno consapevolmente mettere in circolazione informazioni riservate) 2) economici (dal danno causato dalla “mancata prestazione” perché il dipendente trascorre il suo tempo a chattare anziché lavorare al caso opposto dell’ex collaboratore che si tiene la rete di contatti instaurata per conto dell’azienda; recente la causa intentata da un’azienda statunitense contro un suo ex lavoratore che le ha fatto un simile colpo gobbo e che ha valutato l’account Twitter con 17mila follower la bellezza di 340mila dollari) 3) di immagine / brand management (vigilare che il flusso di comunicazioni ed informazioni in uscita crei un feedback positivo; che poi quest’insieme di informazioni e comunicazioni possano essere sfruttati anche in chiave di business e di knowledge management tanto meglio!).
Questo compito di “sorveglianza” però è reso difficoltoso dalla notevole frammentazione in termini di device (= di strumenti di creazione) e di servizi (vale a dire, dei diversi social network di volta in volta usati); proprio per aiutare ad assolvere questa “mission” e a venir incontro a quest’insieme eterogeneo di esigenze talvolta contrastanti sono state fondate numerose aziende (una è Smarsh) che offrono servizi di social media archiving: in pratica è possibile definire il livello di accesso dei propri impiegati ai social network, stabilire quali funzionalità attivare nonché controllare preventivamente se quanto viene scritto è in linea con la propria policy. Il tutto viene indicizzato ed archiviato in data center geograficamente distinti (dal punto di vista tecnologico le soluzioni di archiviazione spaziano dai dischi WORM al cloud computing; la citata Smash ad esempio usa il primo per i messaggi su social network o l’instant messaging il secondo per mail ed sms).
Il ricorso a siffatti servizi, se da una parte è comprensibile, dall’altra proprio per la “promiscuità” intrinseca nello “strumento social network” (con una talvolta inscindibile compresenza di dimensione privata e dimensione pubblica), solleva a mio avviso una duplice preoccupazione per quanto attiene la tutela della privacy: in primo luogo quella relativa all’ingerenza nella sfera personale del proprio datore di lavoro, in secondo luogo quella (comune a tutti i servizi di storage sulla nuvola) relativa alla sicurezza dei dati / informazioni affidati a terzi.
Insomma l’ennesima riprova di come il modello del cloud computing presenti ancora lati oscuri e vada implementato con la massima cautela; nel frattempo IDC ha recentemente stimato che a livello globale i proventi del “message and social media archiving” saliranno dal miliardo di dollari del 2011 agli oltre 2 del 2015. Previsioni più che positive che non lasciano dubbi su quale sia la direzione verso cui stiamo andando: un futuro sempre connesso che se da un lato ci offrirà opportunità impensabili fino a pochi anni fa dall’altro “traccerà” ogni istante delle nostre vite e forse ci renderà un po’ meno liberi.

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