Che gli italiani stravedano per i social network è cosa arcinota, ma che i social network stiano acquisendo ogni giorno di più una valenza “archivistica” (il termine rischia di essere fuorviante ma rende l’idea) è decisamente meno risaputo.
All’argomento mi ero avvicinato, con mille cautele e precauzionale uso del condizionale, già in Archivi e biblioteche tra le nuvole: in esso sostenevo che a) sotto alcune condizioni (in particolare facevo presente come fosse necessario effettuare una sorta di lavoro di “esegesi delle fonti”), alcuni social network erano per certi versi considerabili come i moderni archivi di persona b) per molti enti ed organizzazioni, tanto pubblici quanto privati, essi venivano a ricoprire un ruolo strumentale (nel senso proprio del termine) tale da renderli contemporaneamente mezzi e fonti di informazioni, notizie e documenti.
Ebbene, a distanza di nemmeno un anno queste mie affermazioni sembrano essere state persino troppo moderate!
Facciamo una rapida carrellata della situazione attuale per trarre in un secondo momento alcune necessariamente provvisorie conclusioni.
Alcuni social network mantengono la loro rilevanza in quanto “meri contenitori” di informazioni: è il caso di LinkedIn, rete sociale nella quale gli iscritti pubblicano i loro curriculum vitae (studi, esperienze lavorative, posizioni e ruoli ricoperti, etc.) e ricreano la propria rete di contatti in ambito lavorativo. Se lo scopo immediato è quello di relazionarsi con potenziali datori di lavoro o colleghi per intraprendere assieme un business, inutile dire che tali e tanti sono i profili accessibili (la registrazione è gratuita, ma sottoscrivendo l’account premium si possono sfruttare alcune funzionalità addizionali) che si possono ricostruire intere carriere di milioni di persone così come, per i più volenterosi, gli organigrammi passati e presenti di centinaia di migliaia di aziende.
Se LinkedIn “batte” sulle persone, Mendeley invece punta moltissimo sulla qualità dei documenti e sul target elevato dei suoi utilizzatori, moltissimi dei quali appartengono alla comunità accademica; Mendeley infatti consente all’utente di caricare i propri documenti in pdf (poniamo una ricerca sul diabete), effettuare sottolineature ed annotazioni che possono essere condivise con altre persone (ipotizziamo gli appartenenti ad un gruppo di ricerca ristretto su questa malattia oppure un gruppo tematico esistente su Mendeley), sottoporre il proprio lavoro ad una sorta di peer review, generare citazioni e bibliografie a partire dalla ricca base di dati a disposizione ed ovviamente salvare la propria attività in locale con backup automatico sulla nuvola (il che lo rende disponibile sempre e su qualsiasi dispositivo). Sebbene ad oggi la stragrande maggioranza dei documenti presenti sia di carattere scientifico, non è da escludere che in futuro questo servizio, sorta di ibrido tra archivio / biblioteca personale e gruppo di lavoro online, venga usato per creare documenti di rilevanza pubblica (mi vien in mente, giusto per fare un esempio, la prassi sempre più diffusa di sottoporre ad una “revisione” pubblica disegni di legge, bozze di regolamenti, etc.).
Affianco a questo uso dei social network in quanto “giacimenti di informazioni” permane quello che li considera (non a torto) strumenti propedeutici all’attività istituzionale: da manuale il caso di Twitter, il quale annovera tra i suoi tweeter non solo privati cittadini ma anche politici, enti pubblici ed aziende. I cinguettii di questi ultimi si affiancano in tutto e per tutto ai tradizionali comunicati stampa “unidirezionali” ed in quanto tali andrebbero conservati così come conserviamo i corrispettivi cartacei (conscia dell’importanza di alcuni tweet da quasi due anni la Library of Congress conserva tutti i cinguettii lanciati nel mondo; se sul merito sono d’accordo, sul metodo – conservazione indiscriminata dell’intero archivio – nutro più di un dubbio). Per inciso l’uso di Twitter da parte di personalità pubbliche crea casi ibridi decisamente interessanti (e problematici): l’attuale Ministro degli Affari Esteri italiano, Giulio Terzi di Sant’Agata, ha un suo profilo personale (non legato dunque alla carica che ricopre) dal quale però lancia tweet inerenti al suo incarico i quali di norma anticipano nel contenuto un successivo comunicato stampa od una nota ufficiale rilasciata dalla Farnesina ma che talvolta non sono seguiti da alcuna comunicazione ministeriale e pertanto devono essere considerati come opinioni personali dello stesso.
Frutto del medesimo approccio “strumentale” è quanto fatto dalla Direzione Generale per gli Archivi (DGA) con il suo canale YouTube, nel quale sono caricati VHS digitalizzati provenienti da diversi archivi italiani: se da un lato con ciò si ribadisce la volontà della pubblica amministrazione di andare dai cittadini là dove questi trascorrono gran parte del loro tempo, dall’altro c’è da interrogarsi sulla natura di quell’archivio “parallelo” (peraltro frutto di una operazione di selezione che archivisticamente parlando può sollevare qualche perplessità) che viene a crearsi su YouTube e soprattutto sulla natura di YouTube stesso, che allontanandosi dal suo motto Broadcast Yourself sembra tornare alle origini allorquando la parola d’ordine era “L’archivio digitale dei tuoi video”: ed è innegabile che in esso, seppur in modo accidentale, venga a formarsi un formidabile “archivio” di video alla portata di click di ciascun cittadino.
Una funzione analoga a YouTube è svolta, per quanto riguarda la foto, da Flickr e dall’astro nascente Pinterest, nei quali fotografi professionisti, architetti, designer, etc. caricano, condividono e conservano le proprie creazioni: anche in questo caso c’è da chiedersi (provocatoriamente) se questi servizi possano rappresentare gli Archivi Alinari del futuro.
Finisco questa carrellata con quello che è universalmente riconosciuto come il principe dei social network, Facebook: nato come servizio che consente alle persone di rimanere in contatto con i propri amici ha successivamente aperto le porte, per motivi di business, anche alle aziende ed alle organizzazioni. Di particolare rilevanza ai fini del discorso che sto qui facendo la nuova funzionalità Timeline: in pratica chiunque abbia un profilo può inserire, lungo una linea del tempo digitale, foto, eventi, video, etc. relativi a fatti accaduti in quel determinato momento. In tal modo un’intera vita può essere ricostruita e “postata”; se per la maggior parte degli utenti si tratterebbe di un’operazione ex post, per un’azienda fondata oggi o per un neonato (in tal caso il profilo ovviamente sarebbe gestito da un genitore; cercate, su FB ci sono già i primi esempi) è tecnicamente possibile riempire questa linea del tempo praticamente in real time al punto che, tra venti o trent’anni, potremmo essere in grado di ripercorrere un’intera esistenza giorno per giorno. Insomma, ci avviciniamo passo dopo passo al concetto una volta fantascientifico di vita digitale!
Ma tornando più sul concreto, le applicazioni pratiche di Facebook Timeline sono particolarmente interessanti per quanto riguarda il versante delle aziende / organizzazioni: sui principali quotidiani è ad esempio circolato il caso di Coca Cola Company la quale ha postato la foto del suo fondatore ed immagini delle prime bottiglie di questa famosa bibita recuperate dal proprio archivio d’impresa. Ancor più ricca di contenuti, a mio avviso, la pagina dell’US Army (per accedervi bisogna essere registrati a FB): dal 1775, anno della Dichiarazione d’Indipendenza ai giorni nostri, la storia dell’esercito è ricostruita attraverso foto, documenti e video molti dei quali provenienti dai National Archives. Una caratteristica molto affascinante è che man mano che ci si avvicina ai giorni nostri i contributi sono sempre più abbondanti e “fitti” fino a diventare pressoché minuto per minuto, con post da ogni parte del mondo e riferimenti ai più svariati reparti, da quelli impiegati in teatri operativi a quelli della Guardia Nazionale!
Giunti al termine di questa giocoforza rapida carrellata, mi sembra che si possa affermare che il rapporto archivi / social network, nella duplice funzione di “utile strumento” e “deposito di documenti digitali”, sia più vivo che mai e proprio per questo non vada affatto trascurato ma anzi seguito con attenzione nella sua evoluzione futura.
17 Mar
Futuro dell’editoria, ruolo delle biblioteche, cloud… e la necessità di una visione integrata
Scrivo questo post reduce da un autentico tour de force al Convegno delle Stelline / Bibliostar, con tutte le interessantissime relazioni ed i dibattiti da queste scaturiti che mi frullano per la testa… eppure non riesco a togliermi l’idea che in quanto ascoltato ci sia qualcosa che non torna.
Mi spiego: fatta salva la sessione iniziale, ho seguito incontri paralleli e seminari di stretta attinenza con gli argomenti che più mi interessano e che poi puntualmente ritornano in questo blog (vale a dire ebook ed ereader, punti di contatto tra biblioteche ed archivi, cloud computing e via discorrendo), ma ho avuto la netta impressione che gli interventi dei vari relatori, senz’ombra di dubbio tra i massimi esperti nei rispettivi campi, mancassero della necessaria visione d’insieme (sarà forse un caso, ma la relazione che più mi ha colpito è stata quella introduttiva di Maurizio Ferraris che NON è un bibliotecario, insegnando egli filosofia teoretica a Torino). Una serie di esempi renderanno perfettamente l’idea: parlando dell’accoppiata ebook – ereader si ricordava come il loro uso in ambito didattico non sia la panacea per tutti i mali, essendo (in certi contesti) meno efficaci per l’apprendimento rispetto ai tradizionali testi scolastici di carta; parlando di biblioteca non c’è una visione comune su cosa essa dovrà fare (a proposito quasi opposte le posizioni di Riccardo Ridi e Davis Lankes, con il primo ancorato a compiti più “tradizionali” come quello, tra i tanti, della conservazione ed il secondo tutto proteso verso l’erogazione dei più disparati servizi); parlando di cloud computing ascoltando l’esperto di diritto vien semplicemente da lasciar perdere tutto tali e tanti sono gli ostacoli ed i rischi! Intendiamoci, è comprensibile che essi, proprio perché profondi conoscitori dei vari ambiti, sentano quasi il dovere di evidenziare pregi e difetti, ma potrete capire come l’ascoltatore, dopo essersi sentito dire per due giorni che quelle novità che si ritiene rappresenteranno il futuro non si sa se facciano più bene o più male, non possa sentirsi perlomeno spiazzato.
Tanto più, e qui ritorno al punto iniziale, che mancava nell’analisi una visione complessiva delle trasformazioni; capisco che stiamo parlando di seminari di approfondimento e magari si da per acquisito il contesto di riferimento ma se non si tiene presente il quadro generale il rischio di giungere a conclusioni erronee e drastiche è sempre dietro l’angolo.
Anche perché a mio avviso (e chi ha letto i miei vecchi post ben lo sa) non è possibile scindere la diffusione dei vari device da quella dei contenuti (ebook, ejournal, risorse in genere disseminate su repository in Rete e via discorrendo) e dall’infrastruttura (il cloud) che rendono possibile tutto ciò e che sono nel contempo causa e conseguenza delle trasformazioni in atto a tutti i livelli (di utilizzatore finale, di biblioteca intermediatrice, di editori produttori e/o distributori) nelle modalità di creazione, fruizione e conservazione.
Chiarisco meglio la mia posizione: se rinunciamo agli ebook nella didattica (senza entrare nel merito, ma solo per riprendere l’esempio citato) rinunciamo ad un fattore propulsivo nella diffusione dei dispositivi di lettura; se facciamo a meno del modello del cloud computing e soprattutto all’infrastruttura che lo supporta non solo le potenzialità tecnologiche dei medesimi dispositivi escono ridimensionate ma anche ciò che noi in quanto utenti possiamo fare (usare, creare, salvare e modificare contenuti, condividere, diffondere, etc.); viceversa, senza un’infrastruttura adeguata i nuovi device diventano meno appetibili e a cascata gli ebook hanno meno appeal…
Appare evidente che è un sistema altamente interconnesso e che pertanto le biblioteche non possono rinunciare a nessuno degli aspetti elencati a patto di venir velocemente estromesse da queste realtà avanzate; corollario di tutto ciò è, per concludere, che le biblioteche (ma è più sensato parlare del settore dei beni culturali tout court, ma questo è un altro discorso…) inizino a dotarsi di quell’infrastruttura che ne costituisce il presupposto e che attorno a queste creino il proprio ecosistema di relazioni, applicazioni, risorse. Il futuro delle biblioteche è questo e può essere roseo.
16 Mar
Open data a Milano, ma gli archivi dove sono?
L’altro ieri il Comune di Milano ha presentato con una certa enfasi il progetto Open Data, con il quale si rendono disponibili (lo evidenzio perché pubblici lo sono già) e soprattutto liberamente usabili quei dati raccolti dal Comune stesso, il tutto con la speranza che i cittadini creino app capaci di migliorare la vita della città dando ad esempio informazioni in tempo reale sul traffico, sui parcheggi liberi, sui tombini intasati, sulle buche presenti sul manto stradale, etc.
Naturalmente l’iniziativa va accolta con il massimo favore, anche se voglio fare un po’ il guastafeste sottolineando un paio di note dolenti / aspetti critici, i primi due dei quali sono di natura “archivistica”, i rimanenti due di ordine più generale: 1) nell’iniziativa milanese sono, in questa fase iniziale, coinvolti la direzione informatica ed il settore statistica con i rispettivi dati; anche se è già stato anticipato che progressivamente verranno resi disponibili tutti i dati di tutte le aree organizzative, mi aspettavo quanto meno un cenno di riguardo per gli archivi (correnti in primis, ma anche quelli di deposito potrebbero fornire serie storiche più che utili!) dal momento che dai documenti in essi contenuti si possono estrapolare dati a volontà! In altri termini rappresentano delle autentiche miniere! 2) i dati sono “pubblici” nel senso pieno del termine, ovvero in quanto provenienti (anche) dai cittadini e non esclusivamente da enti od organizzazioni pubbliche / a rilevanza pubblica; questo punto merita due ulteriori riflessioni: a) se da un lato quei dati provenienti dai cittadini contribuiscono a far funzionare il sistema nel suo complesso, dall’altro va riconosciuto che la loro veridicità (non parlo nemmeno di autenticità, affidabilità, etc.) non può essere paragonabile a quella dei dati provenienti, per stare in tema, dagli archivi b) tutti questi dati confluiscono in una struttura informatica che si rifà al paradigma del cloud computing e vengono aggregati a seconda delle esigenze (avvicinandosi pertanto al modello di vista documentale) 3) prendendo il modello statunitense, che è sicuramente avanti di un paio d’anni rispetto a noi, come punto di riferimento, è evidente come gli open data necessitino, come presupposto, di una tensione civica che non si crea dal nulla! Insomma, non basta “liberare i dati”, ma occorre che muti l’atteggiamento dei cittadini, cosa che non avviene da un giorno all’altro! Che si tratti di una conditio sine qua non ne ho avuto la prova guardando la diretta streaming dell’SXSW in corso ad Austin, nel corso del quale Jennifer Pahlka, fondatrice dell’organizzazione Code for America, ha espressamente sostenuto la tesi che government is what we do together, richiedendo in questo senso una attiva mobilitazione della cittadinanza la quale finisce quasi per “soppiantare” i governi locali 4) ora, ovviamente mi auguro che un simile slancio attraversi l’italica penisola ma anche se ciò avvenisse potrebbe non bastare: la Pubblica Amministrazione italiana, purtroppo, è notoriamente caratterizzata da burocratizzazione, eccesso di formalità e di formalismi, impersonalità (nonostante la 241/1990), opacità e scarsa trasparenza (anche qui alla faccia della 241). Tutte caratteristiche, ahimè, che stridono (tornando oltre Atlantico), con l’obiettivo dichiarato di Code for America, ovvero a) collaborare gomito a gomito con gli amministratori cittadini b) realizzando soluzioni web based capaci di migliorare la città. La collaborazione di cui al punto a) è ottenibile, secondo Code for America, a patto che vengano rimossi gli ostacoli burocratici e ci sia voglia di trasparenza; così facendo si arriverebbe ad un cambio del paradigma stesso con cui si governa la città, sintetizzato dall’efficace slogan “government as a platform“.
Sfide, si intuisce, difficili anche per gli Stati Uniti e che se venissero realizzate in Italia anche solo per la metà rappresenterebbero niente meno che una rivoluzione copernicana per come viene intesa la gestione della cosa pubblica e per il nuovo rapporto che si verrebbe ad instaurare tra amministratori ed amministrati; rapporto, per concludere, assai delicato e che vedrebbe, nel futuro così come nel passato, gli archivi in un ruolo chiave.
8 Mar
Grandi biblioteche: servono ancora?
In un momento di crisi economica qual è l’attuale è frequente sentire discorsi del tipo: “i tagli riguardano tutti ed è normale che anche la cultura sia colpita” o al contrario “no, la cultura è la principale ricchezza del paese ed è esattamente questo il momento per investirci”. Sebbene il sottoscritto abbracci in toto la seconda delle due (tra l’altro sono in compagnia di fior di economisti; si veda a riguardo l’iniziativa lanciata dal Sole 24 Ore, principale quotidiano economico italiano), alla luce della lettura dell’articolo Queda en cibercafé la Megabiblioteca Vasconcelos en el DF, mi chiedo e chiedo provocatoriamente: ma siamo davvero sicuri che qualsiasi investimento in cultura sia davvero giustificato? i soldi spesi per realizzare una mega biblioteca come quella descritta nell’articolo rappresentano davvero un buon investimento?
I fatti, così come raccontati dall’estensore del pezzo, sono i seguenti: a sei anni dall’inaugurazione questa avveneristica biblioteca si sarebbe ridotta a mero cibercafé; certo, gli stanziamenti promessi per lo sviluppo delle collezioni non sono arrivati nelle cifre previste (2 milioni di pesos dal 2007 al 2011 a fronte dei 5 milioni annui ritenuti necessari) ma è altrettanto vero che i principali indicatori statistici non sono positivi: 1.714.228 accessi (di utenti; n.d.r.) nel 2011 a fronte di stime che prevedevano dai 4 ai 5 milioni annui, la metà quasi dei quali (735.000) vi si è recata per navigare in Internet. Non soddisfacenti nemmeno i dati sui prestiti: posto che appena il 4,7% dei visitatori (ovvero 81.275 persone) possiedono le credenziali (vale a dire, sono registrati per i servizi di prestito), i prestiti a domicilio sono stati solamente 355.391, cioè poco più di 4 libri a testa, mentre le letture in sala (non so esattamente come calcolate, essendo la biblioteca chiaramente a scaffale aperto) sono assommate a 495.105. Aggiungendo, ciliegina sulla torta, che la struttura presenta problemi di infiltrazioni d’acqua al settimo piano (motivo per cui si è dovuto procedere per ben due volte alla chiusura straordinaria della biblioteca) è evidente come il giudizio complessivo su quest’opera faraonica dall’astronomico costo di 98 milioni di dollari (questa la cifra inizialmente messa a bilancio, in realtà sono stati molti di più proprio per rimediare ai difetti strutturali di cui sopra) presenti molte ombre!
Astraendo dal caso specifico della Vasconcelos, il punto nodale è a mio parere il seguente: ha senso, in un mondo come quello attuale in cui i contenuti si vanno digitalizzando e l’accesso avverrà in maniera crescente da remoto attraverso i più disparati dispositivi, realizzare biblioteche colossali dai costi fissi di gestione immani? Prevedere chilometri lineari di scaffali che probabilmente mai verranno riempiti giacché gran parte dei libri verranno richiesti e fruiti esclusivamente in modalità digitale? Predisporre decine se non centinaia di postazioni Internet fisse quando oramai la navigazione avviene in mobilità?
Ovviamente no e questo vale per la Vasconcelos (tanto più che in Messico il compito di conservare la produzione nazionale spetta alla Biblioteca Nacional de México), per la “nostra” BEIC (qualora qualcuno abbia ancora intenzione di buttarci sopra soldi!) e per qualsiasi altro progetto che abbia lo scopo di assecondare le manie di grandeur del politico / potente di turno e gli interessi speculativi dei costruttori.
Il modo corretto di procedere è, al contrario, quello di effettuare una seria analisi preliminare del bacino di utenza e delle relative esigenze informative (intese qui in senso lato), calando il tutto nel contesto culturale, sociale e tecnologico. Se tale analisi fosse stata fatta, magari sarebbe saltato fuori che in una megalopoli come Città del Messico (quasi 20 milioni di abitanti considerando l’intera conurbazione) era più utile e conveniente creare strutture diffuse sul territorio (o potenziare le esistenti, non conosco nel dettaglio la realtà messicana) capaci di erogare servizi differenziati che trascendono il mero prestito librario. Qualcosa di affine, per intenderci, agli Idea store londinesi, nei quali oltre ai soliti libri, periodici, film e via discorrendo si organizzano corsi di lingua per i neo-immigrati, si danno informazioni tipo “sportello del cittadino”, espongono offerte di lavoro, forniscono notizie sui mezzi di trasporto, sulle iniziative delle associazioni locali, etc.
In definitiva è esattamente grazie a questa attenta analisi preliminare che ogni specifica realtà potrebbe individuare la propria “via alla biblioteca”; in Italia, ad esempio, le sfide poste dall’immigrazione sono diverse da quelle britanniche ed infatti, complice l’assenza di vere metropoli, non esistono quartieri interamente abitati da immigrati (con relativi noti problemi). Al contrario il modello che va per la maggiore è quello della città diffusa che storicamente affonda le sue radici nell’Italia dei Comuni, motivo che farebbe propendere per la realizzazione di strutture decentrate di medie dimensioni e capaci di offrire servizi calibrati sulle reali esigenze (attuali e future, espresse ed inespresse) della comunità di riferimento.
Alla luce di quanto esposto, mi azzarderei pertanto a sostenere che oggigiorno nel mondo, e a maggior ragione in Italia, NON c’è bisogno di realizzare grandi biblioteche (bastano ed avanzano le Nazionali Centrali) essendo le uniche strutture di una certa dimensione delle quali veramente c’è bisogno quelle informatiche, deputate a fungere da “punti di accumulo” delle risorse digitali che poi dovranno venir distribuite, in vista della loro fruizione attraverso molteplici piattaforme, ai vari client, siano essi biblioteche, istituzioni, etc. o gli utenti / cittadini stessi.









