Ultimi giorni dell’anno ed è tempo di bilanci un po’ per tutti. Quest’anno, novità, ad aiutarci ci saranno anche i nostri sempre più insostituibili social network: Facebook, Twitter, Google+, Instagram… un po’ tutti mettono a disposizione strumenti e statistiche capaci di riassumere le nostre attività online, dal numero di interazioni (siano essi like, retweet, consiglia, etc.) ai nuovi contatti aggiunti (amici, follower, etc.) e via di questo passo.
Accanto a questa tipologia di indicatori, comunque in grado di delineare con buon grado di approssimazione quanto da noi fatto, sono sempre più diffusi strumenti ben più raffinati che, grazie all’utilizzo di potenti algoritmi, riescono quasi a “rievocare” la nostra vita digitale.
Un buon esempio a riguardo è quel “L’anno in breve” (Year in Review) di Facebook che probabilmente molti dei numerosi utenti di questo social network avranno visto comparire negli ultimi giorni sulla propria bacheca / timeline: si tratta, cito testualmente, di “una raccolta di foto dei tuoi momenti più significativi di quest’anno. Questi momenti possono includere le foto caricate da te e quelle in cui ti hanno taggato”. In sostanza a partire da fotografie, immagini e interazioni ottenute su FB si cerca di desumere l’importanza che esse potrebbero ricoprire per la persona che le ha pubblicate, riproponendogliele per la pubblicazione e condivisione: se nella maggior parte dei casi l’algoritmo funziona correttamente, talvolta esso sbaglia provocando incresciosi episodi. E’ quanto accaduto ad Eric Meyer, al quale è stato proposto come “magnifico” un fatto al contrario luttuoso e la cui riproposizione, peraltro non richiesta ed improvvisa, non ha fatto che rinnovare il dolore: evidentemente l’algoritmo è stato ingannato dall’elevato numero di interazioni (che in ambiente analogico definiremmo “partecipazione” e/o “condoglianze”) e di foto postate in occasione del triste evento.
Ma al di là dello specifico episodio e del grossolano errore, che hanno reso l’argomento di attualità e spinto taluni a ritenere la tecnologia non ancora del tutto matura, alcune considerazioni in prospettiva si possono sin da ora fare.
In primo luogo risulta in modo lampante come, per chi non ha la fortuna di poter sfruttare l’hashtag come chiave per identificare gli argomenti e le discussioni “topici” (leggasi Twitter, che dal canto suo vanta una tradizione oramai consolidata in materia, riproponendo ogni anno – qui il 2014 – i trend più dibattuti benché senza scendere a livello di singolo utente), le immagini ricoprono un valore assoluto: pur nell’orgia di foto scattate, pubblicate e condivise quotidianamente, così numerose da aver spinto molti a parlare di “banalizzazione della fotografia” (lato oscuro di un più amplio processo di democratizzazione che ha comunque anche ricadute positive, aumentando esso ad es. le possibilità di testimonianza e di partecipazione attiva attraverso forme di citizen journalism, n.d.r.), ad esse gli algoritmi assegnano un peso elevato come a nessun’altra “fonte” d’informazioni!
Evidentemente, nonostante tutto, si continua a ritenere che se si scatta una foto lo si fa in quanto si attribuisce elevata importanza a ciò che si fotografa; se si aggiunge il valore anche economico assunto, agli occhi delle principali Internet company, dalle fotografie per la loro capacità di veicolare traffico e pubblicità, si comprende come mai siano così numerosi in questo ambito i tentativi di applicazione dell’intelligenza artificiale, dal deep learning alla ben più specifica computer vision!
Un ulteriore risvolto è il ritorno alla funzione per così dire “originaria” della fotografia, ovvero quella di immortalare l’oggetto che finisce nell’obiettivo: per quanto almeno per ora non si debba intendere quell’ “immortalare” nel senso letterale del termine, la valenza mnemonica ne esce indubbiamente rafforzata! Infatti proprio grazie al ricorso a tecnologie “intelligenti” applicazioni come Carousel, la galleria fotografica sulla cloud messa a disposizione da Dropbox, scavano automaticamente nel proprio archivio fotografico e propongono quello che è definito un flashback: potrebbe essere una foto scattata esattamente uno o due anni fa oppure in un posto nel quale si ritorna a passare dopo del tempo e del quale si conosce la posizione grazie ai metadati di georeferenziazione collegati alla foto già inserita nel proprio album. Inoltre l’utilizzo di specifici algoritmi per il riconoscimento facciale rendono altamente probabile che le foto riproposte ritraggano noi o le persone che ci sono più care. Insomma, uno strumento che cerca di rendersi “utile” quale supporto alla nostra memoria, un po’ come fa Timehop con i principali social network.
Un’ultima riflessione va, tanto per cambiare, ai possibili rischi per la privacy derivanti dall’uso massivo dei nostri archivi fotografici: per quanto le grandi Internet company siano già rimaste scottate, la tentazione di sfruttare in modo indiscriminato le fotografie rimane elevata per la già menzionata importanza economica delle stesse. Non si tratta più, si badi, del pericolo (pur presente) che le nostre foto finiscano in visione a persone estranee ma di quello, ben più sofisticato e pertanto insidioso, che le società alle quali affidiamo più o meno consapevolmente le nostre foto riescano, attraverso le tecniche di analisi sopra descritte, a stabilire relazioni tra foto e foto, ovvero tra le persone ed i luoghi in esse presenti, ricostruendo in tal modo la nostra intera rete di parentele, amicizie, di luoghi visitati indipendentemente dalla nostra dalla volontà e dalla quantità / qualità delle informazioni di contesto che noi conferiamo. Un ulteriore elemento che, a mio avviso, dovrebbe indurci ad utilizzare con la massima cautela simili servizi, per quanto comodi essi siano.
29 Dic