Libero libro in libero mercato?

Kindle v Kobo

Kindle v Kobo di Antony Bennison, su Flickr

Nel corso del secondo appuntamento di Genova@ebook si è tornati a parlare delle modalità con cui gli autori (in caso di self-publishing) e gli editori promuovono i propri ebook.
Il tema non è nuovo ed era già stato affrontato al Salone del Libro di Torino, dove Sergio Covelli aveva descritto il suo personale modo di fare guerrilla marketing (dimostrando nel contempo come le classifiche di vendita siano manipolabili, complice il fatto che i numeri complessivi sono esigui), ovvero acquistando un tot numero di copie del suo stesso libro in modo da scalare le classifiche e farlo artificialmente apparire un best seller. Covelli, scherzosamente, aggiungeva che si era pure beccato qualche rimbrotto per queste sue pratiche, come definirle… borderline!
Ieri a Genova si è tornati in argomento: Marco Ghezzi di BookRepublic ha precisato come sia pratica diffusa quella di tenere prezzi bassi ed aggressivi in fase di lancio di un libro per alzarli in un secondo momento.
Premesso che anche nel mondo fisico si fanno prezzi di lancio allorquando si presenta un nuovo prodotto o al contrario prezzi di saldo quando si vogliono eliminare le scorte di magazzino, la mia opinione è che nel mondo digitale le cose siano un po’ più ingarbugliate ed alcune di queste pratiche siano al limite della manipolazione e mi sono premesso di sollevare via Twitter la questione ai relatori.
La risposta a grandi linee è stata che, senza per questo essere marxisti, è un dato di fatto che il libero mercato non esiste ma più concretamente esiste chi ha la possibilità di fare alcune cose e chi no.
Non sono così naif da credere che il libero mercato, concetto astratto teorizzato dagli economisti, si realizzi compiutamente nel mondo reale (tali e tanti sono gli “attriti” e le imperfezioni che lo condizionano) ma ritengo che ad esso si dovrebbe tendere quanto meno come modello di riferimento ideale.. pertanto non ho trovato soddisfacente la risposta.
In ogni caso il punto del contendere non è la teoria economica bensì il fatto che con questa aleatorietà dei prezzi l’utente / consumatore talvolta va fuori bene, talvolta male! Ad esempio Barbara Sgarzi ha raccontato l’aneddoto della giornalista Guia Soncini che ha pubblicato in self-publishing il suo ultimo pamphlet e, per incrementare ulteriormente le pur buone vendite, ha abbassato il prezzo a 0,99 facendosi alla fine saltare fuori una borsa griffata (e per questo sollevando i commenti un po’ caustici della rete)!
In questo caso dunque i primi acquirenti sono andati fuori male, gli ultimi bene! Non si può pertanto non osservare come mentre in un libro fisico il prezzo è quello deciso a priori ed immodificabile stampato sulla quarta di copertina (al netto di saldi ed offerte regolamentate dalla pur opinabile Legge Levi), in un libro digitale il prezzo è suscettibile di variazioni in funzione di strategie di marketing, volumi di vendita ma anche di considerazioni di ordine prettamente finanziario.
Come non pensare (con un po’ di malizia, ok) che qualche colosso internazionale non possa buttare giù i prezzi in vista delle trimestrali al fine di aumentare le vendite ed i ricavi in modo da poter sbandierare agli analisti dati in crescita e pompare i corsi azionari?
Insomma, si tratti della grande multinazionale o dell’autore alle prime armi (un po’ meno pericoloso ma forse più moralmente “sleale” dal momento che può far credere al lettore di acquistare un capolavoro della letteratura quando magari si tratta di una ciofeca), credo che sia nell’interesse di tutti (editori, autori, lettori) che l’ebook cresca in un mondo trasparente.

PS Consiglio caldamente di leggere la versione su Storify completa di tutti i tweet citati.

Yitoa e Wexler lanciano i primi ereader flessibili


Alcuni mesi fa LG aveva annunciato la commercializzazione di display e-ink pieghevoli entro l’estate; puntuali in questi giorni arrivano sul mercato i primi dispositivi con a bordo questa tecnologia.
Iniziamo da Yitoa, produttore cinese, il quale ha presentato un e-reader la cui caratteristica principale è per l’appunto la flessibilità; come si vede dal video qui sopra grazie allo chassis fatto di un materiale che il produttore definisce simile alla gomma (“rubber“) ed al display e-ink flessibile (per quanto appaia verosimile, non viene specificato se prodotto da LG o meno) lo si riesce letteralmente a piegare (non come un libro di carta, per carità, ma il risultato è ugualmente ragguardevole!). Le conseguenze interessanti dell’utilizzo combinato di questi materiali sono due: 1) il peso, estremamente limitato (160 grammi; il Kindle Touch, giusto per fare un paragone, ne pesa 213) 2) l’elevatissima resistenza agli urti (nel video i due protagonisti fanno praticamente a gara a lasciar cadere l’ereader a terra e a prendere a pugni lo schermo!).
L’altro prodotto da segnalare è il Flex One della russa Wexler, il quale brilla anch’esso per flessibilità e leggerezza: i grammi qui sono appena 110, grazie alle dimensioni più contenute soprattutto per quel che riguarda lo spessore (le misure esatte sono 151 x 134 x 4 del russo contro i 174 x 113 x 9 del rivale cinese; per la cronaca il display ha la medesima dimensione di 6 pollici) ed anche in questo caso il produttore sottolinea l’elevata resistenza agli urti.
La compresenza di queste due caratteristiche (flessibilità e leggerezza) rende a mio avviso questa classe di dispositivi particolarmente indicata in ambito educational con specifico riferimento ai bambini / ragazzi più giovani perché va bene che il prezzo di questi device calerà sempre più ma non è che sia il massimo “affidare” gadget che hanno in ogni caso un certo costo a marmocchi che li lanciano assieme agli zaini, ci si siedono sopra, etc.!
La flessibilità, per concludere, non è solo fisica ma anche a livello di software: il sistema operativo adottato dall’ereader di Yitoa è Linux e, tra i formati supportati, rientrano ePub, pdf e mobi. Unico neo, nessuno dei due è touch, ma sono certo sia solo questione di tempo!

Ancora sulla firma grafometrica

40+86 Tablet

40+86 Tablet di bark, su Flickr

Ritorno velocemente sull’argomento della firma grafometrica affrontato in un mio post di pochi giorni fa dal momento che su questo interessante tipo di firma è intervenuto l’avvocato Andrea Lisi, presidente ANORC, il quale ha sgombrato il campo da ogni dubbio circa la sua validità legale; rimandando all’articolo di Lisi per una trattazione più esaustiva riporto un passaggio che mi sembra dirimente (il grassetto è mio; n.d.r.):

Questo tipo di firma [la biometrica grafometrica, n.d.r.] può certamente essere sussumibile nel genus ampio della firma elettronica avanzata […]. Ma, in verità, questa tipologia di firma costituisce più propriamente una categoria a sé stante e deve ritenersi riconosciuta nell’ordinamento giuridico italiano proprio perché già prevista dal nostro codice civile: essa è semplicemente una firma autografa riversata non su un foglio di carta, ma associata indissolubilmente a un documento informatico, a patto che esso abbia i requisiti tipici previsti per garantire la forma scritta ai sensi dei già citati artt. 20 e 21 del CAD. Quindi, pur con una specifica attenzione alle problematiche tipiche della corretta formazione del documento informatico, della corretta conservazione dell’oggetto informatico contenente documento e dati di firma biometrica e con una particolare considerazione alle delicate questioni di sicurezza e privacy che la protezione del dato biometrico comporta, possiamo affermare che la firma autografa digitale o grafometrica può trovare le ragioni giuridiche per una sua autonoma esistenza e validità nei principi generali del nostro ordinamento

In altri termini dal punto di vista legale non esistono motivi ostativi all’utilizzo della firma grafometrica; anche Lisi evidenzia alcune problematicità inerenti le modalità di formazione del documento e soprattutto la sua conservazione dal momento che esso contiene la firma, ritenuto dato sensibile e pertanto soggetto alla normativa sulla Privacy.
Da parte mio sottoscrivo in pieno e ribadisco come tutto sia risolvibile con un approccio “archivistico” di ampio respiro, l’unico in grado di risolvere le problematiche già evidenziate, ovvero: a) definizione di rigorose procedure di utilizzo di questi strumenti di nuova generazione, b) necessità di uploadare e sincronizzare costantemente i documenti con essi creati (e firmati) nei server presenti nei (minimo due) data center => c) realizzati in siti geograficamente distanziati e di proprietà dell’organizzazione.

Le conseguenze librarie del trionfo del tablet

Mrs. Duffee Seated on a Striped Sofa, Reading Her Kindle, After Mary Cassatt

Mrs. Duffee Seated on a Striped Sofa, Reading Her Kindle, After Mary Cassatt di Mike Licht, NotionsCapital.com, su Flickr

In tempi non sospetti avevo espresso la mia convinzione che nel giro di alcune generazioni “tecnologiche” i tablet avrebbero messo alle strette gli e-book reader e che questo processo sarebbe proceduto parallelamente a quello della convergenza tra queste due classi di dispositivi; un recente sondaggio, commissionato da BISG (Book Industry Study Group, etichetta dietro alla quale stanno le principali realtà statunitensi legate al libro: case editrici, university press, retailer, etc.) e realizzato sul campo da Bowker su un cospicuo campione di cittadini statunitensi, ha evidenziato come nel giro di appena sei mesi sia significativamente cambiato l’atteggiamento verso i tablet: se ad agosto 2011 la percentuale di coloro che affermavano di preferire dispositivi dedicati alla lettura (leggasi ebook reader) erano il 72%, a febbraio 2012 tale quota era scesa al 58% mentre i lettori che hanno manifestato la loro predilezione per i tablet sono cresciuti dal 13 al 24%.
Le cause di questo mutamento sono molteplici: una, fondamentale, la evidenzia lo stesso studio ed è rappresentata dalla commercializzazione del Kindle Fire, la tavoletta low cost di Amazon che ha, dal punto di vista economico, evidentemente fatto cambiare idea a molti aspiranti acquirenti. Altri motivi sono a mio avviso i miglioramenti nella definizione degli schermi a retroilluminazione (per quanto i vantaggi dell’e-ink risultino ancora evidenti), la consapevolezza diffusa che con un tablet si possono fare molte più cose rispetto agli ereader (e questo nonostante la citata “convergenza” la quale riguarda l’interfaccia touch, la presenza di colori, la possibilità di navigare in Internet e di leggere email) e non da ultimo il fatto che possedere uno di questi dispositivi rappresenti oggigiorno una sorta di status symbol.
Ma al di là dei numeri c’è da chiedersi se e come questa standardizzazione sul tablet come principale dispositivo di lettura modificherà l’evoluzione futura del libro digitale. In termini generali c’è da aspettarsi una crescita nel livello di multimedialità: così come avviene nelle pagine web la parte testuale non sarà più necessariamente preponderante ma probabilmente risulterà “annegata” tra immagini, filmati, infografiche, etc. In particolare trovo affascinante l’ipotesi che, dal momento che i nuovi schermi ad alta definizione (come il retina display) consentono di apprezzare anche i dettagli e che i costi di riproduzione nel digitale sono tendenti a zero (laddove la stampa a colori su carta ha ancora un’incidenza elevata nelle edizioni di pregio), si possa assistere ad una sorta di revival della miniatura, magari in chiave underground o neogothic alla Mark Ryden! Non escludo, in altri termini, che come il libro antico costituiva l’esito del lavoro dello scrittore, del legatore e del miniatore allo stesso modo l’ebook possa essere un concentrato di molteplici creatività (dello scrittore, of course, ma anche del grafico, del video-maker, etc.).
In sostanza con il trionfo del tablet saremo testimoni di una “multimedializzazione” del libro, il che se da un lato consentirà nuove forme di sperimentazione e di approdare a risultati nuovi (ma che, come visto, per certi versi potrebbero essere una sorta di ritorno), dall’altro ci farà allontanare una volta di più dal libro così come siamo stati abituati a conoscerlo.
In questo quadro di dirompenti trasformazioni va notato come, oggi come in passato, i ritmi del cambiamento siano dettati in primo luogo dall’avanzamento tecnologico e dalle nuove possibilità creative che da esso discendono.

Firma grafometrica: alcune perplessità archivistiche

Olipad Graphos

Olipad Graphos (fonte: http://www.olipad.it)

Quando si parla di “informatica negli uffici” si tende, complice anche l’inserimento della questione nel programma del partito politico risultato poi vincente alle ultime elezioni, a pensare soprattutto alla “dematerializzazione”, vale a dire all’abbandono dei vari supporti analogici (carta su tutti), ritenuti ingombranti e costosi, per lasciar posto a quello digitale, per contro ritenuto conveniente e flessibile.
In realtà tutti sanno che non è sufficiente sostituire una macchina da scrivere con un PC per poter dire di aver veramente “informatizzato” un ufficio se poi l’uso che si fa del PC è equivalente a quello di una macchina da scrivere: intendiamoci, già l’uso di un programma di videoscrittura rappresenta un buon passo in avanti, ma è altresì superfluo sottolineare che il vero “cambio di passo” lo si può ottenere modificando (con termine tecnico “reingegnerizzando”) le modalità di lavoro ed adattandole ai nuovi strumenti a disposizione.
Purtroppo quest’opera di “reingegnerizzazione” è tanto più difficile quando si tratta di uffici della Pubblica Amministrazione, dove bisogna attenersi a normative che più che al raggiungimento spedito dei risultati mirano a garantire la correttezza dell’operato sotto il profilo giuridico-formale e dove è difficile diffondere una “cultura informatica”, la quale sottintende un aggiornamento continuo delle competenze professionali ed altrettanti mutamenti nel modo di lavorare, abbandonando consolidate e tranquillizzanti prassi operative.
In un simile contesto mi chiedo quale potrà essere l’impatto di uno strumento come il nuovissimo Olipad Graphos, tablet della Olivetti esplicitamente destinato ad un’utenza business oltre che, appunto, alla Pubblica Amministrazione, la cui peculiarità è la possibilità di firma grafometrica con pieno valore legale. Come si appone ed in cosa consiste questa firma? In pratica attraverso una speciale penna in dotazione assieme alla tavoletta il sottoscrittore firma così come farebbe con un qualsiasi documento cartaceo; il dispositivo acquisisce in automatico sia l’immagine della firma che i parametri salienti del sottoscrittore quali pressione esercitata, ritmo, movimento, velocità, accelerazione.
Si tratta di un sistema per il quale, vista la sua facilità d’utilizzo, è prevedibile un impiego generalizzato (al momento Olivetti si limita ad indicare come possibili settori d’utilizzo “l’emissione di verbali di sopralluoghi ed interventi tecnici, rivolte sia al mercato delle Utilities sia alla Pubblica Amministrazione” ed in generale “soluzioni di automazione e dematerializzazione del libro firma delle aziende e della PA”) e che potrebbe far piazza pulita di tutti quei molteplici tipi di firma (elettronica e digitale, più o meno qualificata) normati dal legislatore e che a mio avviso hanno ottenuto l’unico risultato di generare ulteriore confusione oltre che di creare ex novo problemi di non facile soluzione (come la durata delle marche temporali e la loro conservazione).
Se di primo acchito l’arrivo della firma grafometrica è dunque da salutare con favore, alcune semplici valutazioni di tipo archivistico consentono di individuare alcune criticità che dovrebbero indurre, specie nella Pubblica Amministrazione, ad abbracciare con le dovute cautele questo per il resto interessante dispositivo (e gli altri con le medesime caratteristiche che sicuramente verranno).
Il primo aspetto da considerare è ovviamente quello della sicurezza: su quella intrinseca di questa modalità di firma non ho modo di esprimere giudizi (in genere è communis opinio che i metodi di autenticazione basati su dati biometrici siano praticamente inviolabili ma la storia dell’informatica è piena di sistemi considerati insuperabili e poi puntualmente aggirati, motivo per cui non è da escludere che il ritornello si ripeta; diciamo dunque che la firma biometrica offre standard di sicurezza elevatissimi ma è, come tutti i sistemi umani, fallibile), nutro invece qualche dubbio sul “sistema tablet” nel suo complesso. Il fatto che l’accesso al dispositivo avvenga attraverso la lettura delle impronte digitali del legittimo proprietario a mio avviso non è sufficiente: si impedisce, quello sì, che persone non autorizzate utilizzino il dispositivo ma d’altro canto un dispositivo mobile come una tavoletta è per sua natura maggiormente a rischio di perdita o furto e con esso di tutti i documenti firmati in esso contenuti. Per fare un parallelo è come se un ladro, introdottosi negli uffici di una Pubblica Amministrazione, rubasse non solo gli appetibili PC ma anche i faldoni (cartacei) che, nonostante la sbandierata dematerializzazione, continuano ad affollarne armadi e scrivanie. Insomma, un doppio danno!
Questa considerazione ci porta al secondo punto: nel momento in cui si inizia ad operare in mobilità la necessità di opportune operazioni di back-up / storage diviene un imperativo se possibile ancor più categorico. Ed in mobilità come vorrai mai effettuare queste operazioni? Con il cloud computing ovviamente (già, perché non vorrai mica metterti ogni sera con il cavetto a scaricare i dati? vuoi mettere la comodità di un sistema che ti fa l’upload su server sicuri e ti sincronizza in automatico i dati mettendoli immediatamente a disposizione dell’organizzazione?)! E qui ritorniamo ai soliti problemi: o la Pubblica Amministrazione si rivolge a servizi di privati (a proposito Olivetti non lo scrive esplicitamente ma è più che verosimile che la soluzione cloud di riferimento sia quella in-house di Nuvola Italiana di Telecom Italia) oppure, scelta lungimirante, si decide una volta per tutte a realizzare queste infrastrutture strategiche.
Del resto, ultimo aspetto da valutare, nel momento in cui si realizzano queste strutture informatiche, imprescindibili per l’attività ordinaria e straordinaria dell’organizzazione, è necessario considerare aspetti di compatibilità ed interoperabilità; in particolare l’introduzione dei dispositivi mobili sta creando grattacapi non indifferenti ai responsabili IT dal momento che questi device hanno applicazioni basate su sistemi operativi (iOS ed Android) che mal si adattano con i software prevalentemente in ambiente Microsoft già presenti negli uffici. In questo senso Android, SO libero ed open source, è assolutamente preferibile ad iOS non avendo del resto a mio avviso senso attendere i futuri dispositivi con Windows 8. A ben vedere l’avvento del mobile nei pubblici uffici, pur con tutti i nodi irrisolti e le difficoltà che esso rappresenta, potrebbe costituire l’occasione giusta per abbandonare i prodotti dell’onerosa Microsoft (non si parla sempre di ridurre i costi?) ed abbracciare finalmente l’universo open source così come per cambiare davvero il modo di lavorare nella PA (con evidenti impatti sui flussi documentali) e realizzare qualcosa che si avvicini a quegli “uffici senza carta” finora utilizzati come uno slogan propagandistico o poco più.
Ma soprattutto, e chiudo, il passaggio al mobile può contribuire al riallineamento tra prassi amministrativa e corretta tenuta archivistica dei dati e dei documenti all’interno di una aggiornata cornice informatica.

L’insegnamento della quotazione di Facebook ovvero l’importanza di avere un modello di business sostenibile

Facebook entró al mercado Nasdaq

Facebook entró al mercado Nasdaq di clasesdeperiodismo, su Flickr

Il recente flop della quotazione di Facebook al NASDAQ, con tutto lo strascico di polemiche ed azioni legali che si è portato dietro, merita un approfondimento giacché da esso si può prendere spunto per alcune riflessioni valide pure per il settore editoriale.
Partiamo dall’inizio: com’è potuto accadere che “la più grande IPO tecnologica di tutti i tempi” sia finita così male, con il titolo che nel momento in cui scrivo quota attorno ai 31 dollari, ben al di sotto dei 38 euro di collocamento?! E’ successo che attorno alle operazioni di sbarco in borsa si è creato un enorme battage mediatico il quale ha fatto sfuggire ai più un “piccolo” dettaglio: Facebook, constatato che molti dei suoi utenti accedono ai suoi servizi attraverso dispositivi mobili, aveva modificato il proprio “prospetto informativo” agli investitori nel punto in cui si parlava dei futuri introiti. Già, perché i proventi per utente mobile sono assai inferiori rispetto a quelli “tradizionali” da PC. Il bello è che tutte queste informazioni erano pubbliche e non ha dunque senso ora andare a prendersela con Morgan Stanley (che avrà pure comunicato ad un numero ristretto di investitori le sue analisi aggiornate e fatto operazioni di vendita poco trasparenti): Josh Constine aveva spiegato tutto per filo e per segno in un dettagliato post su Techcrunch con tanto di documento presentato alla SEC!
Il punto cruciale è proprio questo: lo spostamento verso il mobile sta ulteriormente cambiando i modelli di business di Internet, prevalentemente basati sulla pubblicità, e questo vale non solo per Facebook, che forse non ne ha mai avuto uno, ma anche per Google: i click sugli ads di Mountain View calano assai se la navigazione avviene in mobilità!
Alla luce di quanto finora detto la domanda interessante da porsi è la seguente: quali saranno le conseguenze di questo shifting nel settore editoriale?
Ovviamente sull’argomento si potrebbe scrivere un trattato ed in questa sede l’analisi non può che essere di poche righe; resterò dunque parecchio sul generale con l’ulteriore precauzione, per praticità espositiva, di affrontare separatamente i settori dell’editoria periodica e dell’editoria libraria nonostante nella realtà i principali gruppi operino in entrambi i campi.
Partiamo dall’editoria periodica (con un occhio di riguardo per il giornalismo, il segmento a sua volta più effervescente), la quale complessivamente arranca con un calo sensibile delle vendite delle copie fisiche (e di conseguenza del giro d’affari) ed una crescita numerica degli utenti della versione digitale (= sito online + versione ad hoc per tablet od ereader) alla quale però non corrisponde un parallelo aumento dei ricavi derivanti dalle inserzioni pubblicitarie. Morale della favola: i costi sono in disordine od al massimo in precario equilibrio (e questo vale anche per le testate interamente online, la cui semplice sopravvivenza rappresenta già un successo). Inserito in questo contesto il passaggio alla navigazione in mobilità rappresenta un duplice pericolo giacché, ammettendo che valga la regola che calano gli introiti pubblicitari, i conti rischiano di sprofondare in rosso una volta per tutte! Né, allo stato delle cose, ricorrere alle app sembra essere risolutivo: sono proprio queste quelle in cui la pubblicità deve giocoforza essere maggiormente “occultata”, riducendo di conseguenza le possibilità di click. L’alternativa, ovvero farsi pagare per le news, non mi convince molto perché in Internet la gente si è abituata a trovare gratis anche quel che prima pagava senza batter ciglio; in questo senso l’esperienza del New York Times, con ripetuti tentativi di passare al modello pay ed altrettanti ritorni è emblematica delle difficoltà di trovare una soluzione accettabile (attualmente il NYT propone diversi “piani tariffari” e i risultati sembrano essere soddisfacenti).
Almeno sulla carta per gli editori librari la situazione è propizia, dal momento che la navigazione in mobilità avviene attraverso quei dispositivi (tablet ed ereader) che sono volano imprescindibile per la diffusione dei libri digitali. In realtà, lasciando ora stare il fenomeno pirateria e la probabile entrata di nuovi temibilissimi competitor, la situazione è molto più ingarbugliata di quanto si creda e per capirlo può essere utile dare un’occhiata a quanto capitato al settore discografico, dove al crollo delle vendite di CD ha fatto sì da contraltare un aumento dei download e degli ascolti in streaming a pagamento ma senza riuscire a tornare al giro d’affari precedente all’avvento del digitale (il che è peraltro normale dal momento che, a parità di “dischi” venduti, quelli digitali costano meno – per fortuna – dei corrispettivi analogici per via dei minori costi di produzione). Dovesse l’editoria libraria seguire un percorso analogo, c’è dunque da aspettarsi un passaggio da analogico a digitale (posto che la transizione sarà lunga e che le due realtà coesisteranno a lungo) che comporterà dolorose ristrutturazioni e soprattutto metterà in crisi i bilanci di quelle aziende “ibride” (vale a dire la maggior parte) che dovranno sopportare tanto i costi della carta quanto quelli necessari per passare alle nuove modalità di produzione, distribuzione e vendita. In tutto questo trapasso quelle case editrici esclusivamente digitali sorte negli ultimi anni potrebbero risultare avvantaggiate non dovendo sostenere, per l’appunto, quei costi fissi propri dell’old economy.
Tirando le somme l’editoria periodica, che aveva riposto le sue speranze sulla pubblicità, vede queste ultime vacillare dal passaggio al mobile e pure l’editoria libraria dovrà ristrutturarsi tenendo conto che il giro d’affari futuro, a parità di vendite, potrebbe essere inferiore all’attuale. La scommessa è dunque riuscire a vendere di più, obiettivo raggiungibile a mio avviso proponendo formule innovative del tipo “pacchetti” flat (con 50 euro annui si possono leggere libri illimitati, un po’ come fa Amazon, oppure una combinazione a scelta “libro + periodico”) o, ancor meglio, una “ricarica” di 50 euro per un TOT di contenuti (articoli di giornale, libri o sue parti, etc.) o quant’altro possa risultare appetibile oltre che comodo per l’utente/cliente. Insomma, le possibilità ci sono ed il bello del digitale è che consente formule prima impensabili.

PS Da rimarcare come il processo di shifting to mobile non danneggi il settore “archivistico” ma al contrario apra nuove possibilità di business, argomento che sarà oggetto di un prossimo post.

L’ebook ha bisogno di “buona pubblicità”?

Amazon Kindle 2 Wireless eBook Reader

Amazon Kindle 2 Wireless eBook Reader di goXunuReviews, su Flickr

L’altro giorno ero infruttuosamente alla ricerca sul web di dati aggiornati circa la quota di vendite di ebook detenute rispettivamente dagli editori tradizionali (Mondadori, Feltrinelli, etc.) e da quelli newcomer intimamente connessi alla presunta Primavera Digitale cui staremmo andando incontro (da SBF a Barabba alla galassia del self publishing) sennonché mi sono imbattuto in un’interessante pagina nella quale era riportato quello che gli economisti definiscono il sentiment (a marzo 2011) degli operativi relativamente, nel caso specifico, alle prospettive dell’ebook (il panel degli intervistati era dunque costituito dai rappresentanti delle associazioni degli editori e/o da personaggi di rilievo del mondo editoriale dei principali paesi avanzati).
Ciascuno di essi era stato chiamato ad esplicitare stringatamente i motivi di ottimismo ed al contrario quelli di preoccupazione; tra questi ultimi ho ritrovato quelli che oramai tutti sappiamo a menadito: incognite giuridico-legali (protezione della proprietà intellettuale e dei diritti di sfruttamento dell’opera d’ingegno, lotta alla pirateria, ripartizione dei proventi con gli autori), concorrenza (sleale) di colossi quali Amazon e Google che sono e probabilmente diventeranno pure editori, difficoltà di trovare accordi con le biblioteche e via discorrendo.
L’aspetto interessante della vicenda è che le preoccupazioni italiane (a rappresentare il Belpaese era Stefano Mauri, presidente ed amministratore delegato di GEMS) erano legate all’IVA al 20% (oggi elevata al 21%) rispetto al 4% del libro cartaceo e soprattutto alla necessità che sulla stampa apparissero informazioni corrette relative all’ebook. Riporto testualmente:

We feel it is important that publishers help the media to print correct information about e-books.

Queste parole vanno contestualizzate e probabilmente appaiono più chiare se legate ad una intervista che lo stesso Mauri ha rilasciato al Corriere della Sera all’incirca nello stesso periodo e nella quale, prendendo le difese della categoria, si difende dall’accusa (diffusa ed accettata in Rete, i cui navigatori sarebbero più o meno manovrati dai colossi di Internet) che gli ebook costano proporzionalmente troppo rispetto ai libri di carta a causa, per l’appunto, dell’IVA al 20%. Ora, a parte il fatto che le remore degli italiani ad abbandonarsi ai libri digitali non derivano solo dal prezzo ma dipendono anche dai DRM, dalla difficoltà di orientarsi tra device di lettura e formati oltre che da una generale scarsa alfabetizzazione informatica, mi fa sorridere che in un paese come l’Italia in cui gli incroci azionari sono inestricabili e molti editori di libri sono nel contempo proprietari di quotidiani, periodici e relativi portali Internet (esempi sono Mondadori, RCS, etc.) si richieda la presenza di una corretta informazione!
Posto che la disponibilità di informazioni chiare, veritiere e prive di preconcetti è essenziale affinché i possibili nuovi lettori digitali si decidano a compiere il grande passo verso l’ebook, non so se a distanza di oltre un anno gli editori siano soddisfatti della buona (o cattiva) “fama” che circonda l’editoria digitale. Sicuramente non mi sembra che in questo lasso di tempo gli editori abbiano compiuti significativi passi per eliminare quelle tare che sopra elencavo; forse sarebbe ora che essi si rendessero conto una volta per tutte che sono essi stessi per buona parte i principali artefici del proprio destino! Il tempo stringe, tra poco tutti i colossi al di là dell’Atlantico scenderanno in forza nell’agone europeo, ed allora la resa dei conti non potrà essere più rimandata.

Volunia, un doveroso aggiornamento

Memoria digitale su Volunia

Memoria digitale su Volunia

In questo blog abbiamo seguito fin dalla presentazione ufficiale la nascita di Volunia, servizio che si trova ancora in fase beta (non è cioè accessibile al pubblico ma solo ad utenti power user) e che in data odierna ha rilasciato una serie di importanti aggiornamenti.
Chiariamo subito, una volta per tutte, che Volunia NON è un motore di ricerca: Massimo Marchiori l’ha ribadito in un’intervista a Wired.it, nella quale è stato contestualmente annunciato che per la funzione di search ci sia avvarrà dei risultati della coppia Bing-Yahoo! Non si capisce se si tratti di una soluzione provvisoria in attesa che, raccolti i necessari fondi, se ne sviluppi uno internamente ma l’impressione è che nulla più verrà da questo fronte. In tal modo la speranza che da colui che con i suoi studi ha dato lo spunto a Larry Page e Sergey Brin per realizzare il più famoso ed usato search engine del mondo arrivasse anche un ulteriore passo in avanti nella direzione di ricerche più “intelligenti” e pertinenti (leggasi web semantico) va definitivamente accantonata e viene di conseguenza anche a scemare l’interesse mio personale e di questo blog per Volunia, servizio nel quale finisce per prevalere l’aspetto “sociale”.
E’ questo quel che traspare anche alla luce dei nuovi aggiornamenti: la grafica, che risulta molto più pulita e minimal rispetto alla precedente, mette in primo piano, più che i contenuti, le persone (utenti che hanno visitato /stanno visitando una data pagina, presenza di eventuali amici, persone nella chat laterale), evidentemente ritenute in grado di fornire un valore aggiunto alla ricerca ed in generale alla navigazione.
Si tratta sicuramente di una scelta coraggiosa (non si può dire lo stesso in quanto ad originalità; molti power user fanno notare come il “nuovo” Volunia assomigli sempre più a Twinpeople!) e che capovolge le prospettive rispetto ai giardini dorati dei social network: con Volunia tutto il web diventa un luogo in cui socializzare (in particolare si possono prospettare interessanti applicazioni in ambito giornalistico, per quanto concerne la possibilità di commentare all’istante le principali notizie, ma anche in ambito librario, dove si potrebbero scambiare opinioni e pareri su eventuali ebook reperibili online) anche se il rovescio della medaglia è costituito dai pesanti risvolti in fatto di privacy che impongono, a chi volesse preservarla, di modificare pesantemente il settaggio (ad esempio le impostazioni di default rendono visibili a tutti le pagine che ho visitato!).
Per il resto entro luglio, quando Volunia diventerà operativo a tutti gli effetti, va assolutamente risolto il problema di compatibilità della “cornice” di Volunia (frame) con siti quali Facebook, Twitter, etc. così come deve essere migliorata la grafica delle mappe dei contenuti nonché la reale capacità di queste ultime di descrivere il contenuto informativo del sito.

#SalTo12. Riflessione n. 2

Salone del Libro di Torino 2012

Salone del Libro di Torino 2012

In questo secondo ed ultimo post dedicato al Salone del Libro di Torino riprendo, sviluppandolo, un argomento presente in nuce già nell’articolo di ieri; infatti nel momento in cui evidenziavo come il modello di business ad oggi prevalente nell’editoria digitale rischi di fungere da freno anziché da traino sottintendevo implicitamente come ciò andasse in primo luogo a discapito di quello che dovrebbe essere il protagonista assoluto, vale a dire il lettore.
In effetti, a parole, tutti nel mondo dell’editoria affermano di avere a cuore di quest’ultimo ma nella realtà le cose stanno un po’ diversamente e quanto visto e (non) sentito al Salone conferma questa mia idea.
Infatti posto che la tecnologia dovrebbe migliorare la vita e non complicarla vien da chiedersi: è veramente pensato per facilitare la vita del lettore/cliente un sistema che prevede il DRM? A Torino i grandi dell’editoria hanno sì ventilato l’ipotesi di togliere i tanto vituperati (da parte dei lettori) “lucchetti digitali” ma non è giunto, a quanto mi risulta, nessun annuncio ufficiale (diversamente da quanto avvenuto al Salone di Londra di qualche settimana fa)!
Ancora: è veramente pensato per l’utente un sistema che adotta un formato proprietario come il .mobi leggibile solo con il device che tu stesso produci a meno che non ti metti a smanettare con programmi di “conversione”? Già, perché se andavi allo stand di Amazon i ragazzi (peraltro gentilissimi) mica ti dicevano di questo piccolo “inconveniente”!
E proseguiamo: è veramente pensato per l’utente un sistema in cui si è praticamente “costretti” a comprare i propri libri in un determinato online bookstore che magari non ha nemmeno un adeguato catalogo e questo perché non è stato trovato l’accordo con tutte le case editrici sulla ripartizione dei profitti? Ok, la situazione sta sensibilmente migliorando, ma ciò non toglie che siamo ben lungi dal raggiungere l’optimum!
Per finire, siamo così sicuri che il ricorso alla nuvola (alla quale, per inciso, da sempre guardo con interesse) rappresenti, così come viene raffigurato da alcuni operatori, un passo in avanti? Ad esempio nel momento in cui mi si elencano le virtù insite in un sistema come quello rappresentato da Reader di BookRepublic (app di lettura presentata al Salone che scommette proprio sul cloud; n.d.r.) ovvero possibilità di creare una propria biblioteca sulla nuvola, lettura a partire da n dispositivi che vi si collegano, sincronizzazione ergo possibilità di riprendere la lettura lì dove l’abbiamo interrotta, etc. non sarebbe forse opportuno ricordare come in caso di crash dei server o di assenza di connessione la lettura non è semplicemente possibile (a meno che non si possieda anche una copia in locale)? E non sarebbe male nemmeno rammentare che per accedere alla nuvola serve una connessione dati e che quest’ultima implica la presenza di un hotspot Wi-Fi gratuito e/o la sottoscrizione di un abbonamento sempre che il device da noi posseduto sia dotato di antenna Wi-Fi e/o slot per SIM-card? Insomma, il cloud fa molto figo ma come tutte le tecnologie ha anche delle controindicazioni che sarebbe bello venissero spiegate.
In definitiva, mi sembra che dell’utente ci si ricordi “a singhiozzo” e forse sarebbe il caso di imparare qualcosa dalle biblioteche (sulla sorte delle quali proprio al Salone del Libro ci si è posti inquietanti domande) e dalla loro cultura di servizio che, sicuramente nella teoria e sicuramente anche in alcune realtà avanzate, pone davvero al centro l’utente (approccio user-centered)! Forse nel nostro futuro digitale della biblioteca e dei bibliotecari non avremo più bisogno ma della cultura della biblioteca indubbiamente sì.

#SalTo12. Riflessione n. 1

Stand Amazon

Lo stand Amazon al Salone del Libro di Torino del 2012

L’editoria digitale è stato il tema principe della venticinquesima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino: gli organizzatori della manifestazione hanno non a caso scelto come slogan quello di “Primavera Digitale”, volendo con esso evidenziare come un po’ tutti gli operatori ripongano le loro speranze nelle nuove frontiere digitali per risollevare le sorti complessive dell’editoria e magari garantirle un prospero futuro.
Per chi come il sottoscritto si diletta a scrivere di “cose digitali” è sicuramente una cosa da salutare con favore ma sul fatto che poi si tratti di una speranza ben riposta è tutto da verificare! I lettori più assidui di questo blog ben sapranno che sull’argomento ho una posizione alquanto “problematica”, nel senso che non perdo mai l’occasione di sottolineare come le cifre del digitale in valori assoluti continuano ad essere modeste e che il modello di business che va per la maggiore rischia di fungere da freno anziché da volano per la crescita.
E che l’editoria digitale e l’ebook rappresentino ancora una nicchia appare in modo palese dallo spazio relativamente esiguo occupato a livello di stand espositivi: nonostante il digitale fosse il tema principale del Salone, “mappa alla mano” stimo che l’area “Book to the Future” coprisse al massimo il 7-8 % dell’area espositiva totale. Se si considera poi che in questo 7-8 % fossero presenti produttori di device “puri” come Sony e Trekstor ed altri impuri / ibridi come IBS ed Amazon (ma anche realtà legate al social reading come Zazie.it) si intuisce come gli editori digitali veri e propri fossero davvero una esigua parte e soprattutto come essi possano apparire, specie agli occhi del pubblico “generalista” del Salone, quasi delle mosche bianche!
E proprio ai lettori tradizionali il passaggio attraverso l’area “Book to the Future” deve aver provocato, mi immagino, una certa sensazione di disorientamento: nessuna pila di libri in bella mostra, nessun catalogo delle opere ma modelli di ebook reader o addirittura, presso lo stand di BookRepublic, una gentile ragazza che “confezionava” a tutto spiano con uno strano macchinario palloncini d’aria contenenti un codice grazie al quale, previa registrazione sul sito Bookrepublic.it, ottenere dieci ebook gratis.
Sicuramente una trovata pubblicitaria originale che testimonia appieno come, nel momento in cui viene a mancare il supporto fisico del libro (con la copertina che di suo rappresentava un potentissimo strumento di persuasione all’acquisto, assieme ovviamente ad altre efficaci strategie come il passaparola, le recensioni, le presentazioni in TV, in libreria e in biblioteca, etc.), la funzione aziendale “marketing” si trova a svolgere un ruolo sempre più centrale, quasi alla pari dell’imprescindibile lavoro editoriale “sul testo”, e sicuramente superiore rispetto a quello, attualmente importantissimo per le aziende “fisiche”, della distribuzione / logistica.
Le case editrici stanno cambiando “vestito”, che stia arrivando la Primavera?