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L’insostenibile leggerezza del cloud

ADrive

ADrive

Nel mio libro di cinque anni fa sul ruolo e sulle potenzialità del cloud computing in archivi e biblioteche, affrontavo gli impieghi di questo paradigma tecnologico – oggi conosciuto pure dai bambini – non solo nell’ambito di questi due istituti ma, in modo sperimentale (così come, piccolo inciso, sperimentale voleva essere il ricorso al self publishing…), pure nel contesto degli archivi digitali di persona.
In modo molto pratico e concreto, al fine di stabilire se gli spazi di memoria messi a disposizione sulla nuvola possedevano i requisiti previsti dalla teoria per essere riconosciuti o meno come archivi, descrivevo il funzionamento della versione free di tre servizi, vale a dire Memopal, ADrive e Dropbox (Google doveva ancora lanciare il suo Drive, giusto per capire quanto i tempi fossero pionieristici…).
L’e-mail arrivatami qualche giorno fa da ADrive, servizio che nel frattempo ho continuato seppur sporadicamente ad usare, e con la quale mi si avvisa che nell’ottica del continuo miglioramento e potenziamento del servizio la versione Basic a partire dall’1 gennaio 2016 scomparirà (proponendomi nel contempo di abbonarmi alla versione Premium a prezzo vantaggioso), mi ha spinto a controllare come sono messi i summenzionati servizi a distanza di un lustro (nota: per chi volesse rileggersi quanto scritto a suo tempo nel libro, di riferimento è il par. 3.4).

Diciamo innanzitutto, e non è poi una cosa così scontata considerata l’elevata mortalità delle aziende hi-tech, che tutti e tre i servizi sono vivi e vegeti, nel senso che non sono stati chiusi né oggetto di operazioni di merge & acquisition; anzi essi, in linea con il settore, godono di ottima salute ed in particolare Dropbox ne è uno dei leader indiscussi.
Ma veniamo al sodo! Memopal continua ad offrire, nella versione gratuita, 3 GB di spazio di memorizzazione sulla nuvola; pure a scorrere le specifiche di sicurezza non molto è cambiato: utilizzo dei protocolli HTTP / HTTPS ed SSL, RAID 5 e tecnologia MGFS (Memopal Geographical File Systems), scelta in capo all’utente dei file da caricare, possibilità di sincronizzazione multidevice (a prescindere dal sistema operativo), etc. La novità è data dalla posizione di “preminenza” data alle foto; così infatti recita il sito: “nella nostra web app tutte le foto sono organizzate in un album, indipendentemente dalla loro posizione nelle tue cartelle”.
Passiamo ora ad ADrive: come ampiamente ricordato, la versione Basic da 50 GB sta andando in pensione e le farà posto quella Premium da 100 GB (che però possono crescere fino a 20 TB ed oltre); l’interfaccia grafica è stata migliorata e sono state rilasciate app per dispositivi mobili iOS ed Android. Per il resto, oggi come cinque anni fa, si fa leva sulla possibilità di editare sulla nuvola (anche condividendo il lavoro) e di caricare file di grandi dimensioni (il limite è passato da 2 a 16 GB!).
Veniamo infine a Dropbox: lo spazio a disposizione nella versione gratuita di base è tuttora fermo a 2 GB, viene posta particolare enfasi sulle misure di sicurezza adottate (crittografia dei dati archiviati con AES a 256 bit e protezione di quelli in transito con tecnologia SSL/TLS, concepita per creare un tunnel sicuro protetto da crittografia AES a 128 bit o superiore) ma non si specifica la localizzazione dei data center nei quali materialmente finiscono i dati. A proposito di questi ultimi, anzi, si afferma esplicitamente che l’azienda si riserva di spedirli in qualsiasi parte del mondo ma nel rispetto, beninteso, della normativa cd. “Safe Harbour”. Da sottolineare che, diversamente a cinque anni fa, non ho trovato alcun riferimento al fatto che Dropbox si avvalga dei server di Amazon ma alcuni passaggi presenti nella pagina poc’anzi citata mi fanno ritenere che ora Dropbox tenga tutto presso di sé.
Da rimarcare invece come l’azienda californiana, in modo encomiabile, non solo abbia tenuto in vita app per sistemi operativi che contano quote di mercato oramai irrisorie (come Blackberry) ma ne abbia realizzato di ulteriori per Kindle Fire di Amazon (che, come noto monta una versione altamente customizzata di Android) e per il mondo Microsoft (Windows Phone e tablet con Windows). Per finire va sottolineato come pure Dropbox, un po’ come Memopal, abbia tentato di valorizzare le foto salvate al suo interno dai suoi utenti: nello specifico era stata lanciata, con una sorta di spin-off, l’app Carousel, la quale presentava in modo cronologico tutte le foto caricate. Purtroppo l’avventura non deve essere andata esattamente come sperato se, proprio pochi giorni fa, ne è stata annunciata la chiusura per il 31 marzo 2016.

Benché Dropbox si affretti a precisare che le foto non adranno perse ma semplicemente rientreranno all’interno dell’app “originaria”, la quale verrà nel frattempo potenziata con funzionalità ad hoc per le foto, è inutile dire che questa notizia, unita a quella di ADrive, non contribuisca a far sorgere la necessaria fiducia per i servizi di cloud storage. Se dal punto di vista tecnologico questi servizi paiono essere complssivamente affidabili (non si sono infatti sin qui verificate clamorose falle nella sicurezza come capitato in molti settori contigui), le perplessità permangono per ciò che concerne la “cornice legale” e la durata nel tempo del servizio: come si è visto esso è intimamente legato – com’è peraltro normale che sia, trattandosi di aziende private – a logiche di mercato e nel momento in cui la profittabilità viene meno oppure la versione gratuita diviene non più sostenibile (oppure ha semplicemente assolto alla sua funzione “promozionale” per attirare nuovi utenti), semplicemente la si chiude senza tanti giri di parole.
Tutti fattori che, facendo un’analisi costi/benefici, a mio avviso dovrebbero indurre una buona fetta degli utenti ad optare per soluzioni di personal cloud che, benché abbiano un costo, forniscono ben altre garanzie.

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Quale futuro per gli archivi digitali fotografici

Screenshot di Carousel

Screenshot di Carousel

Gli utenti di Dropbox della prima ora ricorderanno come inizialmente questo servizio fosse usato essenzialmente a fini di “archiviazione documentaria” pura, nel senso che ci si caricava soprattutto file di testo; solo in un secondo momento, grosso modo in parallelo all’incremento delle velocità di upload e download dei nostri dispositivi mobili (cosa resa possibile tecnicamente grazie alla realizzazione delle reti 3G e 4G – a loro volta alla portata di tutti grazie ai piani flat – così come dalla sempre più capillare diffusione di hotspot wifi), si è passati a caricarvi massicciamente file di dimensione sensibilmente più pesanti, quali foto e brevi video.
Infatti Dropbox, ben consapevole dei trend in atto e delle crescenti esigenze dei propri utenti, ha ben pensato di assecondarli ampliando progressivamente la sua gamma di servizi e, con essi, il suo settore d’affari. In particolare l’azienda di San Francisco ha sviluppato le sue applicazioni lungo due direttrici: da un lato assicurando ai sempre più numerosi utilizzatori un minimo di produttività (del tipo creare e salvare direttamente sulla cloud di Dropbox file di testo in formato .txt), dall’altro scommettendo forte sulle fotografia (inserendo ad esempio la funzionalità di upload automatico per le foto scattate con un device mobile).
Con tale mossa Dropbox cercava evidentemente di giocare d’anticipo e di preservare l’importante margine di vantaggio acquisito sulle varie Apple, Microsoft e Google (il cui Drive, per rendere l’idea, è arrivato sul mercato nell’aprile 2012, vale a dire ben quattro anni dopo!).
E che il grosso della partita si giochi proprio sul fronte delle foto non deve sorprendere: anche a voler rifuggire dalla sociologia spiccia e dai facili slogan, è un dato di fatto (e ne ho già scritto) che nella nostra società l’immagine conti e che scattare foto o, al contrario, farsi immortalare in fotografie sia una delle azioni più comuni, più facili ed al contempo più appaganti per il nostro ego.

Non deve dunque sorprendere se anche gli ultimi, importanti, annunci in casa Dropbox abbiano a che vedere con il mondo delle immagini. L’azienda californiana ha infatti da un lato lanciato Carousel, una app del tutto nuova ma che, come si vedrà a breve, è intimamente collegata al classico servizio di storage, dall’altro ha acquisito Loom, azienda specializzata nel cloud storage di foto e video.
Come spiegato dai fondatori di Loom nel post sopra linkato, la loro soluzione per la gestione, organizzazione ed archiviazione andrà ad integrarsi proprio con Carousel che, a questo punto, è opportuno descrivere per sommi capi: in breve si tratta di un applicazione che organizza e dispone in ordine cronologico lungo una timeline (un po’ come fa ThisLife) tutte le foto presenti nel dispositivo in cui l’applicazione stessa viene installata, facendone nel contempo il back-up in automatico sui propri server.
In sostanza le nostre foto finiscono su Dropbox e Carousel diventa la via più agevole per visualizzarle e gestirle; a riguardo va precisato che di default le foto sono private ma in realtà ne viene fortemente incentivata la condivisione: sia che si tratti di inviare ad amici foto che ci appartengono o al contrario di aggiungere al nostro album foto arrivateci da un nostro amico, basta un semplice swipe verso l’alto o verso il basso!
Inoltre una volta che si condivide una foto con un amico si avvia in automatico una chat: anche in questo caso l’intento è chiaro, ovvero dare un’anima social, sull’esempio di Instagram o Snapchat, a quello che rischia altrimenti di restare uno sterile (leggasi: meno remunerativo) “contenitore”.

Ma le novità introdotte da Dropbox sono importanti soprattutto perché emblematiche di alcune dinamiche che, a mio parere, nei mesi e negli anni a venire si faranno sempre più nitide.
La prima, testimoniata appieno dall’acquisizione di Loom, è che i video rappresenteranno, nel prossimo futuro, l’oggetto della disfida.
La seconda, molto più interessante da analizzare anche perché dalle maggiori implicazioni “archivistiche”, è la progressiva divergenza (o, se si preferisce, specializzazione) che si sta verificando tra i vari servizi che consentono l’archiviazione di foto sulla cloud: se da una parte vi sono quelli dedicati ad un uso principalmente personale e dall’altra quelli con una vocazione più spiccatamente pubblica, nel mezzo vi stanno una molteplicità di servizi che, pur facendo altro, non disdegnano di sfruttare l’appeal delle foto.
Tra questi ultimi come non citare Twitter il quale, nato come servizio per l’invio di sms, ha poi virato verso il microblogging ed ha infine aperto alle foto, trovando nei celeberrimi selfie (vero e proprio simbolo di quel desiderio di apparire di cui parlavo sopra) uno dei suoi punti di forza?
Specializzato nei selfie è anche Instagram, applicazione che diversamente da Twitter ruota completamente attorno alle foto ed alla possibilità di ritoccarle applicandovi filtri (feature che ne ha decretato il successo planetario, n.d.r.) e che rappresenta il degno campione del primo gruppo. Va però osservato che in Instagram, diversamente dal neonato Carousel, la dimensione pubblica delle foto (“public by default) è spiccata e con essa, ovvia conseguenza, l’anima social (laddove in Carousel, come già sottolineato, la condivisione è più controllata e ristretta).

Ma al di là delle ovvie differenze è indiscutibile che tutti i servizi appena descritti sono accomunati dall’essere stati concepiti e realizzati per un uso personale (con terminologia archivistica potremmo categorizzarli come “archivi fotografici digitali di persona”), in contrasto cioè con l’altro gruppo di servizi cui si accennava sopra e che, peraltro a partire da basi simili, sta seguendo un percorso per certi versi opposto.
Il modello in questo caso è rappresentato da Flickr il quale, nato come servizio per pubblicare online le proprie foto, solo in un secondo momento (con un ritardo che peraltro si stava per rivelare fatale, n.d.r.) si è dotato di un’applicazione per dispositivi mobili; se questo passo si è reso necessario per reggere il passo della concorrenza e delle nuove modalità di scattare fotografie (operazione che avviene sempre meno con fotocamere professionali e sempre più con dispositivi quali smartphone, tablet od al più con macchine ibride come la Samsung Galaxy Camera), tamponando nel contempo la preoccupante emorragia di utenti, credo che l’aspetto più interessante della storia recente di Flickr stia non tanto nel suo strizzare l’occhio ai social network (come appare evidente non appena si apre la nuova release dell’applicazione per dispositivi mobili o dal profondo restyling di cui è stato oggetto il sito) bensì agli enormi passi fatti da iniziative quali The commons.
Avviata nel 2008 come collaborazione con la Library of Congress e successivamente aperta ad altre istituzioni, essa si prefigge di condividere ed incrementare l’accesso ai tesori nascosti provenienti dagli archivi fotografici pubblici nel mondo; l’elenco oramai è lungo e vede tra gli altri la partecipazione di numerosi archivi e biblioteche, pubblici e privati. Uno degli aspetti più interessanti del progetto è che di ciascun “fornitore” vengono forniti i relativi termini di utilizzo nei quali, come suggerito dal nome del progetto, predominano le licenze d’utilizzo di tipo Creative Commons e varianti: l’intento di favorire la conoscenza del patrimonio fotografico, ed eventualmente il suo riutilizzo e la rielaborazione, è evidente e con esso trova conferma la vocazione di Flickr a divenire “archivio fotografico pubblicamente accessibile”!
Certo, non sfugge come al CEO Marissa Mayer i conti importino eccome, e l’accordo stipulato con il celebre fornitore di stock e microstock Getty Image (sulla capacità di quest’ultima azienda di cavalcare lo tsunami della distribuzione online di foto, a suon di acquisizioni di prestigiosi archivi fotografici, tanto analogici quanto digitali e stravolgendo le tradizionali modalità di licensing, sarebbe da scrivere un altro post…) è lì a testimoniarlo, ma è inutile negare come Flickr si stia facendo carico di un ruolo e di una funzione tipicamente “pubblici”.

La cosa deve preoccuparci? Posto che la collaborazione tra pubblico e privato non deve essere demonizzata a priori, è inutile negare che tutto ciò che ruota attorno alle immagini susciti, per i motivi ampiamente esposti, gli appetiti delle varie aziende con tutto ciò che ne consegue.
Il problema, a mio avviso, è verificare la capacità che avranno i soggetti pubblici, inclusi gli archivi e le biblioteche, a mantenere la debita autonomia / indipendenza nei confronti degli attori privati nel momento in cui, dal punto di vista operativo, il fattore determinante sembra essere sempre più la “potenza di storage” che si è in grado di dispiegare (e la discesa nell’agone di Dropbox è in questo senso emblematica).
In quest’ultimo ambito, considerando il poco o nulla che viene fatto in quanto alla realizzazione di infrastrutture, non credo ci si debba creare grandi speranze. Del resto non molto meglio vanno le cose dal lato dei “contenuti”: da una parte infatti assistiamo alla “cessione del posseduto” (ovvero le collezioni e le raccolte fotografiche, digitali o digitalizzate), dall’altra i nuovi archivi si vanno formando direttamente sulle nuvole di proprietà delle medesime aziende alle quali “concediamo” le foto (a proposito, la nuova generazione di SD-Card ha il Wi-Fi integrato per effettuare immediatamente upload sulla nuvola).
Rebus sic stantibus crediamo davvero che gli archivi e le biblioteche possano recuperare posizioni?

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