Reduce dall’intensa giornata di ieri trascorsa al K.Lit – Festival dei blog letterari di Thiene ad ascoltare interessanti interventi sul libro, sulla letteratura e sul mondo che vi ruota attorno, continuano a frullarmi in testa due chiodi fissi.
Il primo è di natura generale: se il modello organizzativo “diffuso” del K.Lit è a mio avviso stato vincente (avendo animato piazze, parchi, edifici storici e pubblici di un’intera città) occorre però riconoscere che il pubblico era mediamente scarso e costituito perlopiù da “addetti ai lavori”, il che, se da un lato ha consentito ad alcuni relatori di adottare un fecondo approccio “intimista” (per dirla con i C.S.I.) dall’altro conduce a due riflessioni tra di loro correlate: 1) dimostra una volta ancora, al netto del fatto che si trattava della prima edizione, come il “movimento” attorno a libri, e-book, nuove frontiere dell’editoria, etc. sia più chiassoso che rumoroso 2) se i numeri sono questi, si spera non sia messa a repentaglio la riproposizione di questo festival, ripeto, davvero molto bello (magari con qualche aggiustamento, che pur a mio parere ci vuole!).
Il secondo “chiodo”, che è poi quello che ha dato il titolo a questo post, è di natura più tecnica (in linea con questo blog d’altronde) e riguarda il tanto vituperato impact factor (IF), vale a dire quell’indice, usato anche in biblioteconomia, che misura il numero medio di citazioni ricevute in un particolare anno da parte di articoli pubblicati in una data rivista scientifica nei due anni precedenti e che dovrebbe stabilire (ma ci riesce fino ad un certo punto in quanto manipolabile) importanza e “scientificità” di articoli (con relativi autori) e riviste.
Orbene, nel corso di un interessante tavola rotonda incentrata sulla precarietà nel mondo del lavoro la giornalista Marta Perego ha candidamente confessato (non che sia una colpa, si intende) come lei torni più volte nel corso della giornata a controllare quanti “Like”, “Retweet”, “PinIt” eccetera ha ricevuto il suo nuovo articolo, servizio, post o quel che è.
Per il bibliotecario sopito che è in me il passo alla riflessione successiva è stato breve: come noto l’impatto (e dunque la circolazione e di qui il successo) che un articolo ha in Rete dipende direi in modo pressoché proporzionale dal numero di condivisioni, “rimpalli” ed amplificazioni che esso riceve. Di questi articoli molti sono oggettivamente spazzatura ma altri sono di sicuro valore e purtroppo sfuggono completamente dal radar dell’IF, tutto richiuso in autoreferenziali logiche accademiche.
Naturalmente la presenza di centinaia o meglio ancora di migliaia di “Like” e “Retweet” non trasforma automaticamente un post in un capolavoro della saggistica meritevole di pubblicazione (dipende infatti anche da chi dice “I Like” e da chi retwitta; manca in altri termini un po’ di sana peer review), però è indubbio che tali “indicatori di gradimento” vadano oramai presi in considerazione.
La Rete è piena di materiale valido ed i bibliotecari già con le folksonomie (ovvero i tag e le parole chiave generate dagli utenti in modo essenzialmente “arbitrario”, senza cioè l’ausilio di strumenti, per intenderci, come thesauri o soggettari) e con le auto-catalogazioni da parte dei lettori dei libri che leggono (in siti come aNobii o ancor più GoodReads, Zazie e soprattutto LibraryThing) sono rimasti indietro rispetto ai ritmi del web: non vorrei che oggi accadesse altrettanto con le nuove modalità di attribuire il “rating” alle risorse online.
Forza bibliotecari, c’è un intero mondo da… catalogare, soggettare e valutare!
8 Lug