Nel giorno in cui in Italia l’asta per le frequenze 4G parte in tono minore, un post apparso sul blog dell’analista di Forrester Sarah Rotman Epps fa discutere blogger e commentatori di mezzo mondo. In esso l’autrice, in breve, sostiene che il tablet di Amazon non solo ci sarà (inizi ottobre la data di lancio stimata) ma sarà anche venduto nella bellezza di 3-5 milioni di pezzi nel solo ultimo trimestre del 2011! Insomma, Rotman Epps si è sbilanciata e non di poco, ma a rinforzare le sue previsioni sono le seguenti considerazioni:
1) diversamente da Apple, la maggior parte dei profitti di Amazon non provengono ancora dall’hardware e pertanto su questo terreno l’azienda di Seattle può dar battaglia (il prezzo, contenuto entro i 300 dollari, dovrebbe a tal riguardo essere un ottimo incentivo all’acquisto)
2) Amazon potrà sfruttare le potenzialità di crescita di Android Honeycomb, sistema operativo sul quale si baserà la nuova tavoletta
3) Amazon ha dalla sua anni di esperienza nella vendita di contenuti e soprattutto un’infrastruttura cloud da far invidia, tale da renderla l’unica azienda capace di lanciare con successo la sfida ad Apple, dopo che molti ci hanno tentato invano (RIM, Samsung, HP – che forse però sta ripensando sulla scelta di mollare tutta la divisione PSG).
Personalmente le considerazioni di primo acchito che ho fatto leggendo questo interessante post sono state:
1) qui stiamo parlando di aria fritta, non avendo Amazon finora MAI, nemmeno implicitamente, ammesso di essere al lavoro su un tablet; d’accordo, mi si potrà obiettare che Apple ci ha costruito le sue campagne mediatiche sull’attesa, ma qui non è uscito nulla di nulla, nemmeno la minima indiscrezione tecnica o una foto rubata, come di solito avviene!
2) ammesso e concesso che la tavoletta made in Seattle si faccia (mai dire mai, intendiamoci), lo sbarco su Android sarebbe una benedizione; troppo chiuso, come scritto in precedenti post, il software del Kindle (anche se la recente presentazione di Kindle Cloud Reader, basato su un mix di HTML5 e cloud, forse testimonia un’inversione di rotta)!
3) in ogni caso stiamo facendo i conti senza l’oste, in quanto ci si dimentica completamente di Google; l’azienda di Mountain View ha al pari di Amazon una struttura cloud formidabile e la suite Google Docs, giusto per fare un esempio, trova la sua ragion d’essere se usata in mobilità; dunque, pur riconoscendo i passi falsi compiuti con il Nexus One e probabilmente anche con il Chromebook (non ci sono ancora dati ufficiali ma la sensazione, leggendo nella Rete, è che dopo un’accoglienza discreta, l’interesse sia rapidamente scemato), non si può non pensare che la recente acquisizione di Motorola non porterà alla realizzazione di un tablet.
Questi, dunque, i miei primi pensieri finché leggevo il post di Rotman Epps; dopo una fisiologica metabolizzazione sono però giunto a quello che è il vero nocciolo del problema: se ancora ad inizio anno discettavo su “Tablet VS eReader” oggi un simile discorso sarebbe chiuso in partenza: tablet tutta la vita, e non solo perché HP sta svendendo i suoi TouchPad ad un prezzo inferiore a molti e-reader!
Il punto è che il tablet svolge, nel bene e nel male, una centralità nelle scelte strategiche dei colossi dell’informatica che gli e-reader semplicemente non hanno mai avuto né mai avranno. Tale centralità discende dalla preferenza che verrà loro accordata, in virtù della loro versatilità e “mobilità”, dal singolo utilizzatore, vuoi in quanto privato cittadino vuoi in quanto appartenente ad un’organizzazione più complessa.
Né è difficile scorgere, sullo sfondo del trionfo prossimo venturo del tablet, trionfo che beninteso sarà relativo in quanto altri dispositivi saranno sempre presenti e che andrà a braccetto con quello del cloud computing, le importanti implicazioni archivistiche.
Il tablet infatti, proprio per così come è concepito, farà apparire conveniente ai suoi utilizzatori (si tratti dello studente, del businessman oppure ancora del dirigente della Pubblica Amministrazione) scrivere, leggere, creare, commentare, archiviare, etc. sulla nuvola. La tavoletta, con la sua linea minimale ed accattivante, sarà in buona sostanza un formidabile “cavallo di Troia” per la realizzazione di quello scenario in cui le nostre esistenze saranno “digitali” e noi stessi always on.
La tavoletta conservata presso il Museo dell'Archeologia Subacquea di Bodrum
Questo post risente chiaramente del clima pienamente Ferragostano nel quale esso viene scritto non solo per il caldo torrido che caratterizza questo scampolo di estate ma anche perché l’input principale alla sua concezione deriva direttamente da un oggetto nel quale mi sono imbattuto nel corso delle mie (relativamente) meritate ferie.
Si dà infatti il caso che presso il Museo di Archeologia Subacquea di Bodrum (l’antica Alicarnasso) sia conservata una tavoletta scrittoria, una sorta di tablet ante litteram, che effettivamente affascina per la somiglianza esteriore con alcuni dei tablet che, pedissequamente ricalcati sulla forma del libro, venivano proposti fino a qualche anno fa (mi riferisco in particolare al poi abortito Microsoft Courier), cioè almeno sino a quando Apple ha imposto con l’iPad la standard de facto delle tavolette a “piatto unico”.
Il “tablet” conservato presso il museo di Bodrum è simile in tutto e per tutto a quelli descritti in molti manuali: le due tavolette lignee scavate, legate assieme attraverso una sorta di “cerniera” ossea (spesso avorio finemente intarsiato), venivano riempite di cera sulla quale, una volta che quest’ultima si era raffreddata, si potevano scrivere brevi testi. Insomma si trattava, al pari delle tavolette odierne, di strumenti flessibili, portatili e di uso quotidiano (in particolare sembra venissero usate a fini didattici).
Torno dunque dalle ferie pensando a come, pur con le ovvie differenze, si possa ravvisare una continuità, oserei dire una path dependence millenaria, tra le tavolette d’allora e quelle d’oggigiorno, sennonché apprendo che il colosso HP, a poco più di un anno dall’acquisizione della gloriosa ma decaduta Palm, che – giusto per restare in ambito greco-antico – avrebbe dovuto fungere da cavallo di Troia per entrare nel mondo degli smartphone e delle tavolette, sta valutando la cessione o scissione (spin-off) della divisione PC per focalizzarsi sulla fornitura dei servizi. Contestualmente l’azienda di Palo Alto inizia a svendere letteralmente sottocosto (99,99 $) il proprio TouchPad lanciato ad inizio luglio ad un prezzo di circa 300 dollari maggiore. Si tratta di un drastica inversione di rotta che i vari analisti hanno spiegato con un insieme di motivazioni tra le quali: 1) l’utile per azione non è in linea con le attese degli azionisti, per cui si è reso necessario effettuare tagli 2) in definitiva HP fa quello fatto anni orsono da IBM, allorquando aveva ceduto la propria divisione computer a Lenovo per puntare tutto sui servizi, che in futuro sempre più verranno erogati in modalità cloud computing 3) HP ha realisticamente ammesso lo strapotere di Apple rinunciando alla battaglia (e di investire ancora soldi invano).
A mio modestissimo parere si tratta di una decisione prematura in quanto, come in parte già scritto nel mio “Archivi e biblioteche tra le nuvole” (perdonate l’autocitazione) nel momento in cui descrivevo la strategia di HP nel cloud, se è vero che i servizi sulla nuvola saranno il futuro (inclusi quelli di natura “documentaria e libraria”), con questa scelta ci si priva irreversibilmente di una gamba che in linea di principio avrebbe potuto facilitare la penetrazione di quei servizi che l’azienda californiana intende fornire (si pensi a riguardo al ruolo di supporto reciproco svolto per Amazon dal Kindle nella diffusione degli e-book e dagli e-book nella diffusione dell’e-reader dell’azienda di Seattle); tanto più che Palm nonostante tutto poteva ancora godere rispetto ai competitor dell’appeal di un marchio che ha fatto la storia della tecnologia. Dopo quello della Mela, of course.
Un recente studio di Gartner, significativamente intitolato “Greening the Cloud: Location Is Critical for the Sustainable Future of Outsourced Data Storage and Services”, offre una prospettiva d’analisi diversa relativamente alle modalità di implementazione del cloud computing in generale e della propria server farm nello specifico.
Fino ad oggi infatti la maggior parte degli studi poneva l’attenzione sui vantaggi “convenzionali” ottenibili affidando a terzi la propria infrastruttura IT. I fattori generalmente citati come positivi andavano dal risparmio nell’acquisizione di hardware alla successiva gestione e manutenzione, alla sua scalabilità nonché ai miglioramenti “operativi” con ricadute finali sulla produttività complessiva dell’organizzazione. I benefici dunque in quest’ottica rientravano in tre grandi categorie: finanziari, tecnologici (= un’infrastruttura più snella e competitiva ideale per un mondo in cui mobilità e connettività “sempre ed ovunque” sono ormai elementi imprescindibili) ed operativi.
A fronte di questi vantaggi gli aspetti negativi che gli esperti erano (sono) soliti sollevare riguarda(va)no la sicurezza dei dati sensibili risiedenti presso server di terzi (ovviamente siamo nel caso di public cloud) ed i conseguenti rischi operativi e soprattutto legali derivanti dalla scelta di ricorrere ai servizi sulla nuvola.
Paradossalmente quello della sicurezza dei dati, che per molti sarebbero fortemente a rischio, era (è) un punto che gli esperti pro cloud sistematicamente presenta(va)no come punto di forza della nuvola in quanto a loro avviso in un sistema basato su di essa la ridondanza dei dati e delle infrastrutture, la sicurezza delle location fisiche (realizzate in luoghi geograficamente a basso rischio di disastro naturale / ambientale e dotate dei migliori sistemi di sicurezza, monitorati h24 da personale altamente qualificato), etc. darebbero massime garanzie in termini non solo di sopravvivenza dei dati ma anche di business continuity. Insomma, secondo costoro se non è il non plus ultra poco ci manca!
Lo studio Gartner che mi ha dato lo spunto per questo articolo si inserisce in questo contesto, nel quale le valutazioni di ordine economico sono di primaria importanza, ma compie un salto di qualità; infatti se fino ad oggi nel momento in cui si decideva dove localizzare geograficamente la propria infrastruttura IT si tenevano per l’appunto a mente aspetti quali sismicità della zona, presenza di corsi d’acqua (= rischio esondazione) o per contro vicinanza al mare (= tsunami) e via discorrendo (tutti aspetti che dovrebbero essere ben analizzati, predisponendo contestualmente adeguate contromisure, nei vari piani di sicurezza e di disaster recovery) ora gli analisti Gartner evidenziano come un altro aspetto vada tenuto in debita considerazione: la disponibilità in loco di energia pulita.
Come accennavo, le basi del ragionamento sono squisitamente economiche: poiché una delle principali voci di costo nel mantenimento delle imponenti server farm è quella energetica (i consumi vanno alle stelle soprattutto per riscaldare / raffreddare gli impianti e gli ambienti tout court), tutte quelle aziende che intendono passare al cloud come scelta strategica di lungo periodo dovrebbero localizzare le proprie infrastrutture IT / affidarsi ad aziende localizzate in luoghi e/o nazioni nei quali vi sia abbondanza di energia pulita e possibilmente low cost.
L’esempio portato da Gartner è lampante: l’Australia, troppo dipendente dal carbone (ed in generale dai combustibili fossili), sconterebbe uno “svantaggio competitivo” rispetto alla “vicina” Nuova Zelanda, dove un giusto mix di energie rinnovabili (eolico, fotovoltaico, etc.) garantirebbe, grazie anche alla politica governativa che tende ad incentivarne l’uso, notevoli vantaggi a quelle aziende che intendono qui impiantare la loro server farm (se si guarda al rischio sismico, lasciatemi dire, non si tratta di un bell’affare…). Ovviamente, conclude Gartner, l’accesso ad energia “verde” e ad un prezzo accessibile non è che un tassello nella risoluzione del “problema energetico”; così sarebbe auspicabile che dal punto di vista costruttivo oltre agli aspetti di sicurezza (impianti antincendio, porte tagliafuoco, etc.) si tenesse conto di fattori quali l’isolamento termico / dispersione del calore e magari integrando nelle strutture stesse delle farm pannelli fotovoltaici a film “di nuova generazione” e via discorrendo!
Insomma, uno studio che apre nuove prospettive anche per paesi come l’Italia (che in fatto di rinnovabili sta facendo notevoli passi in avanti e che ha un enorme potenziale inespresso, anche se ad oggi la dipendenza dai combustibili fossili resta schiacciante), dove altri fattori (elevata percentuale di territorio a rischio idrogeologico e/o sismico su tutti, ma anche scarsa disponibilità di personale skilled reperibile sul posto) sembrerebbero giocare a suo sfavore e che viene incontro, specie per le Pubbliche Amministrazioni, a quelle che sono precise disposizioni di legge (che prevedono ad esempio la residenza di particolari tipi di dati all’interno di server situati geograficamente sul territorio nazionale) nonché alla particolare “sensibilità” di istituzioni quali gli archivi e le biblioteche, per i quali il patrimonio culturale dell’Italia (digitalizzato o in via di produzione che sia) non può e non deve finire all’estero per la mera necessità di risparmiare.
Come ormai consueto ho creato una versione storyfizzata (pertanto fornita degli opportuni link e riferimenti) di questo post: per questa lettura “alternativa” cliccate qui.
Delle due l’una: o chi esegue i sondaggi ha preso un granchio oppure le persone intervistate dicono quel che vogliono!
Già, perché il senso di disorientamento è notevole almeno a leggere i risultati di due diverse ricerche apparsi a distanza di poche ore sui siti online dei principali quotidiani nazionali.
Da una parte Alessia Rastelli che dalle colonne virtuali del Corriere.it cita i dati di una ricerca di A. T. Kearney (presentati in occasione dell’anno di vita di Bookrepublic.it) secondo il quale entro gennaio 2012 si venderanno un milione e mezzo di e-book, una cifra venti volte superiore a quanto fatto nel 2010, dall’altra il CENSIS, che nel suo “9° rapporto CENSIS /Ucsi sulla comunicazione” fotografa per l’e-book una situazione addirittura di regresso (e non di “mancato sfondamento” come sostenuto da qualche commentatore); in particolare in Tabella 1 “L’evoluzione del consumo dei media: l’utenza complessiva” si evidenzia come rispetto al 2,4% di fruitori nel 2009 si sia passati all’1,7%, con un saldo dunque negativo dello 0,7% (cifre peraltro lontanissime dal 10% circa degli Stati Uniti)!
D’accordo, il primo sondaggio parla di vendita di titoli ed il secondo di utilizzatori, quindi in linea teorica è possibile che l'(indiscutibile) accresciuta disponibilità di titoli possa tradursi in una crescita complessiva del “volume” di e-book pur in una generale stagnazione del numero di utilizzatori (soprattutto essendo questi ultimi “tecnofan” e/o grandi lettori), ma la cosa mi sembra molto improbabile in presenza di un loro regresso! Un minimo di correlazione dovrebbe pur esserci!
Questi dati, in particolare quelli del sondaggio CENSIS, offrono lo spunto per un’ulteriore riflessione: in Italia non sono ancora stati rimossi tutti quegli ostacoli che si frappongono al decollo del digitale, ovvero alfabetizzazione informatica, presenza di un’adeguata infrastruttura di tlc (fissa e mobile), penetrazione di Internet (per la prima volta abbiamo superato il 50%, ma siamo sempre lontani dalla media UE), rilevanza dell’e-commerce, ricorso alle nuove tecnologie da parte delle Pubbliche Amministrazioni, etc. Tutti aspetti già rilevati nel mio “Archivi e biblioteche tra le nuvole” (perdonatemi l’autoreferenzialità) e che mi spingono a sostenere che oggi come un decennio fa ci troviamo, come sosteneva Michele Santoro in un suo famoso saggio, ancora “a metà del guado”.
PS Per la versione “storyfizzata” di questo post, cliccate qui.
La notizia, lanciata da DigiTimes e ripresa dai principali blog, è di quelle che fanno riflettere: Amazon, pioniera negli ebook con il suo e-reader Kindle si appresterebbe a lanciare il suo tablet, costruito in gran segreto dai suoi fornitori taiwanesi.
Si dirà: in tanti finora ci hanno tentato e nonostante i roboanti lanci le varie Samsung, HTC, Olivetti (a proposito: ormai sono passati 3 mesi dal lancio e sul sito ufficiale di Olivetti nessun comunicato stampa da indicazioni sulle vendite trimestrali: non è che “quota 100mila”, indicata come obiettivo, si sia rivelata un miraggio, tanto più che a luglio dovrebbe debuttare l’Olipad 2 Honeycomb?), Blackberry, Motorola, etc. hanno dovuto inchinarsi di fronte a sua maestà iPad.
Adesso (il condizionale d’obbligo) sarebbe dunque giunto il turno di Amazon nel lanciare il guanto di sfida, ma sin da ora appare chiaro che l’esito della battaglia (sul quale ovviamente influiranno fattori come prezzo, apertura del sistema, caratteristiche tecniche, design, app di contorno, etc.) sarà fondamentale (soprattutto per Amazon) giacché la sconfitta significherebbe il venir tagliati fuori da questo ricchissimo segmento. Appartengo infatti alla schiera di coloro che ritengono che nel giro di un paio di “generazioni” il tablet colmerà l’esistente gap in termini di facilità di lettura e grazie anche al progressivo calo dei prezzi medi (almeno per i prodotti non di punta) diventerà il dispositivo principe per i sempre più prevalenti scopi di “infotainment”.
In questo senso gli e-reader, che pur sopravviveranno, giocheranno un ruolo residuale (relativamente alla capacità di generare profitti e conseguentemente nelle strategie di business). Di qui l’importanza fondamentale per Amazon di avere tra le mani un tablet di successo.
PS Come mi auguro di fare il più frequente possibile ho realizzato con Storify una versione “avanzata” di questo post; in futuro spero di risolvere il problema di sincronizzazione ed incorporare direttamente la storia, intanto ecco il link: View “Tablet passo obbligato per Amazon?” on Storify
Storify: ecco un’applicazione utile per tutti coloro che sono attivi su più fronti digitali e non riescono a gestire il flusso d’informazione / le diverse (instabili) fonti, indipendentemente dalla loro provenienza (social network, siti web tradizionali) e dal formato (audio, video, testo, etc.).
Uno strumento peraltro di una facilità d’uso incredibile destinato non solo ad apprendisti giornalisti ma anche per i “professionisti”.
Un modo insomma per aggregare / assemblare informazioni su specifici argomenti rendendole immediatamente disponibili online: che poi si tratti, per archivisti e bibliotecari, di altro materiale meritevole di conservazione è tutto da vedere. Di certo il proposito di “archiviare il web” si fa sempre meno praticabile vista la crescita esponenziale di “dati”.
Un esempio pratico fatto al volo di come “funziona” Storify lo trovate a questo indirizzo (l’argomento trattato è il crash dei server di Amazon EC2).
Spesso i tablet vengono definiti come strumenti rivoluzionari: in realtà la mia impressione, accresciuta dalla visione del filmato qui sotto è che in molti casi essi ricerchino a tutti i costi la continuità con pratiche consolidate e rassicuranti. Ecco così che sull’HTC Flyer rispunta il pennino e la scrittura avviene a mano libera; la tastiera QWERTY rimane, certo, ma l’impressione che se ne ricava è che siamo di fronte, qui come altrove, ad una sorta di path dependance, come comprovato (giusto per restare in ambito di tavolette) dai periodici sviluppati apposta per essere fruiti attraverso dispositivi con schermo touch/multitouch: in essi le “pagine” non si scorrono più verticalmente (come nelle “tradizionali” pagine web) ma si sfogliano con le dita. Nihil novum sub solem?!
"Archivi e biblioteche tra le nuvole" (front cover)
Come preannunciato nel precedente post ho pubblicato un libro su cloud computing e dintorni.
In particolare parlo delle sue applicazioni in ambito archivistico e bibliotecario in sinergia con la diffusione dei nuovi mobile device, il che mi porta ad approfondire temi quali il social reading / networking, il fenomeno dello storage sulla nuvola e tutti i connessi problemi di privacy.
Del cloud computing tutti ne parlano: ne parlano i CFO e ne parlano i CIO, ne parlano gli economisti e ne parla il Garante della Privacy, ne parlano i nostri amministratori pubblici e ne parlano i costruttori di automobili. Ne parlano però poco o nulla gli archivisti ed i bibliotecari.
Eppure il cloud computing è già usato da tempo tanto da archivisti che da bibliotecari sia nella sua versione SaaS (Software as a Service; una volta si sarebbe detto client-server in opposizione a stand alone; n.d.r.) attraverso software come Clavis NG, ICA-Atom, x-Dams (nel sito ufficiale lo si definisce di tipo ASP, ma la sostanza non è molto diversa), sia nella sua versione IaaS (Infrastructure as a Service): che altro è una biblioteca digitale se non un esempio ante litteram di cloud computing? Che le risorse digitali siano stipate in server di proprietà o affittati dall’altra parte del mondo, poco cambia nella sua struttura logica!
Eppure a parte qualche riferimento sparso (soprattutto da parte di chi si occupa del lato “informatico”, uno su tutti Valdo Pasqui) pochi, veramente pochi lo citano in modo esplicito!
Scelta deliberata per non rispondere ai quesiti posti dalla nuvola o ignoranza?
PS Personalmente mi sono interessato al tema da qualche anno a questa parte e a breve pubblicherò qualcosa a riguardo.
Sempre più spesso si parla di social network dedicati al libro e si è soliti sentir dire che la scelta è ristretta tra aNobii e GoodReads. In effetti questa affermazione è sostanzialmente vera in quanto altri servizi (come Feedbooks) hanno una componente social estremamente limitata.
In questo post elenco in estrema sintesi i pro ed i contro di questi servizi; una sorta di guida per chi non sapesse su quale dei due puntare.
aNobii: si autodefinisce «an online reading community built by readers for readers allowing you to shelve, find and share books. Our mission is to bring book lovers together and encourage reading».
PRO:
oltre 25 milioni di libri tra cui scegliere
possibilità di inserirli in una propria libreria virtuale (shelf) e commentarli condividendo il tutto con gli amici
possibilità di a) acquistare il libro desiderato da più rivenditori online b) comprarlo (dietro pagamento di una somma da pattuire) oppure scambiarlo per un determinato periodo di tempo con un altro utente che dichiara di possederlo e che magari desidera leggere uno dei nostri libri
scritto in italiano
interessante funzione per smartphone => usati come lettori codice a barre per scoprire info su libri a partire dall’ISBN
CONTRO:
un po’ lento
non da possibilità di scaricare e-book
pochi widget
Goodreads : la sua mission «is to get people excited about reading. Along the way, we plan to improve the process of reading and learning throughout the world».
PRO:
consente di inserire libri in una propria libreria virtuale, commentandoli
i commenti non sono limitati al libro in sé ma si possono ad esempio fare citazioni tratte da altri testi
si possono velocemente invitare amici da tutti i social network più “generalisti” (Facebook, Twitter, MySpace, etc.)
dei libri individuati si possono avere preview che talvolta sfocia nel full text
c’è un’apposita sezione e-book
i libri li si può comprare
il sito in generale è più veloce rispetto ad aNobii
si può autopubblicare e promuovere il proprio libro
amplia scelta di widget
CONTRO:
LA VERSIONE ITALIANA NON E’ IMPLEMENTATA APPIENO =>
LA SCELTA DI TITOLI IN ITALIANO NON E’ ADEGUATA
non è possibile prestarsi libri tra utenti
NOTA DOLENTE FINALE, da parte di un bibliotecario deluso: nessuno dei due ricerca la minima integrazione con il mondo delle biblioteche.
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