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Gli archivi sulla nuvola alla prova dell’uragano Sandy

A quanto pare è destino che gli uragani fungano da banco di prova per gli archivi digitali: nel 1995 l’uragano Marilyn colpì violentemente le Isole Vergini provocando vittime e danni ad edifici tanto pubblici quanto privati: sulla scorta di quell’evento il National Media Lab redasse delle linee guida (una sintesi in italiano la trovate all’interno del volume “Memorie digitali: rischi ed emergenze”, pubblicato dall’ICCU nel 2005) su come minimizzare i danni in simili casi.
Alcuni dei consigli forniti allora mantengono appieno la loro validità (in particolare quelli su dove collocare fisicamente i sistemi di archiviazione ed i sistemi ed i supporti informatici contenenti dati, ovvero in piani che non siano il primo e l’ultimo ed in locali non affacciantesi sull’esterno) ma molti altri appaiono anacronistici ed evidenziano quanta strada abbia fatto la tecnologia in questi tre lustri e, di riflesso, quanto la nostra vita dipenda in modo sempre più stringente da quest’ultima.
Un esempio su tutti: 15 anni fa il NML suggeriva di scollegare dalla rete elettrica tutte le apparecchiature elettroniche e di impacchettarle in apposite buste di plastica mentre oggi la lotta con l’uragano Sandy si è giocata tutta, al contrario, proprio sul riuscire ad evitare di finire offline! Del resto all’epoca l’ipotesi di “vivere senza Internet” ed i vari dispositivi tecnologici ad essa collegati per alcuni giorni non sollevava particolari problemi, a differenza di oggi dove la cosa sarebbe vissuta come una tragedia!
Non è dunque un caso se siti e blog nordamericani hanno fatto a gara a raccontare, praticamente minuto per minuto, quali e quanti data center (con relativi servizi) “andavano giù”; molti commentatori infatti hanno sottolineato come fosse, quella presente, una prova del nove della sostenibilità del modello del cloud computing (con annesso servizio di archiviazione) il quale ha come imprescindibile corollario l’essere always on.
Come spesso accade non c’è unanimità sul fatto che la prova sia stata superata o meno: come mostra l’analisi di Renesys (sintetizzata nel video qui sopra) in termini percentuali appena il 10% dei network dell’area di New York sono rimasti colpiti anche se, aggiunge poco sotto la stessa società, considerando la densità di reti è come se l’intera Austria si fosse bloccata, il che non è esattamente una cosa da niente!
Vittime di Sandy, del resto, sono stati anche servizi di primo piano come Gawker (che annovera tra i suoi siti pure il tecnologicissimo Gizmodo!) ed il celeberrimo Huffington Post, tutti “ospitati” nei server della newyorkese Datagram Inc. che, nel momento in cui scrivo, ha da poco terminato di svuotare i propri locali dall’acqua ed opera dunque ancora in regime di piena emergenza.
L’acqua infatti, oggi come per gli archivi cartacei dei secoli passati, si è rivelata ancora una volta essere la minaccia principale: evidentemente molti data center erano fisicamente collocati in locali non idonei (vuoi vedere che macchinari dal valore complessivo di centinaia di migliaia di dollari sono finiti negli scantinati?!) o comunque senza tener conto di possibili criticità idrauliche (l’agglomerato urbano di New York in definitiva sorge su più isole ed è attraversato da grossi fiumi come l’Hudson e l’East River).
Sono stati proprio gli allagamenti diffusi, una volta che la Conedison (la società energetica che serve New York; n.d.r.) ha interrotto l’erogazione di corrente, ad impedire ad un gran numero di generatori ausiliari di entrare in azione! Ma va tenuto presente che anche nei casi in cui i generatori sono correttamente entrati in funzione si è palesata la limitatezza dell’autonomia vuoi perché le scorte non erano sufficienti (le 48 – 72 ore di norma previste sono risultate troppo poche per un’emergenza di questa portata) vuoi perché gli stessi serbatoi erano finiti in ammollo. Questo ha costretto molti tecnici ad un’affannosa ricerca per la città di pompe di benzina per sopperire alla carenza del prezioso carburante! Su “The Verge” Adrianne Jeffries ha spiegato con dovizia di particolari un’emergenza tipo, con i tecnici sistemisti che, una volta riempite le taniche, hanno dovuto travasare a mano il loro contenuto nei serbatoi dei generatori operando in ambienti invasi da un misto di acqua, carburante e rifiuti.
Un’altra criticità chiaramente emersa, e che deve far profondamente riflettere, riguarda poi la collocazione geografica dei centri secondari di back-up e ripristino: è evidente che se i succitati servizi sono andati giù ciò è dipeso dal fatto che non solo i siti primari ma anche quelli secondari hanno fatto cilecca. Difatti è emerso che molti di questi siti secondari si trovano nel vicino New Jersey (vicino in senso relativo; è più o meno come se un’azienda di Milano avesse il suo sito secondario nei pressi di Bologna…), investito anch’esso dalla furia di Sandy.
Ovviamente non tutto è filato storto, anzi, prendendo per buona e rigirando la statistica citata all’inizio si può a buon diritto affermare che nel 90% dei casi le procedure ed i sistemi d’emergenza hanno funzionato a dovere (qui alcuni esempi). Pertanto mi sembra si possa tranquillamente affermare che complessivamente il “modello cloud computing” abbia retto all’urto e che anzi esso, se sarà capace di metabolizzare le lessons learned ovvero:
1) porre serbatoi, generatori e sale macchine in zone al riparo dagli allagamenti,
2) costruire i centri secondari di ripristino a debita distanza dal primario, sacrificando magari qualche frazione di secondo in fatto di tempi di latenza,
potrà, almeno dal punto di vista tecnologico, divenire davvero un modello altamente affidabile tale da assicurare un elevato grado di sopravvivenza ai nostri archivi digitali sulla nuvola.
Certo, resta il problema di fondo della dipendenza assoluta dall’energia elettrica, ma questo è un limite generale della nostra società e personalmente non vedo soluzioni soddisfacenti all’orizzonte (la diversificazione, magari puntando sulle rinnovabili, al momento non è che un palliativo) e pertanto lo lascerei fuori dal dibattito fin qui fatto.
Va infine sottolineata l’eccezionalità, relativamente alle aree geografiche interessate, del fenomeno meteorologico in oggetto ed anzi c’è da domandarsi (ma qui mi rendo perfettamente conto che entriamo nel campo della pura speculazione): quanti archivi, digitali ed analogici, sarebbero sopravvissuti se un’emergenza simile si fosse verificata in Italia?