
Photo credits: University of Maryland and Sourcefire Announce New Cybersecurity Partnership di University of Maryland Press Releases, su Flickr
Pochi giorni orsono Mark Zuckerberg, con una buona dose di faccia tosta considerando l’incetta di dati personali che fa la sua azienda, ha criticato durante un’intervista televisiva l’amministrazione Obama per il modo poco trasparente con il quale sta gestendo il cosiddetto scandalo “Datagate”, annunciando di volersi unire a Google e Microsoft nella causa intentata contro il governo al fine di ottenere, per l’appunto, la necessaria trasparenza.
I colossi del web infatti, oltre al danno d’immagine derivante dall’essere percepiti come compartecipi del Governo statunitense, temono infatti che i propri utenti, se non adeguatamente tranquillizzati circa modalità e tipologia dei controlli svolti, abbandonino le proprie piattaforme provocando un evidente danno economico.
Il tema della fiducia e quello correlato della sicurezza informatica diviene, evidentemente, centrale e non è forse un caso che il punto di forza del nuovo iPhone 5 della Apple sia il riconoscimento biometrico (in pratica per sbloccare lo schermo od attivare alcuni specifici servizi, quali i pagamenti contact less via NFC, non bisogna più inserire un PIN o simili vetustà ma basta appoggiare il proprio pollice allo schermo per venire riconosciuti ed autenticati).
Purtroppo queste rassicurazioni mi sembrano insufficienti: in successive indiscrezioni trapelate alla stampa Edward Snowden (che, considerando il livello dello scontro diplomatico raggiunto con Mosca e gli estremi tentativi fatti da Washington per ottenerne l’estradizione, mi sembra un testimone complessivamente attendibile) ha aggiunto che l’NSA statunitense e la corrispettiva GHCQ britannica dispongono di strumenti in grado di aggirare e superare le misure comunemente adottate per proteggere le comunicazioni e le transazioni condotte lungo le reti telematiche, quali ad esempio i protocolli https ed SSL.
In sostanza viene messa in seria discussione la validità e l’efficacia complessiva di quella cornice di sicurezza che con difficoltà si era cercato di costruire attorno alle nostre “esistenze digitali”. Le ripercussioni sono evidentemente molteplici ed investono su più piani anche l’archivistica: ad un livello strettamente tecnico possiamo ricordare le ricadute per tutto ciò che concerne, per l’appunto la sicurezza. Per anni, dando credito agli informatici, si è pensato che i vari protocolli di sicurezza, gli hash crittografici, etc. assicurassero un ragionevole livello di protezione alle nostre comunicazioni via PEC ed in generale a tutte quelle, spesso riservate o comunque riguardante materiali “sensibili”, condotte attraverso le reti telematiche (vedi quelle, sempre più diffuse, tra data center locale e sito secondario di ripristino).
Così probabilmente non è e non si deve escludere la possibilità che, approfittando del vulnus inferto alla credibilità delle sue basi tecnologiche, non riprenda vigore quella corrente, interna agli archivisti, che ha sempre guardato con sospetto, ed in taluni casi con dichiarata ostilità, alla nascita dell’archivistica digitale. Dovesse ciò succedere le ripercussioni sarebbero gravi giacché, volenti o nolenti, il mondo andrà comunque verso il digitale e di archivisti capaci di affrontare le problematiche derivanti da questo passaggio ce ne sarà sempre più bisogno.
Ma probabilmente il danno maggiore è quello della possibile perdita di fiducia da parte dei cittadini / utenti: negli ultimi dieci – quindici anni si è dibattuto in lungo ed in largo sulla necessità di realizzare trusted repository pubblici giustificandone l’esistenza sulla superiorità, se non proprio tecnologica, almeno “morale” rispetto ai comuni data center. Solo la presenza di “custodi responsabili” (dove per “custode responsabile” la figura di riferimento è, anche se non in maniera esclusiva, quella dell’archivista dipendente di una pubblica amministrazione), si sosteneva, capaci di garantire l’ininterrotta custodia di documenti digitali oltre che la correttezza delle eventuali operazioni di trasferimento, migrazione, etc. effettuate, poteva provare l’autenticità dei documenti conservati.
Tale supposta superiorità “morale” viene irrimediabilmente meno nel momento in cui si constata che sono i Governi stessi a condurre, secondo procedure ai limiti della legalità e comunque assai discutibili, attività di spionaggio se non di vero hackeraggio ai danni dei propri ed altrui cittadini, di giornali, organizzazioni ed aziende. Il timore è dunque, come sopra accennato, che pure gli archivisti, risucchiati in un calderone in cui non si riconoscono più colpe e responsabilità individuali, perdano l’indispensabile fiducia dei cittadini. Dovesse succedere, sarebbe indubbiamente un duro colpo.
Posted by Sicurezza degli archivi digitali, obbiettivo irraggiungibile? | Memoria digitale on febbraio 6, 2014 at 11:33 PM
[…] collaterale rispetto al core dell’archivistica, sul quale avevo scritto alcune righe qualche mese fa: lo scandalo Datagate. In quel post sottolineavo la gravità del comportamento del Governo federale […]