Il potenziale inespresso di archivi e biblioteche (e la necessità di una maggior visibilità)

Dutch Institute for Picture & Sound (Hilversum, the Netherlands)

Dutch Institute for Picture & Sound (Hilversum, the Netherlands) by Frans Sellies, on Flickr

In un articolo apparso su Il Sole 24 Ore di qualche giorno fa vengono riportati i risultati di un interessante studio condotto dal CESTIT dell’Università di Bergamo nel quale si evidenziano gli ottimi risultati, in termini di vendite e di visibilità, ottenuti dalle sempre più numerose aziende vitivinicole che legano la propria immagine ed il proprio “prodotto” all’arte ed, in generale, alla cultura.

Si tratta, argomenta l’estensore dell’articolo, di un legame di vecchia data che si è declinato nel tempo secondo varie modalità: dalle performance artistiche nel vigneto alle cantine progettate dalle archistar, dal contributo di artisti e designer nell’elaborazione delle etichette delle bottiglie (ed in generale del packaging) alla creazione di collezioni d’arte stabili, fino al caso limite del finanziamento di interventi di restauro di opere antiche e/o beni culturali (a riguardo viene portato l’esempio del restauro del tempio di Selinunte).
Il ritorno di tali “politiche”, come anticipato, è lusinghiero: le aziende che hanno investito in un packaging e/o etichetta “artistica” percepiscono un aumento delle vendite del 40%, con una visibilità del marchio che sale in parallelo del 60%; quest’ultimo valore arriva al 92% in caso di investimenti in produzioni culturali e/o arti figurative ed addirittura al 100% qualora ci si sia impegnati nel restauro di beni culturali.
Trova dunque piena conferma l’assunto che l’arte, ma si può a buon diritto affermare la cultura tout court, possiede un notevole appeal, tale da renderla, qualora utilizzata con sapienza, efficacissimo strumento di marketing.

Vi starete a questo punto domandando qual è il nesso, in tutto questo discorso, con archivi e biblioteche; in effetti un collegamento diretto NON ESISTE, ed è proprio questa fragorosa assenza che dovrebbe indurci a porci qualche domanda sul perché queste particolari tipologie di beni culturali, benché dotate di enormi potenzialità, non riescano a suscitare un appeal non dico analogo, ma nemmeno paragonabile rispetto a quello riscosso, giusto per riprendere il contenuto dell’articolo che ha ispirato questo post, dalle arti figurative. Com’è possibile, giusto per dirne una, che il mondo dell’enologia/vitivinicoltura non cerchi “un aggancio” con gli archivi e le biblioteche nonostante questi ultimi, nel corso dell’Expò di Milano (come si ricorderà dedicato al tema dell’alimentazione), abbiano concretamente dimostrato di saper proporre interessanti itinerari “enogastronomici” tra le carte da essi conservate?

La risposta a tale domanda ovviamente non è univoca ma sono personalmente convinto, a costo di apparire riduttivo, che un elemento che gioca fortemente a discapito di archivi e biblioteche sia quello delle loro sedi.
Posto infatti che un’autentica e strutturata “politica edilizia” in Italia non c’è mai stata (fatto salvo il periodo fascista/razionalista per gli archivi e qualcosa negli anni Settanta dello scorso secolo per le biblioteche, in contemporanea con la creazione delle Regioni), questi istituti hanno sede nella rimanente, stragrande maggioranza dei casi all’interno di palazzi storici, spesso e volentieri di epoca medievale o al più moderna (un tour virtuale con Google Earth è sufficiente per farsi un’idea). Intendiamoci, non sto qui facendo l’equazione palazzo storico = antico = vecchio = brutto, in quanto non la condivido; sto semplicemente sostenendo che queste tipologie di sedi, per quanto ricche di fascino e trasudanti di storia, anche a voler sorvolare sugli oggettivi limiti funzionali (inevitabili, data l’epoca di progettazione, e del resto difficilmente superabili mediante restauro, dati i vincoli esistenti), sono nella maggior parte dei casi troppo solenni ed austere e, conseguentemente, non invogliano i cittadini ad entrare e men che meno a legare ad esse la propria immagine.

I sempre più frequenti casi di fondi archivistici che finiscono non, come sarebbe naturale e logico pensare, presso archivi bensì, per esplicita volontà dei loro produttori, presso fondazioni o musei, stanno lì a testimoniare questa scarsa “attrattività”. L’ulteriore constatazione che tali fondazioni e musei sono ospitati in edifici moderni ed avveniristici (ultimo episodio in ordine cronologico a far mugugnare gli archivisti è stato la donazione al MAXXI di Roma del proprio archivio da parte dell’architetto Paolo Portoghesi), a mio avviso conferma l’ipotesi sopra formulata.
Tra l’altro va precisato che non sono contrario a priori a questa “contaminazione” tra tipologie di beni culturali: il fatto che libri, quadri, archivi, sculture, installazioni digitali, etc. trovino sempre più spesso “ricovero” nel medesimo luogo fisico non è uno scandalo se a ciascuna tipologia viene riservato il corretto trattamento scientifico (fermo restando poi che in letteratura stiamo assistendo all’estensione del dialogo dal coordinamento MAB “a tre” – e che vede la partecipazione di musei, archivi e biblioteche – a quello allargato LAMMS, ovvero coinvolgente Libraries, Archives, Museums, Monuments & Sites!). Ciò non rappresenta uno scandalo tanto più in considerazione del fatto che non si tratta di una prima assoluta: storicamente infatti qualcosa di analogo, in Italia, è avvenuto nei decenni successivi all’Unità, allorquando documenti, libri e “memorabilia” legati a protagonisti del Risorgimento vennero raccolti e tenuti assieme a dispetto delle varie leggi, varate in quegli stessi anni, che ne disponevano l’assegnazione, a seconda dei casi, rispettivamente ad archivi, biblioteche e musei.

In sostanza dunque non critico il fenomeno in sé ma la sua unidirezionalità, la quale va tutta a discapito degli archivi ed, in subordine, delle biblioteche; in aggiunta a ciò mi “indispettisce” la motivazione di natura sostanzialmente “estetica” addotta per snobbare queste due tipologie di istituti. Sono peraltro del parere (ahimé!) che si tratti di una tendenza difficilmente invertibile giacché, nel caso di archivi e biblioteche, una mera operazione di restyling non è sufficiente: per quanto si tratti di un’azione da compiere a prescindere (in tal caso sono da prendere come riferimento non solo i modelli nordici, quali ad esempio il nuovissimo Astrup Fearnley Museet di Oslo od il Baltic Centre of Contemporary Art di Newcastle, ma anche il latino Reina Sofia di Madrid), i vincoli di natura logistica e “funzionale” ai quali soggiacciono archivi e biblioteche (penso in particolare alla necessità di disporre di enormi depositi e di adeguati spazi per movimentare i pezzi) a mio modo di vedere sono tali da rendere oggettivamente impari la sfida con gli altri istituti presenti nel settore dei beni culturali.
Giusto per intenderci, ritengo che nel prossimo futuro sarà sempre più frequente incappare in musei “potenziati” da snelli archivi e da centri di documentazione / biblioteche tematici piuttosto che in archivi, con la loro massa sterminata di documenti, ulteriormente “appesantiti” da corpose biblioteche e collezioni di varia natura.

Se dunque gli elementi di fondo sembrano giocare a sfavore di archivi e biblioteche, non mancano neppure i motivi di ottimismo. Questi ultimi si fondano soprattutto sulla constatazione di come, a fronte di contenitori che (per usare un eufemismo) spesso e volentieri “lasciano a desiderare”, il contenuto sia di prima qualità. Giusto a titolo esemplificativo sono da evidenziare i seguenti aspetti che, parzialmente riprendendo l’articolo giornalistico dal quale abbiamo preso spunto, rappresentano altrettanti punti di forza insiti nel materiale presente all’interno di archivi e biblioteche:

  • la capacità di ricostruire / ripercorrere / narrare la storia del territorio;

  • la capacità di ricostruire / ripercorrere / narrare la storia dei i marchi (e delle aziende e delle persone che ci stanno dietro);

  • la capacità, in generale, di raccontar storie / (hi)storytelling;

  • la presenza, specie negli archivi e nelle biblioteche del Novecento, di materiali audio / video / multimediali particolarmente adatti ad una loro rielaborazione e riutilizzo in chiave creativa.

  • In conclusione bisogna dunque riconoscere che il potenziale c’è anche se, nel contempo, bisogna ammettere che fintantoché non “piaciamo” alla gente (o meglio, fino a quando non riusciamo a farci piacere), è inutile sperare che a qualcuno importerà del nostro destino! Finiremo dunque tutti nel dimenticatoio, con sempre meno stanziamenti di fondi pubblici ed ancor meno donazioni di privati.
    Entreremo, in altri termini, in una spirale negativa che condurrà alla progressiva ghettizzazione di archivi e biblioteche, secondo un trend per larghi tratti già intuibile nel caso degli archivi: è infatti sempre più frequente che, per motivazioni economiche (leggasi costo dei locali), questi ultimi – specie quelli di deposito – finiscano in grigi “capannoni” edificati in località periferiche, difficilmente accessibili tanto dall’utenza interna quanto da quella interna e spesso privi di quella serie di servizi imprescindibili per assicurare un minimo di fruibilità. In questo senso va sottolineato con forza come il passaggio al digitale costituisce un duplice pericolo: la realizzazione dei data center, nei quali si accumulano gli archivi e le biblioteche digitali, da un lato rendono inutili, agli occhi degli utenti, le sedi fisiche, dall’altro spingono per una loro espulsione dai centri cittadini. Inutile dire che, allontanati dalla vista dei cittadini, privati di un qualsivoglia elemento di attrattività “estetica”, per gli archivi e per le biblioteche il futuro si farebbe più incerto che mai. Un ulteriore motivo per impegnarsi a fondo affinché gli archivi e le biblioteche abbiano, anche dal punto di vista “edilizio”, la necessaria visibilità.

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