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Sul libro come commodity

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Storylines – study with wire and book / di Ines Seidel (su Flickr)

Sarà capitato oramai a quasi tutti voi di incappare, mentre camminate per le vie, nei parchi, nelle piazze, etc. della vostra città in quelle graziose casette di legno contenenti un paio di dozzine di libri più o meno vecchi. Sono le cosiddette “casette dei libri” il cui funzionamento grossomodo è il seguente: posso prendere in prestito un libro dalla casetta a patto che a mia volta ne lasci uno, mettendolo a disposizione di altri lettori, ed impegnandomi, al termine della lettura, a riconsegnarlo (ho usato termini tipici dei regolamenti delle biblioteche, ma in verità non c’è nessuna forma di controllo sulla restituzione né tantomeno vi è necessità di essere iscritti ad alcunché). Il principio su cui si basano le casette dei libri, perlomeno la maggior parte di quelle spuntate come funghi su e giù per l’italica penisola, è infatti quello della fiducia tra lettori con l’oggetto libro inserito in una prospettiva sostanzialmente social(e). Bisogna infatti precisare che il fenomeno delle “casette dei libri” deriva dal progetto Little Free Library portato avanti su scala globale dall’omonima organizzazione nonprofit, sorta con lo scopo di ” inspires a love of reading, builds community, and sparks creativity by fostering neighborhood book exchanges around the world”. Come si intuisce ben presto navigando nel sito ufficiale dell’iniziativa, quest’ultima è assai più strutturata ed articolata rispetto alle concrete realizzazioni nostrane, che a ben guardare hanno fatto proprio il modello ma nella maggior parte dei casi senza “affiliarsi” (o, se vogliamo, vincolarsi) al progetto-madre.

Ciò non toglie che un paio di riflessioni non si possano fare dall’analisi del fenomeno delle little free library.

La prima è che, tanto per cambiare, le nostre amate biblioteche sono tagliate fuori dal progetto, che anzi, per via del suo funzionamento assolutamente “libero” (come già ricordato non è prevista alcuna iscrizione degli utenti, dei prestiti non vi è alcuna traccia né del resto i libri sono oggetto di catalogazione) e del suo modello diffuso e capillare nel territorio (in opposizione a quello di magazzino centralizzato) appare quasi geneticamente agli antipodi. Tale distacco è tanto più sorprendente se si pensa come, sempre in riferimento al caso italiano, a farsi promotrici delle “casette dei libri” sono spesso e volentieri le medesime amministrazioni comunali presso le quali sono incardinate la maggior parte delle biblioteche di pubblica lettura. A mio avviso, benché nell’ottica di avvicinamento e promozione della lettura le due iniziative possano coesistere ed anzi risultare complementari (andando le “casette dei libri” ad avvicinare quell’utenza che mai metterebbe piede in biblioteca), è necessario pensare ad un livello di coordinamento, o ancor meglio di regia, dell’iniziativa. Ad esempio non sarebbe male se i libri messi a disposizione nelle casette, anziché essere (questo è purtroppo quello che ho potuto constatare personalmente in più realtà) vecchi, malmessi e buttati lì alla rinfusa, facessero riferimento ad una sorta di “piano delle raccolte”: in un quartiere con problemi di integrazione potrebbero essere messere libri sull’argomento, a livello di città potrebbe esserci un filo conduttore nei testi messi a disposizione magari rispetto a mostre ed eventi in corso. L’esempio appena riportato ci conduce ad un altro nodo critico del sistema, vale a dire la sua alimentazione. Se in linea teorica esso dovrebbe mantenere il suo “equilibrio” in virtù del sostanziale pareggio tra volumi presi in prestito e volumi lasciati nella casetta, all’atto pratico ritengo tale ipotesi di difficile realizzazione non fosse altro per il naturale “decadimento” dei libri (tanto più se questi ultimi – per quanto riparati nelle loro casette – non sono sicuramente conservati in condizioni ottimali) oltre che per il fisiologico, ed inevitabile, tasso di smarrimenti e mancate restituzioni. Anche in questa fase, credo, l’istituzione bibliotecaria possa fare la sua parte, ad esempio veicolando (meglio se con un minimo di selezione) verso le free little library le donazioni che frequentemente i cittadini fanno delle loro raccolte, oramai divenute ingombranti, oppure destinando ad esse una quota dei libri altrimenti destinati allo scarto (indicativamente “i migliori dei peggiori”, se mi passate l’ossimoro).

La seconda e ultima riflessione, forse la più inquietante, riguarda la natura stessa dell’oggetto libro: senza scomodare Giorgio Cencetti, che già nel 1939 nel celebre articolo sull’Archivio come “universitas rerum” rilevava come “ai volumi di una biblioteca [fosse] connaturato il concetto di fungibilità”, vale a dire interscambiabili gli uni con gli altri (in opposizione all’unicità dei pezzi archivistici), balza agli occhi come nel modello della free little library un libro vale l’altro, risiedendo il suo valore non tanto nell’intrinseco ma nella sua funzione “sociale” di oggetto di scambio (e non tanto di elevazione / acculturazione, che è una conseguenza per certi versi accidentale). Se non fosse che, all’atto dello scambio, manca del tutto il corrispettivo per la transazione né del resto viene in alcun modo tenuto in considerazione il valore “venale” dell’oggetto libro. Giusto per continuare ad attingere a questa terminologia di ambito finanziario si potrebbe pacificamente parlare di “libro come commodity”, concetto quest’ultimo non a caso spesso associato a quello di fungibilità; per commodity infatti si intende “un qualsiasi bene o servizio scambiabile (leggasi: fungibile, n.d.r.) sul mercato, senza differenze qualitative e per il quale ci siano domanda e offerta”. Ne esce dunque un quadro in cui il libro, perlomeno se raffrontato all’approccio “patrimonialistico” tipico (peraltro talvolta con eccessi) delle biblioteche, viene de facto svalutato, privato della sua individualità (rappresentata dal numero progressivo d’ingresso) ed anzi, proprio perché “uno vale l’altro”, trattato come oggetto di poco o nullo valore e, di conseguenza, sostanzialmente privato di quel trattamento scientifico che invece potrebbe far ottenere al modello della free little library risultati interessanti. In conclusione è proprio l’approccio “liberistico”, mi si passi quest’ultimo accostamento al mondo dell’economia, caratterizzato dunque dalla convinzione implicita che il sistema si autoregolamenti e che, se lasciato libero di operare, dia il meglio dei suoi frutti, che rappresenta il grosso limite di questa per altri versi interessante esperienza.

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Al mercato dello storage

Deutsche Borse trading floor

Deutsche Borse trading floor di Jonathan S. Cohen, su Flickr

La notizia non ha trovato grande eco presso i media italiani ma merita di essere qui ripresa: Deutsche Borse ha annunciato l’avvio, indicativamente per l’inizio del 2014, delle contrattazioni elettroniche su una particolare tipologia di “merce”: lo storage e le risorse di calcolo (CPU, RAM, etc.). Se l’intenzione è quella di ampliare in futuro l’offerta, per il momento l’obiettivo è di far incontrare tutti coloro che da una parte hanno bisogno di ulteriori spazi di memorizzazione e di computing capacity e coloro che, dall’altra, ne hanno in surplus.
Si tratta di una notizia che lascia solo per certi versi sorpresi: era infatti prevedibile che il medesimo processo di commoditisation che ha investito il settore dei personal computer prima o poi avrebbe riguardato anche quello “immateriale” dei servizi erogati in modalità cloud.
Ciò nonostante lascia perplessi la prospettiva di vedere il prezzo dello storage, sul quale qui per ovvi motivi mi concentro, fluttuare in base alle bizze dei mercati ed essere acquistato da broker alla stregua di un barile di petrolio o di una tonnellata di granaglie! Bisogna infatti chiedersi se, similmente a quanto accaduto con altri mercati, anche attorno a questo verrà costruito quel castello di prodotti finanziari che, portati all’estremo, tanti danni ha provocato. Considerando infatti che secondo molti analisti l’esistenza di un simile mercato va incontro all’esigenza, percepita da molti attori, di possedere spazi di memorizzazione in diverse giurisdizioni (agevolando in tal modo la compliance alle norme ed agli standard in vigore nei diversi Stati) non ci sarebbe da stupirsi se si tutelasse l’investimento (poniamo che uno debba comprare spazio di storage in Egitto, giusto per fare un esempio di estrema attualità) con quegli strumenti finanziari (vedi gli swap) tristemente famosi.
Ma al di là delle considerazioni finanziarie quello che preoccupa “archivisticamente” è la “banalizzazione dello storage” sottesa al processo di commoditisation: nonostante le rassicurazioni fornite da Deutsche Borse in ordine all’elevato livello qualitativo delle risorse ammesse alle contrattazioni e la presenza di operatori dalle indubbie capacità (a riguardo vengono citati non solo operatori commerciali come T-Systems ma anche soggetti appartenenti al mondo accademico come il Leibniz Rechen-Zentrum il quale, per intenderci, fornisce i servizi informatici per le varie università di Monaco di Baviera nonché per l’Accademia Bavarese delle Scienze), confesso che nutro più di una perplessità sulla qualità “archivistica” del servizio che verrà acquistato.
Mi sembra infatti lontano anni luce il mondo degli archivi, istituti impiantati (e uso questo termine proprio per sottolineare la solidità che li dovrebbe contraddistinguere nel tempo!) per durare secoli, con l’aleatorietà di uno scambio di borsa portato a termine in maniera telematica: detta in altri termini mi pare che la comprensibile fretta di avere ulteriore spazio di storage nella quale può venirsi a trovare un qualsivoglia soggetto produttore (perché questo è in ultima analisi il compratore!) mal si concili con i tempi, inevitabilmente più lunghi, necessari per realizzare un consistente sistema archivistico. Ritorniamo dunque al problema di fondo, ripetutamente evidenziato in questo blog, che lo storage, così com’è concepito da molti provider, ha spesso gran poco da condividere con l’archiviazione.
Naturalmente i miei possono essere timori infondati ed anzi l’auspicio è proprio che, dopo la seicentesca bolla dei tulipani, non ci si ritrovi a fronteggiare, nel prossimo futuro, ad una non meno bizzarra bolla dello storage!

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