Fahrenheit 451 e libertà della Rete

[18/366] Imagine a World Without Free Knowledge

18/366 Imagine a World Without Free Knowledge di Caesar Gonzalez - Destinos 360, su Flickr

In questi giorni in cui sul Web monta la protesta contro le due leggi imbavaglia-Rete / ammazza blog allo studio del Congresso statunitense (i nomi sono molto buffi, SOPA e PIPA, acronimi che stanno per Stop Online Piracy Act e Protect IP Act), ho portato a termine, con colpevole ritardo, la lettura del libro Farhenheit 451 di Ray Bradbury. Si tratta, per chi non ne conoscesse la trama, di un romanzo fantascientifico ambientato in un futuro caratterizzato dalla presenza di uno Stato di stampo autoritario e militaresco che cerca di sopire le menti dei propri cittadini grazie al controllo dei mass media e soprattutto bruciando i libri (è questo il lavoro del protagonista, Guy Montag), visti come “portatori di infelicità” in quanto capaci di far ragionare le persona con la propria testa e guardare alla realtà in maniera critica e “problematica”. Di più: anche le conversazioni ed il dialogo, che da questi libri potrebbe trarre spunto, sono da bandire! Meglio che le persone stiano in salotto ad ascoltare passivamente le chiacchiere inutili della “famiglia” (personaggi televisivi sparati attraverso maxi schermi da parete con i quali si ha una parvenza di interazione) o le insistenti cantilene della pubblicità…
Come viene quasi spontaneo fare allorquando si legge un libro di fantascienza, mi son messo a “fare la conta” di quante volte l’autore ci “ha azzeccato” e di quante invece ha sbagliato nelle sue “previsioni” (non che egli volesse fare l’astrologo, si intende!). In alcune cose, bisogna ammettere, Bradbury è stato tremendamente buon profeta (ruolo della televisione e passività con la quale ci poniamo di fronte ad essa, con pubblicità martellante, ricerca edonistica della felicità, etc. etc.) ma in altre, per fortuna, no! Ad esempio dobbiamo ancora arrivare al punto di bruciare i libri, le principali libertà (almeno in Occidente) sono garantite, la tecnologia generalmente non viene percepita come “liberticida”, anzi si ritiene che essa abbia svolto un ruolo di primo piano nell’organizzare e coordinare quei movimenti di rivolta e ribellione etichettati come “primavera araba”.
Specialmente su quest’ultimo punto vorrei soffermarmi: ricordato che il dibattito a riguardo è aperto e le opinioni talvolta diametralmente opposte, personalmente mi colloco in una posizione intermedia, nel senso che ritengo che le speranze libertarie che avevano segnato l’avvento del personal computer siano state in gran parte disilluse, essendosi trasformate quelle stesse aziende che producono questi dispositivi in multinazionali che poco si distinguono, per le logiche con le quali si muovono sul mercato e le modalità “operative” (ricerca del massimo profitto, uso di manodopera a basso costo, scarso rispetto dell’ambiente, etc.) da quelle che le hanno precedute. Nemmeno però credo che tra i loro scopi vi sia quello dell’asservimento del genere umano mettendosi al servizio di regimi dittatoriali. Semplicemente esse si adattano ai vari contesti (in altri termini, se in uno Stato = mercato c’è la democrazia bene e se non c’è… amen, tanto un compromesso lo si trova sempre), mettendosi la coscienza in pace con qualche bella iniziativa umanitaria e per il resto dicendo a loro stesse che non è loro compito diffondere la democrazia nel mondo.
Fino ad ora grosso modo è andata così; purtroppo, l’ho già accennato in un altro post, guardando all’evoluzione del panorama tecnologico, le cose stanno cambiando e qualche motivo di preoccupazione c’è: è infatti evidente, con il cloud computing, il ritorno alla costruzione di maxi data center contenenti migliaia di computer che, uniti tra di loro, formano mega-computer dalle elevatissime potenze di calcolo. A prescindere poi dal fatto che questi enormi data-center appartengano a / siano gestiti per conto delle summenzionate multinazionali (che diventano dunque depositarie dei nostri dati e delle nostre “vite digitali”) lo stesso tipo di tecnologie oggigiorno diffuse deve fare riflettere: sotto l’apparenza “ludico – sociale” dei vari social network vi è, come noto, una tecnologia che “traccia” ogni nostra azione e movimento (geo-tagging), preferenza, gusto, opinione e via discorrendo. Tutte informazioni raccolte, come noto, per meri fini pubblicitari (un marketing pressoché personalizzato è ritenuto più efficace).
Ne risulta una società che, sotto un’apparenza rassicurante, rischia di diventare quella che David Lyon definisce come “sorvegliata” e soprattutto una società in cui è alto il pericolo che l’intera sua memoria venga eliminata con un semplice comando da parte di coloro ai quali affidiamo un po’ troppo spensieratamente le nostre vite digitali e che un giorno potrebbero facilmente trasformarsi in novelli incendiari.
Credo dunque, per chiudere il ragionamento, che sia sicuramente giusto protestare affinché la Rete resti libera, ma con la consapevolezza che a monte è altrettanto importante assicurare che le infrastrutture che supportano la nostra esistenza digitale siano, per così dire, “democratiche”; perché se poi basta un click per oscurare tutto torniamo daccapo! Di qui l’importanza di realizzare molteplici repository decentralizzate e delocalizzate nonché di costruire cloud pubbliche (nel senso qui di “appartenenti alla comunità”) consapevoli del fatto che, allo stesso modo in cui trent’anni fa la potenza di calcolo fu atomizzata presso ciascun individuo, lo stesso oggi si può fare sul versante dell’archiviazione / condivisione con le “nuvole familiari” (un buon NAS con adeguate capacità lo si può comprare con poche centinaia di euro) in modo tale da poter godere dei vantaggi del cloud senza rinunciare alla privacy ed al controllo sulla propria vita digitale.

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