Quale futuro per gli archivi digitali fotografici

Screenshot di Carousel

Screenshot di Carousel

Gli utenti di Dropbox della prima ora ricorderanno come inizialmente questo servizio fosse usato essenzialmente a fini di “archiviazione documentaria” pura, nel senso che ci si caricava soprattutto file di testo; solo in un secondo momento, grosso modo in parallelo all’incremento delle velocità di upload e download dei nostri dispositivi mobili (cosa resa possibile tecnicamente grazie alla realizzazione delle reti 3G e 4G – a loro volta alla portata di tutti grazie ai piani flat – così come dalla sempre più capillare diffusione di hotspot wifi), si è passati a caricarvi massicciamente file di dimensione sensibilmente più pesanti, quali foto e brevi video.
Infatti Dropbox, ben consapevole dei trend in atto e delle crescenti esigenze dei propri utenti, ha ben pensato di assecondarli ampliando progressivamente la sua gamma di servizi e, con essi, il suo settore d’affari. In particolare l’azienda di San Francisco ha sviluppato le sue applicazioni lungo due direttrici: da un lato assicurando ai sempre più numerosi utilizzatori un minimo di produttività (del tipo creare e salvare direttamente sulla cloud di Dropbox file di testo in formato .txt), dall’altro scommettendo forte sulle fotografia (inserendo ad esempio la funzionalità di upload automatico per le foto scattate con un device mobile).
Con tale mossa Dropbox cercava evidentemente di giocare d’anticipo e di preservare l’importante margine di vantaggio acquisito sulle varie Apple, Microsoft e Google (il cui Drive, per rendere l’idea, è arrivato sul mercato nell’aprile 2012, vale a dire ben quattro anni dopo!).
E che il grosso della partita si giochi proprio sul fronte delle foto non deve sorprendere: anche a voler rifuggire dalla sociologia spiccia e dai facili slogan, è un dato di fatto (e ne ho già scritto) che nella nostra società l’immagine conti e che scattare foto o, al contrario, farsi immortalare in fotografie sia una delle azioni più comuni, più facili ed al contempo più appaganti per il nostro ego.

Non deve dunque sorprendere se anche gli ultimi, importanti, annunci in casa Dropbox abbiano a che vedere con il mondo delle immagini. L’azienda californiana ha infatti da un lato lanciato Carousel, una app del tutto nuova ma che, come si vedrà a breve, è intimamente collegata al classico servizio di storage, dall’altro ha acquisito Loom, azienda specializzata nel cloud storage di foto e video.
Come spiegato dai fondatori di Loom nel post sopra linkato, la loro soluzione per la gestione, organizzazione ed archiviazione andrà ad integrarsi proprio con Carousel che, a questo punto, è opportuno descrivere per sommi capi: in breve si tratta di un applicazione che organizza e dispone in ordine cronologico lungo una timeline (un po’ come fa ThisLife) tutte le foto presenti nel dispositivo in cui l’applicazione stessa viene installata, facendone nel contempo il back-up in automatico sui propri server.
In sostanza le nostre foto finiscono su Dropbox e Carousel diventa la via più agevole per visualizzarle e gestirle; a riguardo va precisato che di default le foto sono private ma in realtà ne viene fortemente incentivata la condivisione: sia che si tratti di inviare ad amici foto che ci appartengono o al contrario di aggiungere al nostro album foto arrivateci da un nostro amico, basta un semplice swipe verso l’alto o verso il basso!
Inoltre una volta che si condivide una foto con un amico si avvia in automatico una chat: anche in questo caso l’intento è chiaro, ovvero dare un’anima social, sull’esempio di Instagram o Snapchat, a quello che rischia altrimenti di restare uno sterile (leggasi: meno remunerativo) “contenitore”.

Ma le novità introdotte da Dropbox sono importanti soprattutto perché emblematiche di alcune dinamiche che, a mio parere, nei mesi e negli anni a venire si faranno sempre più nitide.
La prima, testimoniata appieno dall’acquisizione di Loom, è che i video rappresenteranno, nel prossimo futuro, l’oggetto della disfida.
La seconda, molto più interessante da analizzare anche perché dalle maggiori implicazioni “archivistiche”, è la progressiva divergenza (o, se si preferisce, specializzazione) che si sta verificando tra i vari servizi che consentono l’archiviazione di foto sulla cloud: se da una parte vi sono quelli dedicati ad un uso principalmente personale e dall’altra quelli con una vocazione più spiccatamente pubblica, nel mezzo vi stanno una molteplicità di servizi che, pur facendo altro, non disdegnano di sfruttare l’appeal delle foto.
Tra questi ultimi come non citare Twitter il quale, nato come servizio per l’invio di sms, ha poi virato verso il microblogging ed ha infine aperto alle foto, trovando nei celeberrimi selfie (vero e proprio simbolo di quel desiderio di apparire di cui parlavo sopra) uno dei suoi punti di forza?
Specializzato nei selfie è anche Instagram, applicazione che diversamente da Twitter ruota completamente attorno alle foto ed alla possibilità di ritoccarle applicandovi filtri (feature che ne ha decretato il successo planetario, n.d.r.) e che rappresenta il degno campione del primo gruppo. Va però osservato che in Instagram, diversamente dal neonato Carousel, la dimensione pubblica delle foto (“public by default) è spiccata e con essa, ovvia conseguenza, l’anima social (laddove in Carousel, come già sottolineato, la condivisione è più controllata e ristretta).

Ma al di là delle ovvie differenze è indiscutibile che tutti i servizi appena descritti sono accomunati dall’essere stati concepiti e realizzati per un uso personale (con terminologia archivistica potremmo categorizzarli come “archivi fotografici digitali di persona”), in contrasto cioè con l’altro gruppo di servizi cui si accennava sopra e che, peraltro a partire da basi simili, sta seguendo un percorso per certi versi opposto.
Il modello in questo caso è rappresentato da Flickr il quale, nato come servizio per pubblicare online le proprie foto, solo in un secondo momento (con un ritardo che peraltro si stava per rivelare fatale, n.d.r.) si è dotato di un’applicazione per dispositivi mobili; se questo passo si è reso necessario per reggere il passo della concorrenza e delle nuove modalità di scattare fotografie (operazione che avviene sempre meno con fotocamere professionali e sempre più con dispositivi quali smartphone, tablet od al più con macchine ibride come la Samsung Galaxy Camera), tamponando nel contempo la preoccupante emorragia di utenti, credo che l’aspetto più interessante della storia recente di Flickr stia non tanto nel suo strizzare l’occhio ai social network (come appare evidente non appena si apre la nuova release dell’applicazione per dispositivi mobili o dal profondo restyling di cui è stato oggetto il sito) bensì agli enormi passi fatti da iniziative quali The commons.
Avviata nel 2008 come collaborazione con la Library of Congress e successivamente aperta ad altre istituzioni, essa si prefigge di condividere ed incrementare l’accesso ai tesori nascosti provenienti dagli archivi fotografici pubblici nel mondo; l’elenco oramai è lungo e vede tra gli altri la partecipazione di numerosi archivi e biblioteche, pubblici e privati. Uno degli aspetti più interessanti del progetto è che di ciascun “fornitore” vengono forniti i relativi termini di utilizzo nei quali, come suggerito dal nome del progetto, predominano le licenze d’utilizzo di tipo Creative Commons e varianti: l’intento di favorire la conoscenza del patrimonio fotografico, ed eventualmente il suo riutilizzo e la rielaborazione, è evidente e con esso trova conferma la vocazione di Flickr a divenire “archivio fotografico pubblicamente accessibile”!
Certo, non sfugge come al CEO Marissa Mayer i conti importino eccome, e l’accordo stipulato con il celebre fornitore di stock e microstock Getty Image (sulla capacità di quest’ultima azienda di cavalcare lo tsunami della distribuzione online di foto, a suon di acquisizioni di prestigiosi archivi fotografici, tanto analogici quanto digitali e stravolgendo le tradizionali modalità di licensing, sarebbe da scrivere un altro post…) è lì a testimoniarlo, ma è inutile negare come Flickr si stia facendo carico di un ruolo e di una funzione tipicamente “pubblici”.

La cosa deve preoccuparci? Posto che la collaborazione tra pubblico e privato non deve essere demonizzata a priori, è inutile negare che tutto ciò che ruota attorno alle immagini susciti, per i motivi ampiamente esposti, gli appetiti delle varie aziende con tutto ciò che ne consegue.
Il problema, a mio avviso, è verificare la capacità che avranno i soggetti pubblici, inclusi gli archivi e le biblioteche, a mantenere la debita autonomia / indipendenza nei confronti degli attori privati nel momento in cui, dal punto di vista operativo, il fattore determinante sembra essere sempre più la “potenza di storage” che si è in grado di dispiegare (e la discesa nell’agone di Dropbox è in questo senso emblematica).
In quest’ultimo ambito, considerando il poco o nulla che viene fatto in quanto alla realizzazione di infrastrutture, non credo ci si debba creare grandi speranze. Del resto non molto meglio vanno le cose dal lato dei “contenuti”: da una parte infatti assistiamo alla “cessione del posseduto” (ovvero le collezioni e le raccolte fotografiche, digitali o digitalizzate), dall’altra i nuovi archivi si vanno formando direttamente sulle nuvole di proprietà delle medesime aziende alle quali “concediamo” le foto (a proposito, la nuova generazione di SD-Card ha il Wi-Fi integrato per effettuare immediatamente upload sulla nuvola).
Rebus sic stantibus crediamo davvero che gli archivi e le biblioteche possano recuperare posizioni?

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One response to this post.

  1. […] interno dai suoi utenti: nello specifico era stata lanciata, con una sorta di spin-off, l’app Carousel, la quale presentava in modo cronologico tutte le foto caricate. Purtroppo l’avventura non […]

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