Archivisti, Bibliotecari e Storici: così lontani, così vicini

Charge!

Charge! di The National Archives UK, su Flickr

In questo post ritorno, seppur con ben più ampio respiro ed una angolatura differente, su un argomento che avevo affrontato en passant qualche tempo fa: il rapporto con le fonti in quest’epoca di trapasso al digitale.
Lo spunto di riflessione proviene dall’interessante dibattito che si è sviluppato a margine del come sempre stimolante intervento della professoressa Giorgetta Bonfiglio-Dosio, terzo appuntamento della Primavera Archivistica 2013 (Venezia, 28 maggio 2013).
Partiamo dunque col riassumere le varie posizioni delineatesi martedì: ad aprire la questione è stata la constatazione di come, anche in tempi più recenti di quanto si pensi, quegli storici e quei bibliotecari che hanno avuto modo di mettere le mani sugli archivi abbiano fatto danni in modo pressoché matematico.
Dopo questo j’accuse è venuta la doverosa fase di autocritica: in modo volutamente provocatorio ci si è chiesti se il fatto che la produzione storiografica padovana sia priva, diversamente da quella veneziana, di un taglio istituzionale derivi dall’assenza “a monte” di fonti archivistiche funzionali ad una simile approccio.
Ciò ha sua volta portato a sottolineare l’importanza degli strumenti messi a disposizione degli storici (ma si potrebbe dire dei ricercatori in generale) ed al riconoscimento, da parte di taluni, del fatto che i bibliotecari siano oggettivamente “più avanti” in questo campo rispetto agli archivisti, sottintendendo che da essi dovremmo trarre spunto.
E qui la discussione si è arenata, con la maggior parte dei presenti (incluso il sottoscritto) che facevano notare come il lavoro degli archivisti sia decisamente più complesso rispetto a quello dei bibliotecari. La fine della giornata, era infatti stata ampiamente superata l’ora ufficiale di chiusura lavori, ha lasciato un po’ tutti sulle proprie posizioni.
Personalmente nei giorni successivi ho continuato a riflettere su queste tematiche, mettendole in particolare in relazione con i cambiamenti digitali in corso (cosa fatta solo marginalmente nel corso del dibattito) ed ho maturato la convinzione che sì, i bibliotecari sono avvantaggiati, ma che anche gli archivisti potrebbero forse fare qualcosina in più!
E’ infatti lampante come trattare materiale biblioteconomico sia assai più agevole per fattori “qualitativi” e “quantitativi”:
1) FATTORI QUALITATIVI: da secoli, e con un’accelerazione a partire dall’invenzione della stampa a caratteri mobili (che ha assicurato quella “stabilità tipografica” ben descritta da Elizabeth Eisenstein), il libro è estremamente formalizzato: è cioè scritto con caratteri chiari e standardizzati ed ha sempre avuto alcune aree caratteristiche (colophon, frontespizio) dalle quali trarre le informazioni essenziali al suo trattamento (titolo, autore, etc.). Gli archivisti al contrario hanno a che fare con pezzi unici che, nonostante una certa formalizzazione dovuta al processo di burocratizzazione, devono faticare a decodificare (dal punto di vista della lingua usata, della scrittura – corsiva – e del contesto storico-istituzionale).
2) FATTORI QUANTITATIVI: un libro viene infatti di norma stampato in un discreto numero di copie tra di loro identiche, motivo per cui una volta catalogato uno (specie da quando si sono diffusi i sistemi bibliotecari) il lavoro è fatto per tutti; al contrario ciascun documento, al netto di eventuali copie, rappresenta un unicum e deve essere trattato singolarmente. Il regesto che si fa di un documento, diversamente dall’abstract di un libro o di un saggio che è valido per tutti i suoi “fratelli”, vale per quel solo documento! Del resto va fatto notare che lo spoglio di riviste, periodici, miscellanee, etc. non è pratica poi così sistematica, motivo per cui la “superiorità” dei bibliotecari va ulteriormente ridimensionata.
Bisogna però riconoscere che mediamente, e qui forse sta il vero punto di forza dei bibliotecari, gli strumenti da essi prodotti (i cataloghi) risultano di uso assai più immediato rispetto a quelli realizzati dagli archivisti (inventari in primis), motivo per cui sarebbe auspicabile da parte di questi ultimi una maggiore attenzione nei confronti dell’utente (non necessariamente lo storico, anche se è di quest’ultimo che parlo in questo post).
Considerazioni in chiaroscuro derivano anche dall’analisi di quanto fatto finora dagli archivisti in campo digitale: c’è infatti da chiedersi quanto la scelta di digitalizzare e rendere disponibili online alcuni fondi, od addirittura solo alcuni specifici documenti, in genere sulla scorta di valutazioni di tipo “conservativo” (= preservare i pezzi pregiati), possa influire sulla produzione storiografica. In altri termini se io, archivista, digitalizzo un documento perché so che esso è il più consultato (ergo il più a rischio deterioramento) non è che finisco per alimentare un circolo vizioso? Viene infatti quasi spontaneo pensare che, per una sorta di “pigrizia”, gli storici trovino più comodo basare le proprie ricerche sui quei materiali raggiungibili con un click piuttosto che andare a sporcarsi le mani in archivio!
Posto che spesso l’input alla digitalizzazione di molto materiale librario è stata l’esigenza di assicurarne la conservazione, bisogna ammettere che, complice la presenza di molti operatori privati che hanno provveduto ad una massiccia digitalizzazione di quei materiali con diritti d’autore scaduti (si pensi a Google), il lato biblioteche rischia decisamente meno di cadere all’interno di questa spirale negativa (semmai in quest’ambito a costituire un problema è la spinta alla citazione reciproca che deriva del sistema dell’impact factor e che rischia di insterilire la ricerca…).
Il mondo biblioteconomico, infine, appare essere più avanti anche per quel che riguarda la creazione di strumenti di consultazione user centered: come ricordato durante il dibattito sono numerose (in verità soprattutto in ambito delle biblioteche universitarie) le interfacce che riescono a trasformare keyword espresse con parole di uso corrente in termini formalizzati (e da questi, è sottinteso, a specifiche risorse).
In altri termini, tornando al nostro storico alle prese con la sua ricerca, qualora esso dovesse affidarsi alla Rete per reperire materiale utile, è altamente probabile che finirebbe per usare materiale “librario” e non fonti documentarie.
Diventa pertanto imperativo, affianco al rafforzamento del già esistente dialogo con bibliotecari ed operatori museali (vedi il coordinamento MAB), realizzare idonei strumenti che indirizzino la ricerca rendendola più fruttuosa (in particolare gli inventari archivistici, suggerisce Giorgetta Bonfiglio-Dosio, potrebbero prevedere accanto al tradizionale “cappello” istituzionale una sorta di guida – vademecum per gli storici circa l’utilità che i materiali descritti potrebbero avere ai fini della loro ricerca).
Di lavoro, insomma, ce n’è molto da fare ma ci sono tutte le premesse per raggiungere ottimi risultati. Non resta che rimboccarsi le mani tutti quanti!

3 responses to this post.

  1. Posted by Daniele Codebò on giugno 2, 2013 at 10:43 PM

    Giusta e lodevole riflessione! Forse il primo passo per rendere gli strumenti di descrizione archivistica più fruibili (e rendere accessibili le fonti rimane uno dei principali doveri degli archivisti) è pensare realmente a degli standard descrittivi, che riescano a confrontarsi con quel materiale molto più disomogeneo che popola gli archivi. Standard che incontrino i sistemi di indicizzazione della ricerca online e consentano descrizioni più condivise almeno di quelle tipologie documentarie comuni a tanti archivi.

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    • Posted by Simone Vettore on giugno 3, 2013 at 11:13 PM

      Giusto! Bisogna che le fonti (archivistiche) emergano da quel profondo web nel quale sono inabissate e riescano ad arrivare agli utenti (non solo gli storici) che le cercano! Ci sta provando a suo modo Istella, vedremo con quali risultati. Registro, purtroppo, che hanno fallito a suo tempo gli “archivisti” di Open Archive Initiative: qualche hanno fa avevano sviluppato OAI-PMH per l’harvesting ma Google ha tolto il supporto una volta constatato che solo poche centinaia di siti la includevano nella propria sitemap. Generalizzando questo esempio siamo dunque ad un punto morto: i motori di ricerca non hanno motivo di spendere soldi per sviluppare spyder / algoritmi per indicizzare specifiche risorse (come potrebbero essere le fonti documentarie) ed i creatori di contenuti (archivisti inclusi) non hanno nessun vantaggio ad inserire descrizioni / metadati particolareggiati se poi questi non verranno letti…
      Il difficile al momento è proprio riuscire a superare questa situazione di stallo.

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